Minoranze, migranti, disoccupati: sul Danubio il cibo diventa inclusione
L’europa balcanica e danubiana intreccia da secoli tradizioni e suggestioni, anche in cucina. Ora due progetti comunitari – Culinary Trail e SReST – valorizzano la ricca varietà gastronomica del sudest europeo puntando su gruppi svantaggiati, aree spopolate e tutela del territorio

Piatto di sarma © Julie208/Shutterstock
Piatto di sarma © Julie208/Shutterstock
Non c’è un modo precostituito per sfogliare il catalogo. Si può provare in ordine alfabetico e iniziare con i peperoni e melanzane speziate dell’adjapsandal, arrivato dal Caucaso all’Ungheria, dove è ancora preparato dalla sparuta ma vitale comunità armena.
Oppure, più comodamente, si può cercare per area di origine, o per gruppo etnico-culturale: si incrocia così il podovarak “ciganski”, piatto unico di carne, riso e crauti dei rom di Serbia, la rosnica dei gorani delle Alpi dinariche, o la minestra di bobici degli italiani d’Istria.
Sono oltre 700 le ricette raccolte nel progetto europeo Culinary Trail, che ripercorre e valorizza la gastronomia delle minoranze presenti nei diversi paesi dell’area danubiana.
SReST, un’altra iniziativa dello stesso programma comunitario – Interreg Danube – si pone su un altro livello: coinvolgere immigrati, minoranze e gruppi socialmente svantaggiati in una filiera gastronomica “slow” che valorizza i piatti della tradizione.
Entrambi i progetti partono dalla convinzione che il cibo, oltre a rappresentare un patrimonio culturale molto più variegato di quanto raccontino le ufficiali “cucine tipiche”, possa diventare uno strumento di emancipazione sociale.
Le cucine delle minoranze
Che il Danubio, uno dei fiumi più internazionali al mondo, sia un territorio intrinsecamente multiculturale non è una novità. Meno scontato è che questa pluralità emerga nei racconti ufficiali delle cucine nazionali, soprattutto da quando il cibo è diventato un prodotto da vendere a un turismo in cerca di un autenticità spesso costruita ad hoc.
In questo processo le sfumature – e con esse il contributo delle minoranze – tendono a scomparire. È proprio qui, secondo i promotori di Culinary Trail, che si apre una possibilità di riscatto.
“Alla base del progetto c’è l’idea di proteggere e promuovere il patrimonio culinario della regione danubiana”, spiega Janja Lozar, ricercatrice della Scuola di studi avanzati di Nova Gorica e responsabile dello sviluppo metodologico. “Ma c’è anche un aspetto di innovazione sociale: vogliamo includere questo patrimonio in nuovi modelli di impresa, anche attraverso il turismo”.
Con un budget di 2,2 milioni di euro, 20 paesi coinvolti e 28 partner, Culinary Trail lavora con 30 gruppi etnici e culturali dell’area danubiana. Alcuni – come rom, ebrei, gorani e bunjevci – sono minoranze diffuse in più paesi; altri sono comunità nazionali altrove ma minoritarie nei contesti di progetto, come gli sloveni in Austria o gli italiani in Istria. “Questo permette di far emergere specificità che altrimenti restano invisibili nelle narrazioni delle cucine ‘tipiche’”, osserva Lozar, citando il caso della cucina italiana nella costa slovena: “È più vicina alla tradizione veneziana, ma nella maggior parte dei ristoranti i menù sono standardizzati”.
Accanto ai gruppi storici, il progetto ha coinvolto anche comunità di più recente insediamento – filippini, tailandesi, indiani e cinesi – interessate a valorizzare le proprie tradizioni gastronomiche. “Per alcuni ristoratori”, racconta Lozar, “il marchio di Culinary Trail può diventare un incentivo a proporre piatti legati alla regione di origine”.
I gruppi aderenti sono numerosi, ma non rappresentano che una frazione dell’enorme diversità della regione, spiega Jasmina Jakomin, responsabile di progetto. “Abbiamo selezionato le comunità più presenti, vitali e interessate a interfacciarsi con noi. Una volta identificati i gruppi, il percorso di coinvolgimento è graduale, con una serie di incontri, analisi partecipate. Poi si procede alla raccolta dei dati per il catalogo, che comprende non solo ricette, ma anche bevande, metodi e strumenti di cottura.”
L’obiettivo finale – sin dal nome – è costruire un vero e proprio itinerario culinario transnazionale, in dialogo con altre forme di turismo lento, come le piste ciclabili lungo i fiumi danubiani. Il tutto accompagnato da attività di formazione professionale, strategie dettagliate realizzate su sette siti pilota.
