Viaggiatrice all'aeroporto guarda fuori dalla finestra © Song_about_summer/Shutterstock

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Perché le persone in Serbia emigrano dal proprio paese? Quali i sentimenti, i desideri e le percezioni dietro ad una decisione del genere? Una ricerca va al fondo di queste domande

02/02/2021 -  Francesca Rolandi

Quando si parla di migrazione dal sud-est Europa si fa solitamente riferimento agli indicatori economici come propulsori, mentre le motivazioni individuali dietro tale scelta tendono a rimanere in ombra. Delle attitudini verso le migrazioni dei giovani serbi abbiamo parlato con Tanja Anđić, attualmente ricercatrice post-dottorato presso il Center for Advanced Studies in Southeast Europe, dell’Università di Fiume/Rijeka. La sua tesi di dottorato , discussa presso l’Università del Minnesota, riflette su come i giovani serbi impegnati a raggiungere una vita pienamente adulta – con l’indipendenza economica, abitativa, e la formazione di una famiglia – immaginano il loro futuro e quello del loro paese.

Nella tua ricerca hai affrontato una questione complessa come quella dell’emigrazione dalla Serbia. Anziché di numeri ti sei però occupata dei sentimenti e degli stati mentali che hanno alimentato le scelte e i desideri di emigrare. Quali sono stati i fattori più importanti, secondo la tua ricerca?

Non lo definirei necessariamente un “fattore principale”, ma credo sia importante capire che il modo in cui rielaboriamo collettivamente un fenomeno di migrazione di massa che coinvolge giovani lavoratori sia un aspetto chiave di quello stesso fenomeno e della sua traiettoria di lungo periodo.

I sentimenti sociali, le attitudini, il modo in cui si parla delle cose tendono ad agire come una sorta di feedback; ci forniscono una cornice entro cui collocare la discussione su un argomento, incluso quello che viene considerato o meno accettabile, il che dà forma alle nostre azioni.

Se guardiamo ai commenti sotto ai numerosi articoli di attualità sull’emigrazione dalla Serbia, molti di questi inizieranno con affermazioni del tipo “La gente non se ne va a causa degli stipendi”. Quello che emerge da questa affermazione è che gli stipendi sono senz’altro un fattore, ma non l’unico. Per molti giovani lavoratori - dal mio punto di vista coloro che hanno fatto esperienze di lavoro e di vita adulta dopo il 2000 - l’emigrazione è legata ad un discorso che io chiamo del “futuro bloccato”.

Questo discorso comprende sentimenti di delusione nei confronti di quello che la transizione si credeva avrebbe offerto rispetto alla realtà; questa infinita sensazione di attesa che la transizione implica, che si tratti dell’ingresso nell’Unione Europea, di politici non corrotti, di sicurezza sul lavoro e stabilità economica; la sensazione di imprevedibilità e la sensazione di impossibilità di vivere, alla fin fine, “in maniera normale”, il che implica la pianificazione della propria vita, con un’aspettativa che questi piani possano essere messi in atto senza dover aspettare un altro cambiamento nel sistema sociale.

Credo vada anche considerato che dichiarare l’intenzione di emigrare non significa in realtà che una persona emigrerà in un futuro prossimo, ma piuttosto questa affermazione ha un doppio ruolo, sia criticare lo status quo, che far sentire momentaneamente alla persona stessa di avere una scelta quando tutti gli altri aspetti sembrano non poter essere determinati. La questione rispetto a questi sentimenti a livello di massa è che si possono radicare, e che se in futuro cambiamenti strutturali rendessero la vita più prevedibile e tollerabile per i giovani, potrebbe essere troppo tardi per far retrocedere questa sensazione che sia necessario partire, ormai diffusa a livello di massa.

Come la Serbia, da una parte, e i paesi destinatari di emigrazione, dall’altra, vengono percepiti da coloro che decidono di emigrare? Come questa percezione cambia tra coloro che si sono davvero lasciati il paese alle spalle?

È diffusa l’opinione che la vita sociale in Serbia sia più ricca che in “Occidente”, che la gente sia più generosa con gli altri, che si investa molto nelle amicizie, ma anche che questo aspetto sia ridimensionato dalla suddetta imprevedibilità. Il punto più comune tra le persone che ho intervistato è che i paesi “organizzati” forniscono chiari percorsi per navigare la vita quotidiana, sebbene questi sistemi non siano ideali. Ho visto queste discussioni più spesso nelle descrizioni delle ordinarie interazioni con la burocrazia, come pagare le tasse o ricevere un documento.

