Dalla Bosnia all’Ucraina: i diritti dimenticati nei negoziati di pace
Pur con evidenti e gravi limiti, gli accordi di Dayton – che 30 anni fa misero fine alla guerra in Bosnia Erzegovina – hanno inserito i diritti umani come pilastro per una pace giusta e duratura. Una lezione che, guardando ai colloqui di pace in Ucraina, sembra però dimenticata

Parigi, dicembre 1995. Durante la firma dell’Accordo di Dayton – Foto dominio pubblico
Parigi, dicembre 1995. Durante la firma dell'Accordo di Dayton - Foto dominio pubblico
Domenica 14 dicembre segna il 30 anniversario della ratifica formale dell’Accordo di Pace della Bosnia Erzegovina. L’accordo, firmato a novembre presso la base aerea Wright-Patterson di Dayton, Ohio, e più ampiamente noto come accordo di Dayton, fu infine ratificato a Parigi il 14 dicembre.
In occasione di quell’anniversario, la maggior parte dei commenti si è concentrata sulla complessa architettura costituzionale della BiH nata da quell’intesa, sottolineando come il paese sia spesso ancora paralizzato dalla lotta tra i partiti politici che affermano di rappresentare i tre gruppi etnici e su come Dayton non sia riuscito a costruire uno stato funzionale.
Eppure, la maggior parte dei commenti sembra essere ignara della complessità e della quantità di dettagli forniti nell’accordo, trascurando le disposizioni relative alla protezione dei diritti umani in Bosnia Erzegovina e, in particolare, di coloro che sono stati sfollati dal conflitto, disposizioni che raramente sono state messe in discussione dai leader politici quando si opponevano alla loro implementazione.
Queste disposizioni sono ancora più rilevanti oggi, quando, alla luce delle discussioni di pace sul conflitto in corso in Ucraina (ma lo stesso principio vale anche per Gaza), i diritti degli individui – e in particolare di coloro che sono maggiormente colpiti dai conflitti – sembrano essere completamente scomparsi dal tavolo negoziale, come se fossero un vincolo inutile per i negoziatori, a favore degli interessi statali e delle grandi imprese.
Divisione della Bosnia Erzegovina
Il conflitto in Bosnia Erzegovina è durato tre anni e mezzo, causando circa 100mila morti (su una popolazione di poco più di 4 milioni di persone): di questi, le vittime civili furono almeno 38.000 (ovvero il 40% del totale totale). Il conflitto causò anche un milione di sfollati interni e un milione di rifugiati all’estero, cioè circa il 50% della popolazione complessiva del paese.
Il conflitto in Bosnia iniziò nell’aprile 1992 dopo che la Bosnia Erzegovina dichiarò l’indipendenza dalla Jugoslavia, a seguito delle dichiarazioni d’indipendenza di Slovenia e Croazia.
Immediatamente, i suoi vicini più grandi, prima la Serbia e poi la Croazia, con il pretesto di proteggere serbi e croati etnici da una presunta minaccia islamica, armarono e sostennero i leader secessionisti dei Serbi e Croati di Bosnia il cui obiettivo era spartirsi il paese e possibilmente cercare l’annessione con le vicine Croazia e Serbia, mentre il governo centrale di Sarajevo cercava di preservare l’integrità territoriale del paese.
Ne seguì un conflitto durato tre anni e mezzo, in cui crimini di guerra e crimini contro l’umanità furono commessi dalle tre fazioni. L’espressione “pulizia etnica” è stata ampiamente utilizzata per definire la pratica di espellere con la forza un intero gruppo etnico da una certa area che passava sotto il controllo della fazione nemica.
Durante i negoziati di pace, mediate dagli Stati Uniti con il sostegno della Russia e dei paesi europei, si decise che la Bosnia Erzegovina avrebbe continuato ad esistere come paese indipendente e che quindi la pulizia etnica non sarebbe stata ricompensata e non si sarebbe permesso alle aree sotto controllo serbo e croato di separarsi e unirsi a Serbia e Croazia.
Tuttavia, dovevano essere fatte concessioni ai leader de facto e gli accordi costituzionali emersi al tavolo della pace riflettevano la situazione sul campo: la linea del fronte divenne una linea amministrativa tra entità, e le autorità de facto furono riconosciute come istituzioni legittime dello stato di Bosnia Erzegovina.