Altrettanto importanti sono gli eventi gastronomici pubblici, tra food truck e battelli fluviali adibiti a punti ristoro. Il 30 maggio prossimo a Novo Mesto, in Slovenia, è previsto un grande evento finale.
Chi frequenta il sud-est europeo lo sa: spesso tradizioni rivendicate gelosamente come esclusive si rivelano molto simili. “È accaduto più volte anche in Culinary Trail”, sorridono Lozar e Jakomin. “Per esempio, durante un evento, comunità turche e macedoni hanno portato entrambe la sarma avvolta in foglie di vite. A un primo sguardo sembravano identiche, ma il sapore era completamente diverso. Anche quando condividono lo stesso nome, le ricette cambiano di villaggio in villaggio”.
Dal patrimonio all’inclusione
Se Culinary Trail lavora sulla mappatura e la valorizzazione delle cucine minoritarie, SReST – Socially Responsible Slow food Tourism – agisce sul versante sociale della gastronomia. Con un budget di 1,5 milioni di euro (80% dei quali provenienti da fondi di coesione) e partner in sette paesi (Slovenia, Croazia, Slovacchia, Ungheria, Montenegro, Serbia e Bosnia Erzegovina), il progetto punta a coinvolgere migranti, minoranze e gruppi socialmente svantaggiati all’interno di una filiera gastronomica ispirata ai principi dello slow food, rafforzando al contempo il legame tra cibo e territorio.
“Il cibo è uno strumento molto concreto per creare inclusione”, spiega Snežana Simić di Visit Postojna (Postojna/Postumia il comune che ospita le celebri grotte è l’ente capofila). “Crea occupazione attivando l’intera catena del valore locale, mettendo in relazione agricoltori, cuochi, guide turistiche e comunità locali. Questo – prosegue – genera nuovi ruoli per disoccupati, giovani, migranti e altri gruppi vulnerabili integrandoli nella produzione e fornitura di esperienze gastronomiche autentiche, aiutandoli a diventare parte attiva dell’economia locale”.
La strategia di SReST parte infatti dall’agrobiodiversità – varietà tradizionali, ingredienti locali, cibi spontanei – per costruire itinerari gastronomici ‘lenti’, capaci di generare domanda per i prodotti del territorio e di trattenere il valore economico nelle regioni coinvolte.
Le azioni sono state testate in diverse aree pilota. Nella regione slovena Carniola Interna-Carso, e sull’isola di Veglia (Krk), il progetto ha lavorato sull’inclusione dei migranti nel turismo slow food, attraverso percorsi di formazione culinaria e culturale.
“A Postumia molti partecipanti hanno trovato impiego in diversi rami del settore turistico”, racconta Simić. “Tra questi, un gruppo di donne ucraine che ha partecipato alle nostre attività ha creato un’associazione attraverso la quale hanno una serie di piccole attività imprenditoriali”.
A Sarajevo, invece, l’attenzione si è concentrata su chef con disabilità, coinvolti in corsi che spaziano dalle competenze culinarie di base alle certificazioni per l’igiene e la sicurezza alimentare. In Ungheria, nella regione di Hajdú-Bihar, il focus è stato sui disoccupati, mentre a Bratislava e nella contea croata di Primorsko-Goranska sono stati sviluppati curricula educativi dedicati alle pratiche slow food.
Un tema trasversale è quello delle aree rurali e dello spopolamento: SReST cerca di coinvolgere chi resta – giovani e anziani – valorizzando saperi spesso informali. In questo quadro, le donne sono riconosciute come custodi fondamentali delle ricette tradizionali e dell’ospitalità comunitaria, e il progetto mira a trasformare queste competenze in opportunità economiche.
Anche per i piccoli produttori, spesso privi di certificazioni formali, SReST sperimenta forme alternative di riconoscimento, basate sulla trasparenza, sul racconto dell’origine dei prodotti e sull’inserimento nei circuiti del turismo gastronomico.
“Costruire fiducia richiede tempo”, conclude Simić, “soprattutto con persone che hanno vissuto esperienze di instabilità o esclusione. Ma quando funziona, il cibo diventa un linguaggio comune: non solo un patrimonio da preservare, ma un mezzo per creare lavoro, relazioni e senso di appartenenza”.
Questo articolo è stato prodotto nell’ambito del progetto EuSEE, co-finanziato dall’Unione europea. Tuttavia, i punti di vista e le opinioni espresse sono esclusivamente quelli dell’autore/degli autori e non riflettono necessariamente quelli dell’autorità concedente e l’Unione europea non può esserne ritenuta responsabile.
Tag: Coesione europea | EuSEE
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