Tra le persone ancora in Serbia e tra coloro che sono già partite, la spiegazione è spesso la seguente: ci sono lunghe file per qualsiasi cosa che abbia a che fare con lo stato, è difficile sapere quali documenti sono necessari prima di provare ad andare in un ufficio pubblico, il che significa andare avanti e indietro tra differenti uffici e perdere ore di lavoro, e, soprattutto, ad un certo punto, scoprire che ci sono altre persone che riescono a evitare questa perdita di tempo perché conoscono qualcuno che lavora lì, o attraverso un legame politico, il che rende queste esperienze ulteriormente frustranti. Se la burocrazia tende ad essere la prima interazione faccia a faccia con lo “stato”, narrazioni di questo tipo servono come metafore della sensazione di un più ampio senso di ingiustizia, di una mancanza di tutela da parte dello stato verso il cittadino medio, della corruzione istituzionalizzata, e di un generale senso di imprevedibilità rispetto a quello che potrebbe accadere in futuro.

Al contrario, i miei interlocutori in Germania descrivono i luoghi della burocrazia come trasparenti anche per coloro che non parlano il tedesco, e dichiarano di sentirsi rispettati dallo stato semplicemente perché sono in grado di navigare al suo interno. Ora, io ho colleghi in Germania i quali sostengono che la burocrazia tedesca sia ugualmente orribile – possiamo constatare che le burocrazie non raccolgono il favore dei cittadini in nessun paese – ma qui la questione non è se “davvero” la burocrazia tedesca sia facile da navigare. Il fatto che la gente percepisca questa differenza e la menzioni per spiegare perché non vuole tornare in Serbia è abbastanza per spingere alla migrazione e per confermare le idee di coloro che intendono emigrare in un “paese organizzato”.

Come la scrittrice e docente Dana Johnson ha osservato, la migrazione odierna dalla Serbia è molto più legata all’esperienza reale di quella dei decenni passati e queste differenze di aspettative e realtà non sono così marcate come nel passato. Penso sia importante sottolineare anche che se la prevedibilità offerta da alcuni paesi è apprezzata dai miei interlocutori, questi sono consci che ciò non significa che la vita sia facile – è necessario avere a che fare con il sistema dei visti, con la vita da immigrato e da nuovo arrivato, con i più alti costi della vita e con un network di supporto più ristretto. Credo che qualche volta l’idea che la prevedibilità significhi una vita facile debba preoccuparci, dal momento che coloro che emigrano non sentono empatia per i loro sforzi nel navigare un sistema radicalmente nuovo da parte dei loro amici e della loro famiglia nei Balcani.

La tua ricerca è iniziata nel 2015. Come fattori interni ed esterni – le conseguenze della crisi economica del 2008-09, le crescenti tendenze autoritarie in Serbia e la maggiore apertura della Germania nei confronti dei lavoratori dei Balcani occidentali – hanno influito sull’attitudine nei confronti dell’emigrazione? È possibile vedere delle tendenze o dei punti di svoltanell’approccio dei serbi verso l’emigrazione nel corso degli ultimi cinque anni?

Guardando all’emigrazione dalla prospettiva dei discorsi pubblici – cioè del modo in cui si parla collettivamente di determinati fenomeni, che influenza la visione del mondo e l'agire – è difficile notare differenze nel breve periodo, prima del momento in cui sia possibile guardare a ritroso e organizzare il fenomeno temporalmente. I discorsi tendono a durare, a cambiare poco alla volta. Tra il 2015 e il 2020 – ovviamente ad eccezione della pandemia di Covid-19 – non c’era nessuna rottura generale tale da cambiare radicalmente questi sentimenti. Tuttavia, come il lavoro di Dana Johnson mette in luce, nel lungo periodo un cambiamento sembra esserci, dal momento che gli aspiranti emigranti sono già stati all’estero, il che fa sì che le aspettative nei confronti dell’emigrazione siano meno “immaginate” e più radicate nell’esperienza.

