La manifestazione a Belgrado del 17 marzo scorso - foto di Massimo Moratti

La manifestazione a Belgrado del 17 marzo scorso - foto di Massimo Moratti

Il 18 marzo il presidente serbo Vučić e il primo ministro kosovaro Kurti si sono incontrati a Ohrid. Pochi i progressi ma intanto, a Belgrado, misteriosi manifesti sono stati affissi contro chi contesta la linea del governo e i partiti di destra sono scesi in piazza

21/03/2023 -  Massimo Moratti

L’accordo tra Serbia e Kosovo, accettato dalle parti il 27 febbraio scorso, si avvia ad entrare nelle fasi cruciali, quelle che serviranno a definire le modalità di implementazione degli accordi presi. Il primo incontro si è appunto tenuto a Ohrid il 18 marzo, ma come aveva annunciato Vučić in precedenza, non ha portato alla firma di alcun documento ufficiale. Anche i progressi su altre questioni sembrano essere stati piuttosto limita tati, come ha implicitamente ammesso lo stesso Alto Rappresentante Ue per la politica estera Borrell.

Nel frattempo però le voci dissenzienti si fanno sentire in Serbia, soprattutto tra i partiti che rappresentano l’estrema destra in parlamento. La settimana precedente l’incontro a Ohrid è stata infatti caratterizzata da diversi momenti di tensione e provocazioni che sono poi culminati nella manifestazione di venerdì 17 marzo a Belgrado, organizzata dai partiti di destra.

La guerra dei manifesti

Tra martedì e mercoledì l’intera Belgrado è stata tappezzata di misteriosi manifesti e volantini che attaccavano direttamente i leader di alcuni partiti della destra come Bosko Obradović del Movimento Serbo Dveri, Milica Djurdjević Stamenkovski del Partito Serbo Zavetnici (letteralmente "coloro che mantengono la promessa") e Miloš Jovanović del Nuovo Partito Democratico Serbo (DSS).

I poster ritraevano i tre leader della destra serba con il “qeleshe”, il tipico copricapo albanese, la foto di Albin Kurti e il decreto di grazia concesso ad Albin Kurti nel dicembre 2001, firmato dall’allora presidente serbo Vojislav Koštunica, fondatore del DSS, di cui ora Jovanović è il presidente. I poster vogliono suggerire che i tre leader dei partiti della destra fanno il gioco della controparte albanese e in più il partito di Jovanović è responsabile del rilascio di Albin Kurti dalla prigione. Albin Kurti venne arrestato dalle forze di Milošević nel 1999, condannato a 15 anni di carcere per aver attentato all’integrità territoriale della Serbia e fu graziato da Koštunica nel 2001.

Altri manifesti ritraevano invece lo stesso Jovanović con la bandiera francese sullo sfondo e la dicitura “Miloš il francese”, in virtù dei suoi studi in Francia. I manifesti erano stati accompagnati da scritte sui marciapiedi accusando la Đurđević Stamenkovski di essere una bugiarda. La stampa loca le riconosce lo stile dell'SNS del presidente Vučić nel portare questi attacchi. Ciononostante i diretti interessati non sembrano farsi intimidire da questo attacco personale, lo stesso Obradović ha commentato l’assurdità delle accuse spiegando che ai tempi della liberazione di Kurti lui era uno studente universitario e la Đurđević Stamenkovski aveva solamente 11 anni. Seppur in misura minore, è partita anche una contro campagna contro Vučić e l’establishment al potere.

 

Milos Jovanović con la bandiera francese sullo sfondo e la dicitura “Miloš il francese”, in virtù dei suoi studi in Francia - foto di Massimo Moratti

 

I poster ritraevano i tre leader della destra serba con il “qeleshe”, il tipico copricapo albanese, la foto di Albin Kurti e il decreto di grazia concesso ad Albin Kurti nel dicembre 2001, firmato dall’allora presidente serbo Vojslav Koštunica, fondatore del DSS, di cui ora Jovanović è il presidente - foto di Massimo Moratti

Un episodio analogo è accaduto anche alla Facoltà di Scienze Politiche, dove era programmato da tempo un incontro tra i professori di Belgrado e di Pristina. L’incontro è stato cancellato e i professori che l’avevano organizzato sono a loro volta divenuti loro malgrado il bersaglio in questa “guerra dei manifesti”. Le loro foto sono state affisse fuori dalla facoltà con la dicitura “traditore”. Gli studenti della facoltà hanno manifestato in solidarietà con i professori e la società civile ha denunciato questo clima di intimidazione e incitamento all’odio.

