Recep Tayyip Erdoğan © ToskanaINC/Shutterstock

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Ventuno anni dopo la grave crisi economica e finanziaria del 2001 che ne segnò l’ascesa, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) si presenta all'appuntamento elettorale di giugno in un contesto di piena crisi economica e sociale

12/01/2023 -  Chiara Maritato

(Originariamente pubblicato da volerelaluna , il 22 dicembre 2022)

All’inizio di novembre, la perdita di consensi del partito da vent’anni al governo in Turchia era del tutto evidente per le strade, al mercato e sugli autobus, percepibile ad alta voce e senza bisogno di programmare interviste. La crisi economica e finanziaria che attanaglia il paese dal 2018 registra un’inflazione che in ottobre è arrivata all’85,5 per cento e un calo occupazionale che ha diffuso il malcontento tra strati sociali diversi. Chi non ha conti correnti all’estero osserva con ansia i propri risparmi perdere valore ogni giorno di più e la povertà crescente nelle grandi città colpisce i giovani che non riescono a sostenere i costi dell’università e le famiglie che da mesi protestano contro il caro bollette e il rincaro dei prodotti alimentari. Le misure del governo, fondate su scelte ideologiche come quella di tagliare continuamente i tassi di interesse in controtendenza con ogni valido rimedio volto a frenare l’inflazione, ad oggi si sono rivelate insoddisfacenti. L’aumento delle esportazione e l’alto indebitamento delle famiglie e dello stato non sembrano infatti in grado di ostacolare quella che si preannuncia come una crisi monetaria imminente al punto che il soccorso di vecchi e nuovi stati amici (Arabia Saudita, Azerbaijan, Russia e Qatar) è parso inevitabile in vista delle prossime elezioni previste per giugno 2023. Ventuno anni dopo la grave crisi economica e finanziaria del 2001 che ne segnò l’ascesa, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), si presenta al prossimo appuntamento elettorale in un contesto di piena crisi economica e sociale.

In parallelo, negli ultimi cinque anni la questione migratoria è esplosa ed è stata cavalcata, pur con sfaccettature diverse, dalle opposizioni. La principale accusa rivolta al governo è quella di aver lasciato entrare nel paese troppi rifugiati siriani senza poter garantire loro condizioni dignitose. Vi è poi la critica nei confronti della gestione dei fondi (oltre 6 miliardi di euro) che dal 2016 l’Unione Europea ha elargito per permettere ad Ankara di accogliere in regime di “protezione temporanea” circa 3 milioni e 700 mila siriani. Con l’acuirsi della crisi economica, la retorica anti-immigrati è andata poi radicandosi con episodi di razzismo e violenza e, dal 2021, il neonato Partito della Vittoria (Zafer Partisi) raccoglie le spinte nazionaliste e xenofobe. Le politiche per la gestione dei rifugiati siriani si sono così ridefinite alla luce di due obiettivi: da una parte ottenere ulteriori fondi da Bruxelles, dall’altra organizzare un “ritorno volontario” dei rifugiati in Siria, progetto questo condiviso, pur se in forme e modi differenti, dal principale partito di opposizione, il Partito Repubblicano del Popolo (CHP). Quest’ultimo ha infatti recentemente affermato che, se arriverà al potere, si impegnerà in una necessaria ripresa di contatti con Damasco per definire un piano di rientro dei rifugiati. Sul primo punto, sebbene sia ancora poco chiaro quale sarà il prosieguo del controverso accordo del 2016 tra Turchia e UE, diverse analisi registrano come Ankara stia di fatto attuando una politica di “confini aperti” per i migranti diretti verso l’Europa, una pratica a cui la Grecia risponde con respingimenti via mare e via terra. Per quanto riguarda il confine orientale, dal 2016 la Turchia ha avviato operazioni militari nel nord della Siria contro le Forze siriane democratiche considerate da Ankara gruppi “terroristi” e minaccia per la sua sicurezza nazionale. Le aggressioni, da ultima quella del 20 novembre scorso, sono accompagnate dalla richiesta di una safe zone , un territorio di circa 30 km dove ricollocare i rifugiati siriani. Tale richiesta solleva tre principali questioni, in primis come legittimare a livello internazionale l’esistenza di una zona sotto controllo turco in Siria e come assicurarsi che questo sia accettato da Damasco. Inoltre, si tratterebbe di un popolamento di territori siriani a maggioranza curda con rifugiati arabi, una pratica imposta dall’alto che genera dubbi circa la costruzione di una pace stabile e una piena sicurezza dei territori. Infine, è opportuno chiedersi quanto sia volontario un rientro in Siria di rifugiati anti Assad a conflitto ancora in corso.

