Zoran Đinđić (foto Demokratska stranka )

Zoran Đinđić (foto Demokratska stranka )

"Đinđić non è entrato nella storia per puro caso, Đinđić ha fatto la storia", così Filip Švarm, autore del recente documentario su Zoran Đinđić trasmesso in occasione del ventennale dall'attentato che costò la vita all'allora premier serbo il 12 marzo 2003

14/03/2023 -  Nemanja Rujević

(Originariamente pubblicato dalla Deutsche Welle , l’11 marzo 2023)

 

In occasione del ventennale dell’attentato a Zoran Đinđić, lei hai realizzato un documentario intitolato Đinđić – priča o Srbiji [Đinđić – una storia serba]. Ritiene che ci sia ancora qualcosa da dire su questa tragica vicenda che non sia già stato detto prima?

Credo che oggi nemmeno le persone che erano molto legate a Đinđić, sia dal punto di vista personale che professionale, e quelle che hanno indagato sul suo omicidio, possano aggiungere altri fatti a quelli che già conosciamo. Ciò che invece si può ancora fare è cercare di osservare il ruolo politico di Đinđić da una prospettiva sistematica, ossia ripercorrere ancora una volta gli anni Novanta – anni che la Serbia di oggi ha completamente rimosso dalla memoria – e mettere in luce l’importanza del 5 ottobre e del primo governo democratico.

Adottando questa prospettiva, emerge chiaramente che Đinđić non è entrato nella storia per puro caso, Đinđić ha fatto la storia. Se non fosse stato per lui, non ci sarebbe mai stato il 5 ottobre.

Inoltre, i ministri del governo Đinđić potevano esprimere liberamente la propria opinione, il governo rendeva conto del proprio operato al parlamento in cui poi si discuteva apertamente di varie questioni. Infine, i media serbi – oggi lo si sente spesso dire – non erano mai così liberi come all’epoca del governo Đinđić. Nessuno esercitava pressioni sui media, i tabloid avevano assunto un atteggiamento antigovernativo, cosa che oggi risulta inimmaginabile. E la cosa più importante: in quel periodo era stato tracciato quel percorso europeo della Serbia che ancora oggi, almeno sulla carta, cerchiamo di seguire.

Quindi, il suo documentario corrobora la tesi secondo cui la Serbia si sarebbe fermata con l’omicidio di Đinđić?

Molti processi si erano arrenati, è vero, ma affermare che la Serbia si era completamente fermata significherebbe sottovalutare l’importanza del contributo di Đinđić. Tanti processi da lui avviati sono ancora vivi. Al momento del suo arrivo al potere, in Serbia non c’erano né aziende né investimenti stranieri, la criminalità e la corruzione regnavano sovrane. Era stato Đinđić a intraprendere una vera lotta contro queste piaghe della società, una lotta che diede i suoi frutti soprattutto durante l'operazione Sablja [sciabola] seguita al suo omicidio.

All’epoca del governo Đinđić si era verificata anche un’insurrezione armata degli albanesi del Kosovo – fatto che si tende spesso a dimenticare – e Đinđić era riuscito a risolvere anche questa questione. Inoltre, aveva normalizzato fino ad un certo punto i rapporti con i paesi della regione, dando vita a molte iniziative che sono proseguite dopo il suo omicidio, anche se magari non con la stessa intensità e nel modo in cui Đinđić avrebbe voluto proseguissero. Ad ogni modo, l’eredità di Đinđić è rimasta viva e nessuno è riuscito a sfuggire al suo effetto.

Dalla vita e dall’opera di Đinđić hanno tratto vantaggio sia quelli che hanno fatto crollare il regime nefasto di Milošević sia quelli che hanno difeso quel regime. La Serbia di oggi è molto diversa dalla Serbia del periodo precedente al 5 ottobre. Anche i più ferventi sostenitori di Milošević ci hanno guadagnato, oggi anche loro possono viaggiare liberamente, il paese non è più sottoposto a sanzioni, il tenore di vita è cresciuto, potremo continuare ad elencare a lungo.

Sembra che attorno alla figura di Đinđić si sia creato un culto che a lui sicuramente non sarebbe piaciuto. Pensa che l’attentato abbia contribuito affinché Đinđić diventasse una sorta di leggenda?

Non lo chiamerei un culto. Dopo l’omicidio e il funerale di Đinđić in Serbia si era assistito a uno dei rari momenti di catarsi nazionale. Se non fosse stato ucciso il 12 marzo 2003, Đinđić sicuramente avrebbe perso le elezioni successive. È uno dei pochi politici serbi che non hanno mai tratto alcun vantaggio dallo stare al governo. Đinđić aveva scelto di rivelare verità scomode ai cittadini serbi, cercando però sempre di andare avanti.

