Croazia, un contributo artistico alle lotte dei migranti
Selma Banich, attivista, artista e autrice della raccolta “Igra / The Game. Prilog povijesti migrantske borbe u Hrvatskoj” [Gioco/The Game. Un contributo alle lotte dei migranti in Croazia], in questa intervista parla di questo progetto particolare e del suo impegno artistico e civico al fianco dei migranti

© Bartolomiej Pietrzyk/Shutterstock
© Bartolomiej Pietrzyk/Shutterstock
(Originariamente pubblicato da H-Alter)
“In Croazia il Giorno della vittoria si festeggia con nuovi sequestri di persone?”
Questa domanda è contenuta in una delle email inviate all’ombudsman croato, all’ufficio del sindaco di Zagabria e ad altri destinatari all’inizio di agosto 2021. In quei giorni, è stata segnalata la scomparsa di due famiglie somale dal Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Zagabria. Dopo che i loro documenti e cellulari erano stati confiscati presso la stazione di polizia di Remetinec, le famiglie sono state portate al confine con la Bosnia Erzegovina. Tra le persone respinte c’era anche una donna al quinto mese di gravidanza.
Il 31 dicembre del 2021, la polizia della contea di Sisak-Moslavina ha ricevuto una email riguardo all’annegamento di un giovane pakistano di 22 anni, morto dopo essere stato respinto verso il confine con la Bosnia Erzegovina, proprio nell’anniversario del sisma che alla fine del 2020 aveva colpito la regione della Banija, in Croazia.
Queste sono solo alcune delle tragiche storie raccolte nel libro Igra/The Game. Prilog povijesti migrantske borbe u Hrvatskoj [Gioco/The Game. Un contributo alle lotte dei migranti in Croazia].
La raccolta rivela tutta la disumanità dei trattamenti riservati ai migranti, compresi respingimenti, diniego di accesso all’asilo e alle cure mediche, violenza amministrativa e brutalità della polizia. In alcuni casi, come emerge dal libro, i migranti sono riusciti a sfuggire ai respingimenti e a salvarsi solo grazie alle pressioni esercitate dagli attivisti.
Selma Banich, autrice del libro, parla di questo progetto particolare e del suo impegno artistico e civico al fianco dei migranti.
Com’è nato il titolo del libro?
Le persone in movimento spesso definiscono il loro viaggio utilizzando l’espressione the game [il gioco] perché affrontano un sistema di ostacoli, violenze e umiliazioni imposte dalla Fortezza Europa. Riprendo quell’espressione consapevolmente, come un atto di solidarietà e di denuncia: quello che nel lessico del potere viene indicato come “politica migratoria”, per chi cerca di sopravvivere significa una negoziazione costante con la morte.
Adottando questa espressione, ho voluto collegare le battaglie dei migranti alla mia esperienza di lotta contro l’apparato statale, quello stesso apparato che riproduce sistematicamente ingiustizia e violenza, sia ai confini che all’interno delle istituzioni.
A differenza del Black book of pushbacks, che raccoglie le testimonianze delle persone in movimento, mi interessava documentare la retorica dell’altra parte, fatta di discorsi freddi e burocratici, ma soprattutto di silenzi. Lo stato, tacendo, cerca di giustificare i propri crimini. Quel linguaggio – contenuto nelle email, nelle procedure e nei cosiddetti “interventi” delle autorità – rivela un tentativo di legittimare la violenza, trasformando la disumanizzazione in un atto amministrativo.
Lei definisce la raccolta Igra/The Game “un libro d’arte”. Perché?
Da artista, ho la responsabilità di mettere in discussione il ruolo stesso dell’arte, perché credo che l’arte sia intrinsecamente politica. L’arte non esiste come entità isolata da altre sfere della vita, quindi non può essere separata dalla politica né dall’impegno politico.
Ho firmato quasi tutte le email della mia corrispondenza come artista indipendente, accettando consapevolmente questa tensione: chi ha il diritto di parlare, testimoniare e denunciare le strutture che normalizzano la violenza?
Per me, questo libro non è solo un documento, è un atto di resistenza e un tentativo di mettere a nudo e scardinare il linguaggio burocratico del potere, smascherandolo al punto da renderlo insostenibile.
Solitamente è l’intera struttura del potere a partecipare alla violenza: dai vertici che nascondono le proprie intenzioni dietro ad una retorica burocratica, agli agenti di polizia che minacciano chi cerca di spiegare ad un richiedente asilo come raggiungere una stazione di polizia…
Tutti i destinatari delle mie email sono sempre stati informati in tempo reale della situazione sul campo, quindi avevano la responsabilità e l’obbligo di reagire. Nella maggior parte dei casi, non lo hanno fatto.
Spero che questa raccolta trasmetta esperienze e pratiche concrete che dimostrino che non si tratta di “incidenti isolati”, bensì di una politica sistematica. L’elenco dei destinatari rivela che l’intera gerarchia partecipa a questo regime nefasto, dal ministero dell’Interno agli agenti sul campo che rifiutano di aiutare i migranti o persino partecipano ai sequestri di persona.
