Sanzioni USA alla Russia, Bulgaria in fibrillazione

Le nuove sanzioni USA al Cremlino coinvolgono gli asset delle compagnie energetiche russe ancora attive in Europa sud-orientale: tra i paesi più coinvolti la Bulgaria, dove Lukoil possiede la principale raffineria petrolifera

07/11/2025, Francesco Martino Sofia
Impianti Lukoil a Burgas © niki_spasov/Shutterstock

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Impianti Lukoil a Burgas © niki_spasov/Shutterstock

L’obiettivo di questo provvedimento è fermare sul nascere i tentativi di speculazione. In molti guardano con sguardo interessato allo sviluppo dei prezzi [dei carburanti]”.

Così lo scorso venerdì 31 ottobre il presidente della commissione bilancio del parlamento di Sofia, Delyan Dobrev, ha argomentato la decisione lampo dell’assemblea nazionale bulgara di vietare a tempo indeterminato l’esportazione di diesel e carburante per l’aviazione, sia verso paesi dell’Ue che verso paesi terzi.

Per spingere una pronta entrata in vigore del divieto, la variopinta maggioranza oggi al potere a Sofia (GERB, socialisti, populisti di “C’è un popolo così”, Movimento per le libertà e i diritti- Nuovo inizio, capeggiato dall’oligarca Delyan Peevski) ha agito con inusuale decisione.

Nella mattinata di venerdì la proposta è passata in commissione finanze, mentre poche ore dopo l’ordine del giorno del parlamento è stato modificato per arrivare ad una rapida approvazione pure in aula, sostenuta anche dal principale movimento di opposizione, i riformisti di “Continuiamo il cambiamento”.

A preoccupare, secondo le dichiarazioni ufficiali, è la dinamica dei prezzi (e delle esportazioni) nella regione, soprattutto dopo la recente approvazione delle sanzioni di Washington che – con l’obiettivo dichiarato di indebolire la posizione del Cremlino e portare Vladimir Putin al tavolo negoziale con l’Ucraina – colpiscono i giganti energetici russi, Gazprom, Rosnef e Lukoil, tutti con posizioni ancora radicate in Europa sud-orientale.

Tra le compagnie interessate dalle sanzioni, c’è anche la serba NIS (Naftna Industrija Srbije), controllata da Gazprom a partire dal 2009, quando il pacchetto di maggioranza venne pagato dalla compagnia russa 400 milioni di euro, un prezzo allora considerato molto vantaggioso per l’acquirente.

L’applicazione delle sanzioni USA, dopo varie proroghe nei mesi scorsi, impedisce ora l’arrivo di greggio alla raffineria di Pančevo, non lontano da Belgrado, che potrebbe vedersi costretta a fermare gli impianti prima della fine di novembre.

Il presidente serbo Aleksandar Vučić, rivolgendosi ai cittadini, ha dichiarato che i depositi di carburante nel paese sono pieni, e che “non ci sarà né mancanza di greggio né dei suoi derivati”, e quindi, di conseguenza “nessuna crisi energetica”.

Nel frattempo però in una situazione di generale incertezza, i prezzi del carburante – soprattutto il diesel – sono cresciuti sensibilmente, creando un gap importante con quelli della vicina Bulgaria: oggi un litro di miscela a Belgrado costa in media 1,67 euro, contro l’1,20 nelle pompe bulgare.

Una situazione che, secondo il parlamento bulgaro, crea le condizioni ideali per il contrabbando: la mente di molti torna ai turbolenti anni ‘90, quando il transito di carburante verso l’allora Jugoslavia di Slobodan Milošević – sottoposta a sanzioni internazionali durante le guerre di disfacimento della federazione di Tito – creò fortune entrate nel mito nazionale per doganieri e gruppi criminali bulgari.

Le misure adottate, quindi, secondo la maggioranza avrebbero un carattere prettamente preventivo, e non sarebbero legate a rischi immediati alla sicurezza energetica della Bulgaria. A uno sguardo più ravvicinato, però, la situazione appare molto più complessa.

