Bosnia Erzegovina, il rischio dell’abitudine al declino

“Milorad Dodik è l’unico leader politico nei Balcani che può bere whisky con l’ambasciatore russo e brindare ad un diplomatico americano lo stesso giorno”. Intervista con Dragan Bursać, uno dei più noti giornalisti bosniaco-erzegovesi

07/11/2025, Edin Krehić
Dragan Bursać

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Dragan Bursać - Archivio privato

Dragan Bursać è uno scrittore e giornalista pluripremiato della Bosnia Erzegovina. Da anni ormai analizza con coraggio e tenacia la cronica instabilità politica nei Balcani, dove le ferite della guerra degli anni Novanta non si sono ancora rimarginate e i leader nazionalisti continuano ad ostacolare la riconciliazione.

Bursać, come afferma lui stesso, scrive per rabbia, tristezza e resistenza. Per lui, scrivere è provocazione, ma anche psicoterapia. “Scrivere è il mio modo di sopravvivere. I premi sono belli, significano molto per una persona, ma non scaldano l’anima. A spingermi ad andare avanti è l’idea di dover dire quello che gli altri hanno paura di dire. Perché se rimani in silenzio, diventi complice. Quindi, non sono solo un editorialista, né uno scrittore, né un giornalista, sono un testimone della nostra epoca. È il lavoro più difficile e, allo stesso tempo, più facile del mondo”.

Lei è noto per essere uno strenuo critico dell’élite politica della Republika Srpska, come anche di tutta la Bosnia Erzegovina. Per il suo lavoro è spesso vittima di attacchi e minacce, anche di morte. Come affronta questa situazione e qual è il suo principio guida?

Quando qualcuno minaccia di massacrarti o di cacciarti insieme alla tua famiglia, non si tratta più di una metafora. Questa è ormai la mia quotidianità. A volte diventa anche noiosa, ma bisogna affrontarla. Una situazione insensata che si protrae ormai da tempo. Resisto, non mi lascio scacciare così facilmente. Però, ovviamente, ho paura. Sono un essere umano.

Cosa mi spinge ad andare avanti? Le persone comuni, quelle che non possono far sentire la propria voce. Quelle che non rientrano nelle quote etniche, che non sanno con quale gruppo identificarsi.

Scrivere la verità in questo paese non è un lavoro, è un imperativo morale. Quando hai paura che ti uccidano, ti ricordi che hanno ucciso migliaia di persone che non hanno detto nulla. E tutto diventa chiaro. In fin dei conti, non si può sempre vivere nella paranoia e nella paura.

Come commenta la sentenza del Tribunale della Bosnia Erzegovina contro l’ormai ex presidente della Republika Srpska Milorad Dodik? Cosa significa questa sentenza per la Bosnia Erzegovina? È la fine per Dodik?

Questa non è la fine, bensì la conferma che non esiste una fine (legale). Si tratta di un verdetto meramente simbolico, come se il Tribunale dicesse: “Sappiamo che è colpevole, ma lasciamolo libero”.

Una sentenza di assoluzione per aver rovesciato l’ordine costituzionale significa che viviamo in uno stato che ha legalizzato l’illegalità ai massimi livelli. Dodik ha già vinto, ritrovandosi in tribunale e uscendone da uomo libero. Non c’è una fine. È la metastasi di un sistema malato, non l’ennesima anomalia. Affinché si arrivi ad una fine politica per Dodik è necessario che lo stato inizi a funzionare. E questo sarebbe dovuto accadere molto tempo fa, con l’arresto di Dodik appunto.

Ad ottobre gli Stati Uniti hanno revocato le sanzioni contro Dodik. Si tratta di un calcolo geopolitico, un errore o una specie di messaggio?

Tutte e tre le cose. Gli USA non sanno più cosa farsene con i Balcani. Sono alle prese con la situazione in Ucraina, in Medio Oriente, poi la Cina… e i Balcani sono diventati un effetto collaterale. La revoca delle sanzioni è come quando una madre dice a un figlio: “Dai, smettila, fai il bravo”. E il figlio è un sociopatico.

D’altra parte, Dodik è un mago della sopravvivenza. È l’unico politico nei Balcani che può bere whisky con l’ambasciatore russo e brindare ad un diplomatico americano lo stesso giorno. Questa non è un’abilità, è il vuoto morale di un ipocrita e un imbroglione. Gli Stati Uniti, forse inconsapevolmente, hanno suggerito di preferire il pragmatismo rispetto ai principi. Ed essere pragmatici con i malvagi non può che portare ad un disastro.

In passato Dodik ha a più riprese affermato che quanto accaduto a Srebrenica è stato un genocidio, oggi sostiene il contrario. Maledice, minaccia, insulta… Lei come commenta questo comportamento?

Si tratta della classica trasformazione di un opportunista in un autocrate. Dodik era un “progetto dell’Occidente”, un investimento occidentale in un “serbo moderato”. Quando poi ha capito che nei Balcani un politico poteva governare a lungo solo se era radicale, anche Dodik è cambiato, e l’Occidente ha pensato di poterlo controllare, o almeno provare a tenerlo sotto controllo.