Il libro è un tentativo di critica profonda: un invito alla responsabilità, rivolto all’intero sistema, composto da persone con un nome e cognome che prendono decisioni ed emettono ordini molto concreti. Questa politica, che parte dai vertici, permea in modo capillare l’intera gerarchia, fino alle stazioni di polizia e ai controlli di frontiera, dove si produce quella che definirei una rottura tangibile tra i principi definiti dalle convenzioni internazionali e la realtà sul campo.
Non mi riferisco solo al ministero dell’Interno, ma a tutte le istituzioni statali e pubbliche che hanno la responsabilità e l’obbligo di aiutare tutte le persone che si trovano sul territorio croato, a prescindere dal loro status amministrativo.
Le strutture di potere europee cercano di mantenere l’immagine di una società democratica che “ha a cuore i diritti umani” e, allo steso tempo, contribuiscono attivamente a creare le condizioni globali – guerre, povertà, cambiamenti climatici, catastrofi, genocidi ed ecocidi – che spingono le persone a fuggire. Da decenni ormai l’Europa sta creando un’industria di controllo, traendo profitto dalla sofferenza e dalla violenza contro le persone trasformate in rifugiati da quella stessa Europa.
E la responsabilità individuale dei singoli agenti di polizia?
Le stazioni di polizia, i veicoli e le pattuglie sono gestiti da individui che formano collettivi gerarchici. Alcuni di loro agiscono seguendo le proprie convinzioni, rispettando il diritto alla vita, alla sicurezza e alla protezione. Altri fanno esattamente il contrario, commettono le più gravi violenze contro altri esseri umani. Ci sono migliaia di testimonianze che documentano questa violenza.
Mi si spezzava il cuore quando parlavo con gli agenti di polizia nelle stazioni dove c’erano testimonianze visive della presenza di richiedenti asilo. Quando chiamavo per verificare l’esito di una procedura di asilo, gli agenti dicevano bugie, sostenendo che quel richiedente non avesse mai messo piede nella stazione. Questo è sequestro di persona.
È interessante osservare questa dinamica anche da una prospettiva concentrata sulla responsabilità. Dove finisce la responsabilità di comando e dove inizia la responsabilità individuale? La linea di responsabilità di comando in questo sistema è del tutto chiara, ma è proprio nelle sue crepe che si apre un margine di manovra per un atto individuale: accettare o rifiutare di partecipare alla violenza.
Certo, alcuni agenti hanno agito correttamente, avviando tempestivamente le procedure di ricerca e soccorso. Sono consapevole che non tutte le persone che lavorano in una stazione di polizia sono lì per le stesse ragioni: anche tra di loro ci sono molte vittime di un sistema di precarietà, gerarchie e ricatti economici.
Ci sono anche i whistleblower che, avendo rifiutato di agire contro la propria coscienza, sono stati colpiti con il declassamento o la riduzione dello stipendio, rendendo così più difficile la vita di molte famiglie. All’interno dell’apparato repressivo esiste un’intera economia della violenza finalizzata a mantenere obbedienza.
Con questo libro non ho cercato di affrontare la questione della responsabilità individuale, bensì di mettere a nudo le strutture che producono e riproducono la violenza sul piano burocratico, procedurale e giuridico.
Ci sono politiche e procedure che producono sistematicamente la disumanizzazione e legalizzano la brutalità, tutto sotto l’egida dell’Unione europea, all’interno del sistema di Schengen, che viene presentato come uno spazio di libertà, sicurezza e diritti, mentre in realtà funziona come un sofisticato regime di morte.
Si cerca di sminuire il problema – come lei ha già accennato – anche facendo ricorso ad una retorica ben precisa. Lei invece chiama le cose col loro vero nome, ad esempio utilizzando il termine “sequestro” per indicare la pratica per cui le persone con dei passamontagna in testa rapiscono i rifugiati minorenni e li portano verso il confine al di fuori dei valichi ufficiali. Ci può spiegare meglio queste dinamiche?
Il linguaggio diventa un mezzo di occultamento, un meccanismo per normalizzare la violenza. Dietro alle parola “intervento” – che nel linguaggio ufficiale suona neutra, quasi tecnica – spesso si celano le azioni di unità paramilitari o di altre formazioni anonime che fermano, picchiano e derubano le persone in movimento, impossessandosi dei loro soldi, cellulari, effetti personali. Questi migranti, intrappolati tra i confini, vengono sistematicamente respinti verso fiumi, foreste e campi minati – letteralmente verso la morte.
In questo contesto, parlare di “interventi” significa partecipare all’occultamento di un reato. Si cerca di nascondere la violenza dietro agli eufemismi, così da tradurla in categorie amministrative per renderla accettabile, cancellando il suo vero volto.
Quando seguo gli spostamenti di un migrante che ha chiesto aiuto e vedo che uscendo dal furgone della polizia viene portato verso un confine verde, anziché alla stazione di polizia, quello non è un “protocollo” né “un’operazione”. È un sequestro di persona.
