Đorđe Balašević (Ivica Drusany/Shutterstock)

Đorđe Balašević (Ivica Drusany/Shutterstock)

Venerdì è morto il cantautore Đorđe Balašević, lasciando un vuoto non solo in Serbia, suo luogo natale, ma in tutta l'area che fu la Jugoslavia

22/02/2021 -  Vittorio Filippi

Con la immatura e repentina scomparsa di Đorđe Balašević, il poeta-cantautore della Jugoslavia che fu, è tutta la Jugosfera – se vogliamo usare questo fortunato neologismo – ad essere fortemente impoverita: culturalmente, emotivamente, ed anche simbolicamente. E sappiamo che i simboli contano, eccome.

Perché Balašević, nato a Novi Sad nel 1953, ha – con la sua musica, i suoi testi e le sue narrazioni – attraversato come un intenso fil rouge la Jugoslavia socialista “matura”, il post-titoismo e l’infinita, drammatica transizione post-jugoslava che nella sua Serbia fu ancora più infinita e conflittuale.

Quando nel 1978 (due anni prima della morte di Tito) Balašević apparve con la nota canzone Računajte na nas (“Contate su di noi”), un inno alle promesse e agli ideali della gioventù socialista jugoslava, fu (in seguito) accusato di essere dalla parte del regime, tanto è vero che, negli anni ottanta, un gruppo punk sloveno (i Pankrti) rispose polemicamente con un brano dal titolo inequivocabile: "Non contate su di noi".

I tempi stavano ormai cambiando: Samo da rata ne bude, “Basta che non ci sia la guerra”, titolava una canzone di Balašević nel 1986, quando mancavano ancora cinque anni all’inizio degli scontri armati e nessuno osava immaginare il tragico epilogo. Eppure già c’è “qualcosa nell’aria” e c’è fin dalla morte di Tito: infatti nella canzone Balašević ricorda il 1980 – l’anno della morte del Maresciallo – ed il “treno nero” che si porta via la salma di Tito. E su questo treno se ne va, metaforicamente, lui stesso ed il paese intero.

Samo da rata ne bude divenne presto l’inno contro la guerra di tutti i pacifisti jugoslavi: un inno desolatamente inascoltato, com’è noto. Balašević naturalmente si opporrà al nazionalismo di Milošević, si opporrà alla guerra e sarà perfino considerato un nemico della Serbia perché non volle arruolarsi: una guerra, disse, che “È la croce della mia generazione. Non solo perché non abbiamo fatto niente ma perché abbiamo permesso che ci fottessero, che rovinassero le generazioni future. L’immagine, che pure esisteva, di uno stato piccolo, coraggioso, soprattutto onesto, si è così degradata che non so con che cosa potremo aggiustarla”. Nel 1993 dedicò una canzone a Vukovar ed alle altre città croate e bosniache aggredite (“Voi non avete idea, miei cari fratelli/ Non sapete cosa significa uccidere una città”) e si oppose anche ai bombardamenti della Nato del 1999 scrivendo una canzone sulla distruzione del ponte sul Danubio a Novi Sad, la sua città: “Non diciamo menzogne. Questo non era un ponte di quelli fatti per essere guardati. No, era piuttosto uno di quelli costruiti per guardarci e per baciarcisi sotto la prima volta”.

Nel 2008 sostenne il democratico Boris Tadić e fino all’ultimo, come disse in una intervista al quotidiano belgradese Blic, affermò di essere ancora jugoslavo e non serbo. Andò a fare un concerto a Sarajevo subito dopo l’assedio e soprattutto non smise mai di raccogliere entusiastiche accoglienze in tutta la ex Jugoslavia, oltrepassando confini ed intolleranze e testimoniando ciò che ancora poteva unire. Ora il poeta-cantautore non c’è più, ma ci restano le sue numerose canzoni-poesie fatte di pensieri profondi, intelligenti giochi di parole, sonorità originali. Testimonianze forti di creatività, di bellezza, di coerenza.


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