Belgrado © S-F/Shutterstock

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Marina Lalović è tra le voci di Radio 3 Mondo. Ha recentemente pubblicato un libro, edito dalla casa editrice Bottega Errante, dal titolo "La cicala di Belgrado". Vi racconta la sua Belgrado e quanto è successo dopo aver deciso di lasciarla. Recensione

20/04/2021 -  Vittorio Filippi

Difficile inquadrare questo lavoro di Marina Lalović - serba, giornalista in Italia - dato che nelle 170 pagine circa del suo lavoro sovrappone almeno due sguardi. Il primo – detto però senza alcuna gerarchia di importanza – è quello sulla sua città, Belgrado, esplorandone il genius loci; il secondo è quello sulla sua esperienza di expat in Italia, dove appunto ha studiato e dove ora vive e lavora.

Il fil rouge di tutto ciò che racconta è probabilmente riassumibile nella parola transizione: nata nel 1981, un anno dopo la morte del Maresciallo, vive nel confuso e tumultuoso ventennio degli anni ottanta-novanta che per la Jugoslavia rappresentano davvero il periodo radicale della sua per molti versi avvelenata transizione. Come molti, moltissimi giovani ex jugoslavi se ne va dal suo paese nel Duemila, alimentando quella dolorosa emorragia demografica che secondo la Banca mondiale ha svuotato i Balcani di 4,4 milioni di abitanti negli ultimi 25 anni.

L’autrice emigra quando il lungo regime di Milošević sta ormai per cadere e proprio in Italia “scopre” paradossalmente la complessità della Jugoslavia attraverso il contatto con giovani provenienti dalle altre repubbliche della ex Federazione. Imparando anche che la lingua, la musica, l’abbigliamento, i luoghi possono diventare formidabili strumenti di condivisione come anche di divisione. Se non di strumentali ostilità, come è spesso accaduto nel ventennio citato.

Ma la transizione è anche – e non poteva non esserlo – un vissuto, un lungo itinerario esistenziale. Non certo facile, perché dietro la ricerca della normalità, della libertà da trovare (finalmente) da qualche parte all’estero, si cela lo spettro dello spaesamento, dello sradicamento. O almeno dell’impallidimento della propria identità.

“Quando torno oggi a Belgrado mi sento un po' fuori contesto, quasi una straniera anch’io”, scrive la Lalović; che giustamente cita le parole “profetiche” (sono degli anni sessanta) dello scrittore bosniaco Meša Selimović: “Fino a ieri eravamo quello che oggi desideriamo dimenticare. Ma non siamo nemmeno diventati qualcos’altro. Siamo rimasti a metà strada, confusi. Non possiamo andare da nessuna parte. Siamo sradicati, ma non siamo accolti”. Ma la non appartenenza, conclude con un pizzico di ragionevole ottimismo l’autrice, potrebbe anche essere catartica perché il distaccarsi dai luoghi di origine – soprattutto dai Balcani, così irriducibilmente “identitari”, e su questo vale sempre la lettura di Andrić – può far vedere con maggior chiarezza i propri pregi e difetti. E questo sarebbe un esercizio utilissimo per tutti quei popoli che nel Novecento hanno troppo sofferto dei dolorosi “morsi della storia”: come i popoli balcanici, ad esempio.


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