Sebbene questi accordi costituzionali, e la loro attuazione da parte delle parti in guerra, presentassero il rischio di perpetuare le tensioni tra le parti in conflitto e, a lungo termine, creare uno stato disfunzionale, l’accordo di pace offriva garanzie robuste per la protezione dei diritti umani a livello nazionale, garanzie che miravano anche a fornire a rifugiati e sfollati la possibilità di trovare una soluzione al loro sfollamento.
Un paese solo sulla carta
Tuttavia, tre anni e mezzo di conflitto avevano completamente trasformato il paese, e non sarebbe un’esagerazione dire che alla fine del conflitto la Bosnia Erzegovina come stato esisteva solo sulla carta.
I funzionari internazionali (e io ero uno di loro) che lavoravano in Bosnia subito dopo la guerra avevano l’impressione di operare in tre piccoli stati completamente indipendenti. Le tre parti in conflitto avevano diviso l’intero paese: i leader serbi di Bosnia e croati di Bosnia avevano proclamato le proprie repubbliche indipendenti, espellendo rispettivamente non serbi e non croati, mentre il governo centrale di Sarajevo manteneva il controllo di ciò che restava del paese, un’area abitata per lo più da bosgnacchi.
Tutto era diviso in tre: c’erano tre governi nazionali, tre valute, tre sistemi telefonici e postali, tre diversi sistemi di registrazione auto, tre lingue ufficiali (tutte varianti minori del serbo-croato).
Non vi era libertà di movimento tra i “piccoli stati” e le tre parti operavano attivamente per garantire che lo sfollamento fosse permanente e che il ritorno degli espulsi fosse scoraggiato: ad esempio, riassegnavano proprietà appartenenti a persone sfollate, radevano al suolo edifici religiosi, profanavano monumenti e cimiteri o cambiavano i nomi di strade e città per cancellare ogni traccia di un passato comune.
Pratiche simili stanno avvenendo nelle attuali parti dell’Ucraina sotto controllo russo.
Disposizioni sui diritti umani nell’Accordo di Pace di Dayton
Non dovrebbe quindi sorprendere che, nonostante ciò che avevano firmato a Dayton, le parti fossero riluttanti ad attuare quelle disposizioni dell’accordo di pace che non si adattavano alla loro agenda politica e fossero attivamente impegnati a rendere permanente lo sfollamento.
L’attuazione dell’accordo di pace andava in contrasto con l’agenda bellica dei leader secessionisti ed entrava in conflitto anche con alcuni aspetti dell’agenda del governo di Sarajevo, che cercava di creare un paese più centralizzato.
Le disposizioni dell’accordo di pace però contenevano un solido quadro per la protezione dei diritti umani. In particolare, l’Annesso VI era interamente dedicato alla protezione dei diritti umani, ed elencava quelli di cui tutti avrebbero dovuto godere in Bosnia Erzegovina.
Oltre ai diritti contenuti nella Costituzione (che era anche uno degli Annessi all’Accordo di Dayton), l’Annesso VI forniva un elenco dettagliato dei trattati internazionali sui diritti umani e sul diritto umanitario direttamente applicabili in Bosnia Erzegovina, incluse le quattro Convenzioni di Ginevra sulla protezione delle vittime di guerra e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Le disposizioni sui diritti umani avrebbero avuto la precedenza su tutte le altre leggi, il che significava che le autorità locali erano obbligate a non applicare la legge interna se ciò andava contro le disposizioni sui diritti umani.
Lo stesso Annesso VI prevedeva anche la creazione della Commissione per i Diritti Umani, composta da un Ombudsman e una Camera per i Diritti Umani. La Camera era modellata sulla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e ha il compito di decidere sui singoli reclami che allegano violazioni dei diritti contenuti nell’Annesso VI. Le decisioni della Camera erano definitive e vincolanti e tutte le autorità del paese erano obbligate a rispettarle.
L’Annesso VII dell’Accordo di Pace era dedicato agli sfollati e ai rifugiati, che avevano il diritto di tornare liberamente nelle loro case d’origine: questa disposizione era davvero una novità nella storia degli accordi di pace.
Gli sfollati e i rifugiati avevano anche il diritto di ripossedere le proprietà perse durante le ostilità o di essere risarciti per le proprietà che non potevano essere restituite. Le autorità locali erano obbligate a creare le condizioni in cui rifugiati e sfollati potessero tornare in sicurezza nelle loro zone d’origine, senza timore di intimidazioni o discriminazioni.
Le autorità erano anche obbligate ad abrogare qualsiasi legge o pratica che avesse effetti discriminatori, e erano obbligate a trasferire, licenziare o perseguire penalmente chiunque fosse responsabile di gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario.