Questo è probabilmente un effetto della liberalizzazione dei visti per la Serbia nel 2009 e dell’apertura della Germania verso i lavoratori dei Balcani occidentali, il che significa che un maggior numero di persone abbia viaggiato e lavorato all’estero oggi, sia a lungo termine che d’estate nell’industria del turismo in Grecia, Malta, ecc…

Quello che ho notato, piuttosto, è un cambio nel modo in cui i funzionari governativi serbi parlano di emigrazione. Se guardiamo alle migrazioni per lavoro, al di là delle decisioni economiche individuali, iniziamo a vedere che queste sono profondamente politicizzate. Per molti la recente emigrazione dalla Serbia simboleggia l’incapacità del paese di garantire un futuro prevedibile per i suoi cittadini, una sorta di "voto con i piedi" delle persone.

Appena ho iniziato il mio lavoro sul campo, le politiche governative sull’emigrazione erano piuttosto silenti. Almeno da parte della destra (incluso il Partito serbo del progresso - SNS, al momento al potere), sembrava vi fosse una sorta di indifferenza verso coloro che partivano: nel migliore dei casi sarebbero potuti diventare una fonte di rimesse, in quello peggiore erano considerati privi di patriottismo. Dal 2017 c’è stata una proliferazione di dichiarazioni da parte di politici e di strategie di sviluppo volte a cercare di trattenere e a far ritornare i giovani lavoratori.

Lo stato è oggi in allarme per lo spopolamento, dovuto sia all’emigrazione che al basso tasso di natalità (tra i due fattori c’è una relazione, dal momento che il gruppo principale di coloro che emigrano si trova negli anni riproduttivi). Alcune di queste dichiarazioni volte a trattenere i potenziali emigranti sono state piuttosto irriguardose, come, per esempio, quando Zoran Đorđević, il ministro del Lavoro, dell’Impiego, dei Veterani e delle Politiche sociali nel 2017-2020 ha detto che “non esiste vita sociale all’estero, mentre in Serbia sì” – come se la vita sociale fosse la preoccupazione principale dei giovani lavoratori che vivono nella precarietà. Rispetto alle politiche, come l’erogazione dal 2018 di un bonus economico ai nuovi genitori come parte di una campagna pro-natalista, purtroppo sembra che si tratti di “troppo poco, troppo tardi” per far desistere i serbi dal desiderare di crescere i propri figli all’estero.

Vedi delle differenze significative tra le varie generazioni di serbi nei confronti dell’emigrazione? Quali sono gli aspetti di genere? E come influisce il background sociale?

Rispetto alle differenze generazionali, i genitori sono uno dei fattori principali nell’aiutare gli emigranti adulti a mettere in atto la mobilità. Molte persone anziane si sono imposte come obbiettivo che i loro figli fossero in grado di andare all’estero, per esempio supportando economicamente i figli che emigravano per studiare con le tasse di iscrizione o mantenendoli. In un certo senso l’emigrazione può essere pensata come un investimento intergenerazionale, che tende a mettere pressione sugli emigranti affinché rimangano all’estero per realizzare questo investimento familiare. Ovviamente questa forma di supporto varia da famiglia a famiglia e dipende dai mezzi economici, può anche significare un luogo stabile da chiamare casa quando si torna dall’estero, o la cura prestata dai nonni ai nipoti.

Tra coloro che considerano la prospettiva di emigrare, ho notato che le donne tendono a dare la priorità all’idea di avere figli quando pensano alla vita all’estero – sebbene non vogliano necessariamente partire, sono preoccupate del sistema in cui i figli potrebbero crescere e di non essere in grado di dare loro quello di cui hanno bisogno. Non ho visto allo stesso modo questa preoccupazione tra gli uomini senza figli che parlano di emigrazione, anche se questo cambia tra coloro che sono già padri. Questo mi fa pensare che esista una componente di genere nel considerare e mettere in atto l’emigrazione, dal momento che in Serbia (come in altri paesi) la pianificazione familiare e il lavoro di cura sono fortemente legate al genere.

A proposito del background sociale, la differenza principale che ho visto non aveva a che fare con la classe sociale da cui la famiglia proveniva, lo status professionale o il livello di istruzione, ma stava nel fatto che qualcuno potesse ragionevolmente aspettarsi di ereditare o ricevere un’abitazione indipendente da parte della propria famiglia – la via principale all’acquisto di un appartamento per i giovani adulti oggi. Per coloro che hanno una casa in cui poter vivere gratuitamente, i costi della vita sono più bassi, il rischio della perdita del lavoro rappresenta una sfida difficile ma non insormontabile, ed è possibile guardare ad altri traguardi.

