Boşnaklar köyü nel 1950

A Smirne vivono gli eredi di famiglie migrate in questa città sulla costa dell'Egeo dalla Bosnia Erzegovina alla fine del XIX secolo

15/10/2015 -  Dimitri Bettoni

Il villaggio non aveva nome, era conosciuto semplicemente come Boşnaklar köyü, il villaggio dei bosniaci. Era un piccolo gruppo di abitazioni sorte lungo la sponda settentrionale del golfo di Smirne, su appezzamenti acquistati da migranti provenienti dalla Bosnia a fine '800. Poco distante scorreva un corso d'acqua, bene prezioso per coloro che si sostentavano soprattutto con la pastorizia.

Oggi quel villaggio non c'è più, fagocitato dalla frenesia e speculazione edilizia della Turchia contemporanea. Resistono poche case, dall'aspetto dimesso e bisognose di cure, che sopravvivono in mezzo ad alti e moderni palazzi, spuntati come funghi nell'ultimo decennio.

Storie di famiglia

I Pašič hanno alle spalle una lunga storia di migrazioni. Originari di Konya, nel cuore della penisola anatolica, si insediarono nei Balcani verso la metà del XVIII secolo. Ai tempi, le politiche dell'Impero Ottomano prevedevano vasti spostamenti di popolazione, allo scopo di amalgamare l'eterogeneità delle genti, tarpare le ali ai movimenti di resistenza al dominio, affidare a clan fedeli l'amministrazione del territorio.

La famiglia Pašič era tra questi. “Eravamo benestanti” mi racconta Ahmet Aksu, uno degli ultimi Pašič a conservare una certa memoria dei tempi andati, soprattutto grazie ai racconti tramandati di generazione in generazione da coloro che oggi non ci sono più. “Al tempo ci consideravamo ottomani ed eravamo orgogliosi di essere parte di quella grande comunità e suoi rappresentanti”.

Membri della famiglia Brackovic mentre fabbricano mattoni di fango, 1932

Membri della famiglia Bračkovič mentre fabbricano mattoni di fango, 1932

Durante la guerra tra due imperi, quello Ottomano e quello Russo, il gigante di Istanbul cominciò a mostrare segni di debolezza, che si sarebbero poi concretizzati con la Prima guerra mondiale e la sua disgregazione. Su entrambi i fronti, quello balcanico e quello caucasico, le truppe ottomane subivano inesorabili sconfitte e, con l'indebolirsi del potere centrale, anche le spinte autonomiste interne ripresero vigore. Si riaccesero anche le tensioni tra le diverse popolazioni che allora abitavano i Balcani.

Fu proprio questo a spingere i Pašič a cercare un altro luogo dove stabilirsi. “Nel villaggio dei miei antenati episodi di violenza non erano ancora accaduti, ma arrivavano voci di scontri in altre parti del paese e la tensione era percepibile nell'aria. Ormai era chiaro come si sarebbe conclusa la guerra e cosa sarebbe accaduto dopo. La decisione di partire fu presa nel giro di pochi giorni, tanto che buona parte delle proprietà di famiglia fu lasciata indietro, non ci fu tempo per vendere la casa o gli animali. Si partì con ciò che poteva essere trasportabile in un lungo viaggio, verso sud. Un viaggio al tempo ancora agevole perché l'Impero ancora esisteva e non c'erano confini”.

Così non è poi stato per quelle famiglie partite successivamente, quando i Balcani sono passati sotto il dominio dell'Impero Austro-Ungarico: famiglie che furono obbligate a varcare clandestinamente il confine della neonata Repubblica di Turchia.

Una storia simile è quella della famiglia dei Bračkovič, che oggi hanno cambiato cognome per sceglierne uno “più turco”. In origine abitavano a Trebinje e, come i Pašič, giunsero a Smirne quando era evidente che il futuro non riservava loro nulla di buono. “Era l'anno 1293” esordisce Fahrettin Gündoğu che vanta, mostrando i muscoli, di avere ancora forte il sangue guerriero bosniaco nelle sue vene, nonostante i capelli ingrigiti da un pezzo. In realtà, la data a cui si riferisce è calcolata secondo il calendario Rumi, in vigore durante l'Impero e nei primi anni della Repubblica turca e con cui ancora ama ricordare gli eventi; negli anni nostri, era il 1877.

“La mia era una ricca famiglia di allevatori, arrivata con due grosse borse colme d'oro caricate sul dorso di un mulo” si vanta con quella che a me, sul momento, pare un'esagerazione. “Si stabilirono qui e importarono gli animali dall'estero, come spesso accadeva in queste zone di produzione agricola. All'inizio non fu facile perché, benché fossimo arrivati con molto oro e con il benestare delle autorità, per gli abitanti del posto eravamo stranieri. Ma siamo gente forte, abituata ad imporci e farci valere: in breve ci guadagnammo il rispetto e, probabilmente, anche un po' il timore” ride con una punta di compiacimento.

“Eravamo una comunità chiusa, avevamo delle ronde che controllavano gli ingressi all'abitato e molti di noi giravano con un bastone alla cintura. A quei tempi funzionava così, ma i rapporti con i vicini si rinsaldarono presto, prima ci sentivamo tutti ottomani, oggi siamo tutti turchi”.

La debolezza del ricordo

Con il passare del tempo, generazione dopo generazione, i ricordi stanno svanendo dalle menti della gente di quello che fu "Il villaggio dei bosniaci". Dopo aver disimparato a scrivere in bosniaco, ora i bosniaci di Smirne stanno anche perdendo la lingua parlata.

Racconta ancora Fahrettin: “Le nuove generazioni parlano solo turco, naturalmente. I miei stessi genitori tendevano ad usare il bosniaco solo tra loro, preferendo il turco con i figli. E poi la nostra è una lingua congelata a più di un secolo fa, con termini e forme caduti in disuso, priva di qualunque rinnovamento dettato dall'uso, molto diversa da quella comune ora in Bosnia Erzegovina”.

Colpisce la serenità con cui mi racconta della lenta discesa all'oblio verso cui si dirige la sua storia culturale, con gli anni sbiadita e sostituita dalla cultura e dalla lingua turca, che tutte le famiglie hanno abbracciato con la docilità di chi sa che il tempo scorre, e cambia le cose. “Eravamo ottomani, oggi siamo turchi, ma il mio sangue è sempre bosniaco”.


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