Un piatto di ćevapčići

Un piatto di ćevapčići

Otto giorni intensi, lungo il cordone ombelicale d'Europa. Questo diario ci accompagna in un viaggio imperdibile

19/09/2016 -  Piero Maderna

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Il risveglio porta con sé un certo mal di testa, ma data la serata era abbastanza inevitabile. Niente di grave, comunque: butto giù qualcosa e passa subito.

Torniamo da Slavica per la colazione. Ormai la strada la sappiamo, possiamo andare anche a piedi: una passeggiatina e una boccata d’aria fresca non può che far bene.

La colazione, stamattina, è un po’ più scarsa rispetto a ieri, bisogna ammetterlo. Forse, ipotizziamo, ieri è avanzata parecchia roba e oggi Slavica è stata più parca. C’è il caffè, però, magari la qualità non è eccezionale ma c’è.

C’è anche il figlio di Slavica, che parla un ottimo inglese con accento americano: deve aver vissuto negli States. Anche lei se la cava con l’inglese, a dire il vero. Forse per compensare, ci offrono degli strani frutti di un albero che ha 300 anni e che sembra sia tipico di questa zona. Sono simili a dei piccoli fichi, ma non molto saporiti, in realtà.

Partiamo in pullman per tornare a Belgrado, dove questo pomeriggio abbiamo il volo di ritorno. Ci vogliono circa 3 ore – 3 ore e mezza. Arriviamo giusto per… l’ora di pranzo (tanto per cambiare).

Per chiudere in bellezza mangiamo in un ristorante che fa parte anch’esso della rete di Slow Food, a due passi dalla Cattedrale di San Sava. Il livello è piuttosto elevato, lo si capisce anche dal design raffinato degli arredi. Anche il cibo è veramente di livello; abbiamo mangiato bene ovunque, ma questo posto è certamente tra i migliori. Il menù comprende quella che forse è la più famosa specialità dei Balcani occidentali, i Ćevapčići (polpettine cilindriche di carne di manzo e agnello, condita di sale, spezie e aromi vari), serviti con cipolla, ajvar e kajmak. Il nome, forse non tutti lo sanno, deriva dalla parola ćevap, che poi è la versione serba del turco kebap.

Facciamo l’ultimo brindisi e salutiamo alcuni compagni di viaggio per cui, fortunati loro, il viaggio prosegue: Carla, che torna con Eugenio in Vojvodina; Sara e Daniele, che vanno in Bosnia Erzegovina.

E poi, dato che siamo qui, non possiamo non visitare San Sava, che tecnicamente non è ancora la cattedrale di Belgrado. Dovrebbe diventarlo, in un futuro al momento ancora imprecisato. Fuori è finita da molti anni, ma dentro è ancora un cantiere, anche se è già consacrata e usata come chiesa. È un po’ la “Sagrada Familia” di Belgrado.

La costruzione, iniziata nel 1894 qui nel luogo dove si dice che i turchi bruciarono le reliquie di San Sava, figlio di un condottiero del XII secolo e fondatore della Chiesa ortodossa serba, è stata ripetutamente bloccata dalle guerre. La grande piazza, con la statua del leggendario Karadjordje, è un punto di incontro dei belgradesi ed è stata teatro di tante manifestazioni.

E poi quella che è davvero l’ultima tappa, prima di dirigerci all’aeroporto, anzi già sulla strada per raggiungerlo. È Zemun, che quando la capitale era sotto il dominio turco era il punto più meridionale dell’impero austro-ungarico. Proprio qui, in un vecchio locale sul lungofiume chiamato Radetzky, è ambientato uno dei racconti che Dušan Veličković ci ha letto, quello che narra del suo incontro col figlio di Giangiacomo Feltrinelli. E quindi guardare il Danubio da qui è un po’ come chiudere il cerchio di questo viaggio così ricco di suggestioni.

Abbiamo tutti scoperto, o capito ancor di più, che i Balcani, come dice Paolo Rumiz, sono note bastarde, voci e frequenze che bucano i confini, ignorano i visti, i passaporti e le lingue, per andare dritti al cuore dell’uomo.

Mi torna in mente anche il finale di Underground, con la Jugoslavia che si stacca dalla terraferma e va alla deriva mentre Ivan, il matto che in fondo è il più savio, comincia a raccontare: “C’era una volta un paese…”. Vorrei tornare qui, un giorno, e vedere che quella deriva è finita, ma forse resterà solo un sogno, o una visione ipnagogica… tra l’altro, mentre scrivevo queste note, ho letto che in Serbia qualcuno ha proposto (seriamente, sembra) di erigere un monumento a Milošević. Spero proprio che l’idea non si concretizzi.

Eugenio ci ha già illustrato quello che potrebbe essere il viaggio dell’anno prossimo, che sarebbe poi la continuazione ideale di questo, fino al delta del Danubio, dove il Grande Fiume sfocia nel Mar Nero. Molti di noi ci stanno già pensando. E fino ad allora, che il grande signore Danubio ci protegga. Potrà sembrare un po’ blasfemo, ma… se c’è gente che ha venerato il Dio Po, perché non il Danubio, che, con tutto il rispetto, forse è anche un po’ più importante?

 

 

 

Grazie a Rita e Giovanni per il video del kolo alla fattoria e per le foto… di cibo: ero quasi sempre troppo impegnato a mangiare per farle io (e poi le loro sono più belle!).

Grazie a Patrizia per la mia foto mentre discetto con Milan di calcio e antropologia balcanica.

E grazie a tutti quelli che hanno contribuito alla realizzazione del viaggio, organizzatori e partecipanti, per questa splendida settimana.


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