La manifestazione di venerdì 17

La “guerra dei manifesti” è avvenuta principalmente a Belgrado ma vi sono stati degli episodi anche in altra città. Va detto che il messaggio dietro a questi manifesti è rimasto inizialmente oscuro anche a molti belgradesi . Le cose sono divenute più chiare venerdì 17 marzo, quando era in programma una grossa manifestazione della destra serba in opposizione all’accordo di Bruxelles. La manifestazione ha radunato diverse migliaia di persone, in gran parte sostenitori dei tre partiti guidati da Obradović, Jovanović e Đurđević Stamenkovski e di altri partiti della destra, tra i quali il Partito per il Ritorno della Monarchia in Serbia.

Gli organizzatori della manifestazione hanno denunciato il fatto che a Novi Sad, numerosi autobus diretti alla manifestazione nella capitale erano stati fermati e fatti ritornare indietro . Episodi analoghi sono avvenuti anche nel sud della Serbia, dove gli autobus sono stati rimandati indietro con la scusa che i veicoli dovevano esser sottoposti ad una revisione straordinaria.

Nonostante questi ed altri episodi, l’affluenza sul piazzale di fronte al tempio di Sveti Sava è stata massiccia e tipica delle manifestazioni organizzate dalla destra. Il motto principale era “No alla capitolazione”, cioè l’accordo europeo con il Kosovo. La folla ha riempito il piazzale, si stima vi siano state diverse migliaia di persone: giovani e anziani, sostenitori del re e cetnici, facce imberbi e facce indurite, tante šajkače (berretto tradizionale serbo, ndr), verdi e nere, qualche basco rosso per ricordare i famigerati “berretti rossi”, l’unità di forze speciali responsabile, tra i molti crimini, dell’assassinio di Zoran Đinđić. Icone, ritratti dell’imperatore Lazar, torce e canti patriottici hanno fatto da coreografia. Il servizio d’ordine è stato garantito dagli organizzatori stessi. Gli slogan sono stati contro il piano franco-tedesco, ricordando che la “comunità delle municipalità serbe” prevista dagli accordi, è un grosso imbroglio. Numerosi striscioni hanno commemorato gli eventi del 17 marzo 2004, quando circa 4.000 serbi furono espulsi dal Kosovo in seguito ad incidenti a base etnica che costarono la vita di 19 persone (8 serbi e 11 albanesi) e il ferimento di circa 900 persone (tra i quali 65 membri delle forze di polizia delle Nazioni Unite). La data scelta per la manifestazione calzava a pennello con le intenzioni degli organizzatori.

Dal palco della manifestazione, allestito dietro la presidenza della Serbia, simbolicamente vicino al monumento allo Zar Nikola II di Russia, Duško Obradović ricordando la triste ricorrenza del 17 marzo, ha voluto mandare un messaggio chiaro a Vučić: il piano europeo per il Kosovo va respinto, perché è una sorta di capitolazione. Secondo Obradović, Vučić dovrebbe dare le dimissioni e indire immediatamente nuove elezioni . Prima di lui, Milica Đurđević Stamenkovski aveva detto che “l’onda che abbiamo iniziato è inarrestabile e non possiamo più tornare indietro”. In precedenza Obradović aveva dichiarato che per lui la soluzione naturale alla questione del Kosovo è all’interno della Serbia con una sostanziale autonomia per la popolazione albanese. Inoltre aveva ribadito che non era il momento adatto per discutere la questione del Kosovo e che bisognava aspettare la fine del conflitto in Ucraina, con migliori condizioni geopolitiche.

Il messaggio per Vučić è chiaro e Vučić sembra averne preso nota quando ha dichiarato che non avrebbe firmato alcun accordo a Ohrid.

Spazi ristretti per Vučić

È chiaro che dimostrazioni come questa restringono lo spazio di manovra per Vučić e ciò non vale solo per la politica estera, ma anche per quella interna. La manifestazione di venerdì è parsa fortemente critica del governo, arrivando a chiedere nuove elezioni, e la “guerra dei manifesti” la ha resa ancora più accesa nei toni. Allo stesso tempo però ha fornito a Vučić un pretesto per rimandare ulteriormente ogni decisione in merito alla questione del Kosovo e come si è visto a Ohrid, i progressi sono stati molto limitati e le questioni più difficili sono ancora tutte da affrontare. Ma come si è capito in settimana a Belgrado, la questione del Kosovo non è solo - e non è mai stata - una questione di politica estera, ma anche di politica interna.


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