Dopo la morte di Đinđić, alcuni dei suoi collaboratori, ma anche alcune persone che non avevano mai intrattenuto alcun legame con lui, avevano cercato di sfruttare quel momento di catarsi nazionale, quel 12 marzo in cui, di fronte all’emergere dell’essenza oscura del regime di Milošević, la Serbia aveva finalmente aperto gli occhi. Quelle persone si erano appropriate dei meriti di Đinđić, cercando così di sottrarsi a ogni responsabilità per evitare di essere criticati. Questa strategia però si era rivelata deleteria. Đinđić invece non aveva mai dato alcuna importanza alla popolarità. Il suo obiettivo non era quello di conquistare le simpatie dell’opinione pubblica, bensì di cambiarla. La figura di Đinđić è finita per essere imbalsamata proprio perché alcuni individui e gruppi l’hanno sfruttata per molto tempo per evitare che il loro operato venisse criticato.

Come commenta il fatto che oggi tutti cercano di appropriarsi dell’eredità di Đinđić, dall’attuale governo ai liberali, passando per i nazionalisti che insistono su alcune delle ultime interviste rilasciate da Đinđić dedicate alla questione del Kosovo?

In Serbia si tende ad apprezzare le persone solo dopo la loro morte. Tutti quelli che si opponevano a Đinđić mentre era vivo, dopo il suo omicidio improvvisamente hanno cambiato posizione. Appropriarsi anche solo di un pezzettino dell’eredità di Đinđić si era rivelato molto vantaggioso dal punto di vista politico. Il giorno dell’omicidio solo un quarto dei cittadini serbi giudicava l’operato di Đinđić come buono o ottimo. Poco tempo dopo, tre quarti dei cittadini hanno espresso tale giudizio.

Evidentemente la Serbia si era resa conto di aver valutato male una delle persone più importanti a cavallo dei due secoli, eppure nessuno era mai riuscito ad osservare la figura di Đinđić nella sua interezza. Anche oggi tutti cercano di appropriarsi di quella parte dell’eredità di Đinđić che ritengono utile per i propri scopi. I nazionalisti insistono su uno o due discorsi in cui Đinđić difende gli interessi della Serbia e dei serbi nel Kosovo, senza però mai utilizzare una retorica nazionalista. I liberali, quelli favorevoli all’ingresso della Serbia nell’UE, tirano fuori altre questioni. C’è poi chi continua a citare diverse dichiarazioni di Đinđić servendosene per i propri scopi.

Poco prima dell’omicidio, Đinđić era diventato oggetto di dure critiche da parte dei media sia nazionalisti che liberali. Poi si era parlato molto del “retroscena politico dell’omicidio”. Lei come spiega questa tendenza?

Si era trattato di una scontro tra alcuni partiti politici. Molti media avevano assunto un atteggiamento critico nei confronti di Đinđić e della sua politica, ma non perché Đinđić aveva cercato di corrompere o disciplinare i media. Successivamente, ogni critica rivolta a Đinđić da parte dei media veniva interpretata come parte integrante di una tendenza volta a creare un clima favorevole all’attentato, quindi come parte del retroscena politico dell’attentato. Erano stati alcuni collaboratori di Đinđić a portare avanti questo discorso, sperando di riuscire così a ripulire il proprio passato ed evitare di essere criticati. Un discorso che si era rivelato parte integrante di uno scontro tra il Partito democratico (DS) e il Partito democratico della Serbia (DSS).

Quando poi il Partito progressista serbo è salito al potere, molti di quelli che per anni hanno continuato sottolineare con maggiore insistenza la questione del “retroscena politico” dell’omicidio Đinđić all’improvviso si sono ammutoliti. Nessuno più parla del ruolo di Šešelj e dei suoi incontri con Legija e Dušan Spasojević, nessuno osa citare alcune dichiarazioni di Aleksandar Vučić pronunciate in passato. E del retroscena politico dell’attentato si parla solo in occasione dell’anniversario di quel tragico evento. Il discorso incentrato sul retroscena politico non era mai finalizzato a fare chiarezza sui fattori che avevano portato all’omicidio di Đinđić, compreso il clima che regnava nella società serba prima dell’attentato. L’obiettivo era sempre quello di tacciare e screditare gli oppositori politici.

Crede che sia possibile trarre qualche lezione da quel breve periodo del governo Đinđić, ma anche dal suo omicidio?

Voglio credere che siamo capaci di trarre diverse lezioni. Primo, la Serbia può essere un paese normale. Đinđić ha fatto tutto il possibile per rendere lo stato e la società serba più normali. Secondo, una svolta è possibile, la democrazia e la giustizia possono vincere. Abbiamo imparato quanta rilevanza possano rivestire le istituzioni e quanto sia importante chiamare le cose con il loro nome.

Oggi però sembra che la Serbia non abbia imparato proprio nulla…

Se l’attuale governo si comporta come se non avesse imparato nulla, allora dobbiamo insistere sul fatto che una svolta è possibile. È una lezione che la società serba poteva e doveva già imparare.

Ad ogni modo siamo diventati più sensibili alle minacce e l’attuale leadership ne approfitta, continuando a parlare di potenziali pericoli e attentati, strumentalizzando così la consapevolezza dei cittadini riguardo alla tragica sorte di Đinđić. Non abbiamo mai superato il trauma di quel 12 marzo.


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