Sebenico, dove l’Adriatico sposa dolce e salato
Uno sguardo adriatico rivolto alla più croata e alla più rinascimentale delle città dalmate: Sebenico, antica e raffinata officiante dello sposalizio tra Krka ed Adriatico, luogo d’incontro tra acque dolci e salate

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Sebenico, Croazia. Fortezza di San Niccolò - foto F. Fiori
Sebenico è la più croata delle città dalmate, per fondazione medievale e testimonianza scritta risalente al 1066. Sebenico è la più rinascimentale delle città dalmate, per edificazione della Cattedrale, avviata nel 1431, quando la città era già sotto il controllo veneziano da una ventina d’anni. Ma Sebenico è innanzitutto geograficamente luogo d’incontro tra acque dolci e salate, quelle fresche del Cherca e quelle tiepide dell’Adriatico.
Sebenico è perciò un’antica e raffinata officiante dello sposalizio tra Krka e Jadran. Uno sposalizio che il marinaio omaggia entrando nel Canale di Sant’Antonio, che collega il mare allo specchio acqueo interno su cui s’affaccia la città. Uno sposalizio che il flâneur ammira salendo alla Fortezza di San Giovanni, che insieme a quelle di San Michele, del Barone e di San Nicolò, isola fortezza quest’ultima, hanno per secoli protetto la città dal pericolo turchesco.
Da lassù l’architettura militare veneziana restituisce tutta la sua forza, che impressiona anche chi è contro ogni esercito, patria, bandiera, inno, celebrazione. Di ieri, oggi e domani. Per inciso, la visita alla città il 5 agosto scorso, “Giornata della Vittoria e del Ringraziamento alla Patria”, nel trentesimo anniversario della “Operacija Oluja” l’operazione tempesta, appare a un pacifista come un pericoloso ritorno al passato e per tutti dovrebbe essere un monito ai pericoli identitari.
Soprattutto per chi come me, trent’anni fa sempre venendo dal mare, all’epoca semideserto, ha visto la Cattedrale in rovina dopo i criminali bombardamenti dell’Armata della Repubblica Federale di Jugoslavia e ha ascoltato i racconti delle vittime civili e inermi.
Soprattutto per chi come me non ha trovato nulla, né ieri né oggi, che ricordi un grande figlio di Sebenico: Nicolò Tommaseo. Nato nel 1802, di lingua e cultura italiana, parlava anche il croato, appreso dalla madre. Cosmopolita per anagrafe, studi, esperienze, lotte e lavoro. Nicolò Tommaseo, Homo adriaticus, nell’accezione più ampia e multiculturale, idealtipo di Sebenico, civitas adriatica, per urbanistica, architettura e storia.
Tommaseo scrisse dizionari, saggi, racconti, versi in italiano e fu fervente risorgimentale. “Riscoprì” poi il croato, apprezzandolo e studiandolo, scrivendo le Iskrice, 33 canti poetici in prosa, pubblicati per la prima volta a Zagabria nel 1844. Il curatore, Ivan Kukuljević Sakcinski, “dedicò il libro Svemu narodu jugoslavenskomu, ossia A tutto il popolo jugoslavo, e per jugoslavo intendeva il sinonimo illirico, termine allora vietato”, ci ricorda con attenzione Egidio Ivetic.
Se la statua ottocentesca a Tommaseo è stata rimossa e distrutta nel 1945, nel 1960 ne è stata eretta un’altra per un sebenicènse d’adozione altrettanto illustre: Juraj Dalmatinac per Wikipedija, Giorgio di Matteo da Zara per Treccani. Il bronzo di Ivan Meštrović, celebra l’artista e architetto dalmata di grande talento nato introno al 1410, un padre di quel fenomeno culturale che è definito Rinascimento adriatico, di cui la sua Cattedrale di San Giacomo è uno dei capolavori.
All’interno scopro con grande soddisfazione un’icona della Madonna con Bambino che mi ricorda la Mesopanditissa della Basilica della Salute. “Gospa od Zdravlja”, mi dice la custode, un’icona che nella sua oscura materna severità fa di Sebenico un ideale pilastro di quel ponte culturale che collega Venezia, città madre, a Creta, isola figlia. Isole dalmate che nel mio immaginario sono il più settentrionale degli arcipelaghi greci o, riprendendo idee di Tommaseo, sono crocicchio di culture latine, slave ed elleniche.
“Sparge il vento qua e là i piccoli semi ciascuno de’ quali crescerà in grande pianta”, scrive Tommaseo nella seconda scintilla e noi con lui siamo sempre alla ricerca di piccoli semi in forma di parole slovene, croate, bosniache, serbe, montenegrine, albanesi e di tutte le genti adriatiche che diffidano delle identità, mentre amano e costruiscono appartenenze.
Barca in ormeggio, cime tesate da aria fresca di Borino, cielo color ocra. Sto finendo di prendere gli ultimi appunti della mia flânerie sebenicense in pozzetto, quando da basso sento:
“Ai sém, vin ulta!”. È Andrea, il nostro insuperabile cuoco di bordo romagnolo che mi chiama per la cena. Ha cucinato una deliziosa riblja juha, con un chilo di saraghetti freschissimi, acquistati dal pescatore nel mandracchio di Šepurine. Il più piccolo dei due porti dell’isola di Prvić, dove siamo ormeggiati. La Provicchio veneziana, che insieme alla dirimpettaia isola di Zlarino segna la porta d’ingresso occidentale del Canale di Sebenico.
“Salute!”, brinda con la ciurma, alzando una pivo ghiacciata kapetan Kika, appena scendo nel quadrato.
“Živjeli!”, rispondo, alzando la mia Karlovačka.
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