Appare tuttavia chiaro come Ankara sia riuscita a legare a doppio filo la questione migratoria con le operazioni militari in Siria. In un recente articolo pubblicato dalla Fondazione per la Ricerca Politica, Economica e Sociale (SETA), filogovernativa, si riporta chiaramente questo nesso : "La safe zone ha tre funzioni: fornire un “paradiso sicuro” alla popolazione civile promuovendo una campagna contro il terrorismo, cercare di fermare la migrazione irregolare e infine permettere ai siriani di ritornare nella loro patria". Per il governo turco, il tentativo di creare una safe zone in Siria è quindi vitale non solo per la “sicurezza nazionale”, ma anche per la sicurezza elettorale.

Il 20 novembre scorso la safe zone è tornata in primo piano con l’avvio di una nuova operazione militare nel nord della Siria. I bombardamenti sono stati presentati dal governo turco come "il conto da far pagare ai terroristi del PKK e delle YPG" per l’attentato del 13 novembre ad Istanbul sulla centrale Istiklal Caddesi. L’esplosione di un ordigno in una soleggiata domenica pomeriggio ha causato 6 morti e 81 feriti e ad oggi non è stata rivendicata. Poche ore dopo, la polizia ha arrestato una donna, la quale ha dichiarato di aver agito per conto del PKK e di essere entrata in Turchia dalla Siria. Nonostante il blocco dei social media nelle ore immediatamente successive, tra i cittadini, le prime reazioni contenevano un senso di cinismo e sfiducia rispetto alla versione ufficiale. Con il passare dei giorni, il crescendo di interrogativi e indiscrezioni sulla dinamica dell’attentato e il timore che si apra una nuova stagione di attentati simile a quella tra il 2015 e il 2016, ha spinto i partiti di opposizione, in particolare il CHP e il Partito di sinistra filo curdo HDP, a chiedere che venga istituita una commissione parlamentare di inchiesta per far luce su quanto accaduto, proposta respinta dal parlamento.

Se e in che misura la propaganda nazionalista e bellicista che ha accompagnato l’avvio dell’operazione militare in Siria riuscirà a sopire un malcontento dilagante sarà chiaro nei prossimi mesi. In un contesto in cui vigono forti limiti alle libertà di opinione (ancor più in seguito alla Legge contro la disinformazione approvata lo scorso ottobre) e di riunione, con fermi e arresti di manifestanti – solo nel 2022 sono 800 le persone processate per aver preso parte a proteste pacifiche , come è toccato di recente anche all’italiana Dalila Procopio – la protesta come il silenzio assumono molteplici forme e significati.

Nel frattempo, le opposizioni hanno avviato forme di dialogo in vista delle elezioni, riunendosi in un coordinamento comune, il “Tavolo dei sei” (oltre al CHP, vi partecipano il nazionalista IYI Parti, GELECEK Parti, DEVA Parti, entrambi nati da una scissione dell’AKP, il Demokrat Parti e il partito conservatore islamista Saadet Parti). Invitano alla “pazienza”, fiduciose che anche in un regime di autoritarismo competitivo saranno le elezioni a sancire la fine dell’era Erdoğan. Tuttavia, l’opposizione non ha ancora espresso il proprio candidato. Uno dei potenziali nomi, il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoğlu, il 15 dicembre è stato condannato a due anni e sette mesi con interdizione dai pubblici uffici. In attesa che si pronunci la Corte di appello, Imamoğlu ha ricevuto il sostegno di migliaia di cittadini riuniti nel quartiere di Saraçhane ad Istanbul. I leader di opposizione hanno condannato la decisione della corte, ricordando come nel 1998 fu proprio una condanna dell’allora sindaco di Istanbul Recep Tayyip Erdoğan all’interdizione dai pubblici uffici a tramutare la vittimizzazione in consenso elettorale. Nella stampa internazionale sono state sollevate diverse perplessità sull’indipendenza della magistratura. I sondaggi altalenanti indicano che per le elezioni nel centenario dalla nascita della Repubblica turca i giochi sono aperti. I prossimi mesi si preannunciano dunque lunghi e decisivi.


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