Ecco perché per me è importante chiamare le cose con il loro vero nome. Il sequestro è sequestro. La violenza è violenza. Il confine non è una linea di protezione, ma una linea di morte. Qualsiasi tentativo di attenuare la retorica ufficiale utilizzando termini burocratici non fa che aggravare la disumanità sistemica con cui questa violenza viene giustificata e perpetuata.
Da attivista, lei si oppone costantemente anche alla militarizzazione e al genocidio a Gaza. Per questo impegno è stata più volte arrestata ed etichettata come “jugo-palestinese”…
Quando parliamo di genocidi e militarizzazione, non parliamo di fenomeni isolati, bensì della stessa infrastruttura di violenza. Le tecnologie genocidiali che oggi vengono testate e perfezionate sui corpi delle donne e degli uomini palestinesi – droni, reti di sorveglianza, sistemi biometrici, programmi di controllo degli spostamenti – vengono esposte alle fiere e vendute ai paesi europei, Croazia compresa. Poi vengono utilizzate per militarizzare le nostre società e i nostri confini, e per respingere i migranti.
Quanto all’etichetta di “jugo-palestinese”, è un tentativo di screditarmi, che però implicitamente riconosce la continuità della solidarietà anticoloniale. La Jugoslavia aveva interrotto le relazioni diplomatiche con Israele nel 1967, a seguito dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi, e queste relazioni non sono mai state ristabilite. Quindi, sì, provengo da un paese che ha saputo stare dalla parte giusta della storia. Dalla parte degli oppressi, non degli occupanti.
Oggi la Croazia, purtroppo, fa l’esatto contrario. Si schiera con il regime occupante e genocida di Israele, al contempo cercando di mettere a tacere chi si oppone a quel regime. La solidarietà è stata sostituita da un regime di silenzio e paura. Quando, nell’aprile di quest’anno, con un gruppo di attiviste ci siamo sedute davanti al ministero degli Affari Esteri ed Europei, chiedendo al governo croato di interrompere ogni relazione con Israele e di smettere di essere complice del genocidio, ad arrestarci è stata quella stessa polizia che picchia brutalmente i migranti ai confini.
Ovviamente, non cerco di equiparare i due contesti. Noi, attivisti, privilegiati in termini di appartenenza nazionale, cittadinanza e lingua, non siamo nella stessa posizione delle persone in movimento. I nostri corpi non sono ugualmente vulnerabili. Ma questa differenza ci obbliga ulteriormente ad agire. È giunto il momento di utilizzare i nostri privilegi per denunciare un sistema che, da Gaza a Bruxelles, passando per Bihać e Zagabria, funziona secondo lo stesso schema: un sistema coloniale, razzista e genocida.
Molte delle sue email sono indirizzate al comune di Zagabria. Come valuta le azioni dell’amministrazione comunale per quanto riguarda i migranti? Cosa può fare una città su questo fronte?
L’attuale amministrazione comunale non sta facendo abbastanza.
Ad esempio, il comune si è mosso rapidamente per fornire assistenza ai rifugiati ucraini. Sappiamo però che i rifugiati ucraini godono di certi privilegi nell’Unione europea, grazie allo status di protezione temporanea. Ottengono subito un permesso di soggiorno, senza dover subire torture burocratiche imposte dall’attuale sistema di asilo. Tutti gli altri vengono trattati come una minaccia, non come persone.
Il comune di Zagabria non ha fatto abbastanza per facilitare questo processo e per offrire una vera infrastruttura di solidarietà.
L’amministrazione comunale tende a invocare la mancanza di prerogative, sostenendo di non avere basi legali per agire “contro lo stato”. In realtà questa è una scusa, o meglio la mancanza di coraggio politico. Ci sono numerosi esempi di città in tutta Europa che si sono unite per opporsi alle politiche nazionali, hanno introdotto misure particolari, zone di protezione e asilo, letteralmente salvando la vita di molte persone che stavano per essere espulse.
La città di Zagabria ha la possibilità e la responsabilità di intervenire: per garantire che non si verifichino respingimenti sul territorio comunale e per evitare che la polizia allontani i migranti da parchi, piazze, ospedali e rifugi.
Eppure, la politica in questo ambito è ancora intrappolata in una dimensione simbolica, tra celebrazioni della “Giornata del rifugiato” e apertura di nuovi “centri interculturali”. È difficile parlare di “integrazione” se le persone vengono perseguitate, sequestrate ed espulse.
Una città che pretende di essere progressista deve impegnarsi a costruire un vero stato di diritto. Non attraverso pubbliche relazioni e petizioni, ma con pratiche di resistenza e infrastrutture capaci di tutelare il diritto alla vita. Anziché facilitare le politiche repressive, le città possono e devono essere territori di solidarietà.
Le politiche verdi e di sinistra che non includono pratiche anticoloniali e abolizioniste non sono progressiste, sono solo una forma “più morbida” di mantenimento dello status quo. La trasformazione deve iniziare proprio qui: nelle politiche comunali, nello spazio pubblico, nelle nostre istituzioni che, consapevolmente o meno, continuano a contribuire ad un regime nefasto.
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