Anche in Bulgaria i giganti energetici russi giocano ancora oggi un ruolo di primo piano, ed anche qui le sanzioni americane hanno creato subbuglio. Al centro della tempesta, stavolta, c’è Lukoil che controlla l’unica raffineria del paese, situata sulla costa del mar Nero a Burgas, gestisce 220 stazioni di rifornimento, e conta migliaia di imprese che gravitano nel suo indotto.

Dal 21 novembre – scrive il portale bulgaro Mediapool – a causa delle sanzioni la raffineria non potrà più effettuare pagamenti bancari verso cittadini americani o utilizzando come tramite istituzioni finanziarie USA.

Questo significa che la Lukoil dovrà interrompere i suoi pagamenti per le forniture di greggio, perché altrimenti i soggetti coinvolti dalle transazioni potrebbero essere colpiti dalle sanzioni”, ha commentato – sempre per Mediapool – Martin Vladimirov, direttore del programma “Energia e clima” del Centro per lo studio della democrazia di Sofia.

Già a fine 2023, con le progressive restrizioni alle attività delle aziende russe in UE, la stessa Lukoil aveva annunciato la sua volontà di vendere i propri asset in Bulgaria. Nel corso dei mesi, varie compagnie hanno mostrato interesse, come l’ungherese MOL, la kazaka KazMunayGas e un consorzio azero-turco.

Ad oggi, però, non si ha notizia di sostanziali sviluppi in questa direzione. Non solo: come fa notare Vladimirov, citato nuovamente da Mediapool, con le sanzioni in vigore, anche se si dovesse arrivare ad un accordo, la compravendita risulterebbe comunque impossibile da portare formalmente a termine.

Con la scadenza del 21 novembre alle porte, tramite i suoi ministri il governo bulgaro ha assicurato di avere un “chiaro piano” per sbrogliare la matassa della questione Lukoil, senza però fornire elementi sostanziali sulla natura della strategia che intende adottare.

Lo scenario più probabile sembra la nomina di un “amministratore particolare” da parte dello stato, che prenda le redini dell’azienda e permetta alla raffineria di continuare ad operare: una soluzione che però per le voci critiche somiglia pericolosamente ad una vera e propria nazionalizzazione, con scenari inediti e non privi di rischi.

Un’altra soluzione riguarda la possibile vendita di tutte le attività estere di Lukoil – comprese quelle presenti in Bulgaria – a Gunvor, gigante delle transazioni petrolifere con sede in Svizzera. A porre un punto interrogativo sull’operazione, spiega Mediapool, è però la presenza almeno in passato di collegamenti tra Gunvor e il presidente russo Vladimir Putin, che in questa fase verrebbe passata al setaccio da parte delle autorità USA.

Nel frattempo, in Bulgaria è stata lanciata una verifica delle quantità di carburante effettivamente messe in riserva per affrontare un possibile, per quanto ripetutamente smentito, periodo di crisi. Secondo le autorità tutto è nella norma, i depositi sono pieni come prevedono le normative.

Non tutti però ne sembrano convinti. “La maggioranza assicura che tutto è sotto controllo, e che ci sono riserve per almeno 90 giorni. Sappiamo tutti che si tratta di pure frottole, visto che parte delle aziende che commerciano carburante non contribuiscono all’accumulo delle riserve”, ha dichiarato ai giornalisti il deputato Ivaylo Mirchev, co-presidente del movimento di opposizione liberale “Sì, Bulgaria”.

I risultati delle verifiche dovrebbero essere annunciati a breve. Anche in caso di risultati positivi, però, i rischi sulla stabilità economica ed energetica in Bulgaria, così come nella regione più ampia, sembrano essere concreti e difficili da sottovalutare.

Questo articolo è stato prodotto in collaborazione con la testata bulgara Mediapool nell'ambito di PULSE, un'iniziativa europea coordinata da OBCT che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali.

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