Non vi è nulla di casuale nella retorica a cui Dodik oggi fa ricorso. Questo è un metodo. Sa di poter annullare qualsiasi dato di fatto con una parolaccia. Quando si urla, non c’è dialogo. Quando si insulta, si crea paura. E la paura è la valuta del potere.

Cambiare la narrazione? Possiamo cambiarla solo con la verità. Ma non una verità sterile, bensì viva, schietta e umana, la verità su quanto accaduto, dove le persone sono state uccise, chi ha sparato e, soprattutto, quale politica c’era dietro. È la stessa politica che governa ancora oggi il cosiddetto “mondo serbo”. Finché il genocidio verrà relativizzato, qualsiasi discorso sulla riconciliazione sarà una mera farsa.

Qual è il ruolo della Russia nella strategia politica di Dodik?

La Russia è lo sponsor spirituale di Dodik. Sul piano simbolico, Putin è il Messia di Dodik e della Grande Serbia. Sul piano strategico, invece, Dodik è mera pedina utile alla Russia. Infine, sul piano economico, nulla di concreto, a parte un po’ di petrolio e un sacco di bugie.

La Russia sta usando Dodik come un espediente per destabilizzare i Balcani. Lui lo sa, ma gli piace comunque. Così si sente importante. In realtà, è un pagliaccio di Putin. La Bosnia Erzegovina, invece, è una carta in una partita di poker geopolitico più ampia per Mosca. Non hanno bisogno della Republika Srpska, hanno bisogno del caos in questa parte del mondo.

In quale misura la Serbia incide sulle azioni di Dodik? Qual è il rapporto tra Dodik e Vučić, anche considerando che il presidente serbo sta affrontando una grande ondata di proteste?

Vučić e Dodik sono gemelli politici, ma con caratteri diversi. Vučić finge di portare la stabilità, Dodik finge di essere pazzo. In sostanza, Dodik è molto più stabile, mentre Vučić è uno psicopatico. Tutti e due però stanno facendo la stessa cosa rafforzando il nazionalismo della cosiddetta Grande Serbia attraverso il progetto del “mondo serbo”.

La Serbia, ovviamente, ha un’influenza enorme. Dodik non può respirare senza Belgrado. Ma Belgrado ha anche paura di lui. Perché Dodik ha qualcosa che Vučić non ha: la totale libertà all’interno della Republika Srpska. È un piccolo re senza opposizione.

Vučić cercherà di sopravvivere alle proteste come sempre, trovando un nemico esterno. E sì, se necessario, darà fuoco al Montenegro e alla Bosnia Erzegovina, pur di distogliere la rabbia da Belgrado. Questa è la vecchia formula dell’autocrazia balcanica: quando la popolazione capisce che stai mentendo, mostrale una bandiera insanguinata.

Quanto sono realistiche le minacce di destabilizzazione? Dodik può cambiare l’ordinamento politico della Bosnia Erzegovina senza ricorrere alla violenza?

Non può cambiare l’ordinamento politico, ma può strumentalizzarlo fino a renderlo irriconoscibile. La sua strategia più pericolosa degli ultimi dieci anni non è quella di minacciare di secessione, ma la normalizzazione del secessionismo. È riuscito a rendere la divisione della Bosnia Erzegovina un argomento legittimo nella politica quotidiana. È un male strisciante. Normalizzare l’anormale!

Non ci sono carri armati, né granate, però assistiamo ad una violenza politica infinita, psicologica, istituzionale, mediatica, religiosa, identitaria. Sarajevo deve capire che questo non è un gioco. Deve smettere di reagire solo quando Dodik fa qualcosa. Deve agire prima, sistematicamente, con calma e intelligenza. Deve abbandonare il consueto atteggiamento di sottomissione sostituendolo con un approccio proattivo. Per evitare di ritrovarsi nella situazione di dover dire: “Ecco, ci ha fregati nuovamente”.

Qual è oggi l’atteggiamento della popolazione della Republika Srpska nei confronti di Dodik? Si percepisce una sensazione di stanchezza?

Certo. La popolazione è esausta. Il sistema di Dodik si regge su tre pilastri: paura, povertà e lobotomia mediatica. Non tutti i cittadini della RS sono strenui sostenitori di Dodik, però non vedono alternative, e non è tutta colpa di Dodik. Vi regna un terribile clima di controllo.

Per strada ti diranno: “Tutto è crollato, ma almeno abbiamo la nostra pace”. E quella “pace” implica un silenzio assoluto in un paese che i giovani continuano ad abbandonare, gli ospedali cadono a pezzi e i beni pubblici si svendono. Questa non è pace, questa è la capitolazione di una vita umana degna di essere vissuta.

La Bosnia Erzegovina non crollerà a causa di Dodik, ma per colpa di quelli che fingono che Dodik non sia un problema. Un paese non muore quando viene attaccato, muore quando si abitua al declino. E noi, temo, ci siamo ormai abituati.