Si prevedeva che sarebbe stata creata una Commissione sulle Persone Sfollate e i Rifugiati (poi chiamata Commission for Real Property Claims) con il mandato di decidere sulle richieste di restituzione di proprietà di persone sfollate e di rifugiati.
Le richieste presentate alla Commissione riguardavano o la restituzione della proprietà o un risarcimento in sostituzione della restituzione. Secondo l’Annesso III, che riguardava l’organizzazione delle elezioni, le persone sfollate e i rifugiati avevano il diritto di scegliere se votare per il loro comune d’origine o per il comune in cui risiedevano in quel momento. Le elezioni dovevano essere organizzate sotto la supervisione dell’OSCE.
I colloqui di “pace” odierni su Ucraina e Russia
La disposizione dell’Accordo di Pace di Dayton creò quindi un quadro normativo solido e dettagliato per la protezione dei diritti umani in Bosnia Erzegovina. L’esistenza di tale quadro concordato da tutte le parti, pur richiedendo uno sforzo massiccio e costante per garantire che le parti lo implementassero e rispettassero i loro obblighi, si rivelò però la spina dorsale del sistema di protezione dei diritti umani in Bosnia Erzegovina.
In modo sorprendente, in oltre 30 anni, mentre i principali partiti etnici in Bosnia sono in perenne disaccordo sulle disposizioni costituzionali e sul rapporto tra Stato ed entità, non hanno mai davvero contestato le disposizioni sui diritti umani dell’accordo di Dayton.
È quindi sorprendente che, 30 anni dopo, mentre un’altra amministrazione statunitense cerca di mediare un accordo di pace tra Russia e Ucraina, le lezioni apprese sul rispetto dei diritti umani nell’accordo di Dayton sembrino essere completamente trascurate o dimenticate.
Stanno già suonando i campanello d’allarme per quanto riguarda l’amnistia generale proposta, prevista nella versione iniziale del piano in 28 punti, presumibilmente concordato tra Stati Uniti e Russia. Un’amnistia così generale, pur permettendo ai colpevoli di andare liberi, priverebbe le vittime del diritto alla giustizia e alle riparazioni.
Una preoccupazione simile deve essere sollevata per tutti coloro che sono stati sfollati dal conflitto, e in particolare per coloro che sono stati costretti a fuggire dalle regioni occupate dalla Russia, che ammontano a diversi milioni di persone, di queste almeno 2,7 milioni sono sfollati interni.
Come negli accordi di Minsk I e Minsk II, il piano in 28 punti non fa alcun riferimento ai diritti di coloro che sono stati sfollati dal conflitto né alla tutela dei diritti umani. È particolarmente scoraggiante leggere di territori ceduti e profitti realizzati dagli stati, senza alcun riferimento al destino delle persone che vivono in quelle aree e che sono coloro che stanno vivendo la brutalità del conflitto.
Sarebbe anche ingenuo pensare che la protezione dei diritti umani possa essere aggiunta in una fase successiva, una volta che il conflitto sarà congelato. Le continue politiche di “russificazione“ dei territori occupati dalla Russia e i rapporti sulle deportazioni forzate di civili da quei territori ci ricordano da vicino le politiche di “pulizia etnica” condotte durante la guerra di Bosnia.
Queste politiche indicano chiaramente una strategia a lungo termine per modificare permanentemente la composizione demografica di queste aree, ed è logico aspettarsi resistenza a qualsiasi misura che possa minare questo piano.
Gli aspetti dei diritti umani devono quindi essere inclusi in tutti i negoziati fin dall’inizio, basandosi sugli sforzi esistenti per documentare e cercare responsabilità per le violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario e creando un sistema che garantisca la protezione dei diritti umani in qualsiasi soluzione post-conflitto.
Una dichiarazione importante in questa direzione proviene dal Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, che in un recente rapporto ha ribadito il concetto che non può esserci una vera “pace giusta, duratura ed efficace” se non è “ancorata al quadro internazionale dei diritti umani”.
O’Flaherty ribadisce la centralità dei diritti umani nei negoziati di pace, un concetto che avrebbe dovuto essere al centro di qualsiasi negoziato di pace sincera e onesta, ma che continua a rimanere vistosamente assente nelle discussioni attuali.
Trent’anni dopo, gli sforzi negoziali sembrano aver dimenticato le lezioni apprese a Dayton e trattano ancora una volta gli individui come pure e semplice merce di scambio tra i potenti del mondo, impegnati a dividere il mondo in sfere d’influenza.
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