Anche nel considerare l’emigrazione, questo la rende molto meno rischiosa perché uno ha sempre un posto al quale tornare, mentre allo stesso tempo tendeva ad offrire più scelta rispetto a come, quando, e per che ragione partire.

La Jugoslavia fu l’unico paese socialista a permettere e cercare di gestire l’emigrazione per lavoro a partire dalla metà degli anni ’60. Tuttavia la parola “emigrazione” tendeva ad essere evitata dal momento che ricordava quell’emigrazione politica che aveva lasciato il paese nei decenni precedenti e suonava troppo “definitiva”. Infatti, i migranti per lavoro erano chiamato “lavoratori temporaneamente occupati all’estero”, il che implicava l’idea che un giorno sarebbero tornati, sebbene questo spesso non accadesse. Questo aspetto della mobilità jugoslava è presente in qualche modo nelle narrative dei migranti di oggi dalla Serbia?

Mentre alcune persone in un certo senso si sforzano di staccarsi emozionalmente dalla vita in Serbia, altre vorrebbero davvero restare ma non riescono a far sì che questo coincida con altri obbiettivi normativi, come per esempio quello di avere dei figli. Come dicevo prima, questo è vero in particolare per coloro che non sono possessori di una casa e non aspettano di ricevere un’abitazione dalla loro famiglia in futuro. Per i giovani serbi, i mutui sono in gran parte inaccessibili (e vengono visti come un grosso rischio anche se si riescono ad ottenere), il lavoro tende ad essere disponibile nelle grandi città, il che allo stesso tempo significa che il costo delle abitazioni urbane sta crescendo, mentre la cultura dell’affitto è ancora poco sviluppata. In questo senso molte migrazioni sembrano essere mosse dall’obbiettivo di guadagnare alla fine abbastanza denaro per acquistare una casa in Serbia, realizzando l’idea dei “lavoratori temporaneamente occupati all’estero”. Comunque, come accadde negli anni ’60 con gli jugoslavi “lavoratori ospiti” in Germania, rimane in questione quanta gente alla fine ritornerà, dal momento che le persone si integrano nei nuovi luoghi in attesa di guadagnare abbastanza denaro per ritornare.

Sebbene possa essere troppo presto per tentare un’analisi, quale credi sarà l’impatto della pandemia e della conseguente chiusura dei confini rispetto ai desideri dei serbi di emigrare?

Non sono sicura di quali effetti aspettarmi. Ipotizzerei che una così rapida chiusura dei confini renda la migrazione a più breve raggio (per esempio verso l’Unione Europea piuttosto che gli Stati Uniti) più desiderabile, ma la questione è se le persone si aspettano che queste misure persisteranno nei prossimi anni. È anche possibile che un’altra crisi finanziaria globale renda le migrazioni più difficili e rischiose, e quindi meno desiderabili, o che gli effetti non uniformi di una crisi finanziaria ridisegnino la desiderabilità dei vari paesi.

Tu stessa sei originaria della ex Jugoslavia, e ti sei trasferita negli Stati Uniti da bambina. Successivamente le tue ricerche ti hanno riportata nei Balcani, dove hai deciso di occuparti di migrazioni. Come la tua biografia è stata percepita dai tuoi interlocutori?

Credo che nella maggior parte dei casi le persone trovassero divertente il fatto che io studiassi coloro che volevano partire, mentre io stessa ero “tornata”. Il mio ex padrone di casa, che non conosceva il mio progetto, ad un certo punto si stupì ad alta voce e disse con tono sbalordito, “tutti i giovani se ne vanno e tu torni”. Credo che per alcuni l’idea che qualcuno voglia tornare crei confusione, mentre per altre persone che ho incontrato al di fuori della mia ricerca, era persino frustrante. In generale, credo di aver avuto qualcosina in comune con i miei interlocutori, essendo – sia io che loro – persone giovani che avrebbero voluto poter rimanere ma che hanno realizzato come la mobilità fosse necessaria per raggiungere obbiettivi specifici, o in quanto persone dei Balcani “all’estero”. Ma credo che prima di tutto io sia stata percepita come “una della diaspora degli anni ’90, il che, a mio parere, rappresenta una categoria a sé, in qualche modo a metà tra l’essere un insider che può entrare in relazione, ma allo stesso tempo anche uno straniero.


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