Александр Бикбов / Alexander Bikbov - foto di  Valerij Ledenev/Flickr (CC BY-NC 2.0)

Александр Бикбов / Alexander Bikbov - foto di  Valerij Ledenev/Flickr (CC BY-NC 2.0 )

"L’emersione stabile di una coscienza civica russa contro la guerra è indissociabile da un’elaborazione collettiva del trauma di appartenere al paese aggressore", così il sociologo e dissidente russo Alexander Bikbov in questa intervista

11/11/2022 -  Asia Leofreddi

“Quella di Putin è una guerra neomercantilista, mossa solo da ragioni di profitto e di potere. Se non si parte da qui quando si parla di pace, la guerra all’Ucraina non sarà l’ultima”. A parlare è Alexander Bikbov, sociologo e intellettuale dissidente russo che, da più di vent’anni, si occupa di movimenti sociali in Russia. Fino al 2017 Bikbov è stato il vice direttore del centro per la filosofia contemporanea e le scienze sociali dell’Università di Mosca. Cinque anni fa, vista la censura e l’impossibilità di portare avanti liberamente le sue ricerche, lasciò il paese. Oggi è ricercatore associato all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (Ehess) di Parigi, da dove si è più volte espresso contro la guerra, raccontando la società russa, le sue disuguaglianze e i suoi focolai di resistenza.

Ha più volte criticato un approccio troppo geopolitico alla guerra nei media e nella politica - anche di sinistra - occidentali. Cosa intende? Quali sono i suoi limiti?

Mi riferisco al fatto che spesso si tende a spiegare questo conflitto nei termini di una contrapposizione tra due blocchi: la Nato e la Russia. Si tratta, a mio avviso, di un errore metodologico che, nel suo schematismo eccessivo, dimentica il ruolo che in questo conflitto hanno la storia politica e culturale delle società coinvolte. Nelle narrazioni geopolitiche, infatti, le società come enti autonomi e frutto di una lunga costruzione sono cancellate: non esiste l'Ucraina, ma non esiste neanche la Russia, con tutte le sue tensioni interne, le sue contraddizioni e le sue complessità. La storia delle strutture di potere e sociali che si attivano nel contesto della guerra, invece, è un aspetto fondamentale per capire la situazione e un punto da cui partire per costruire una pace giusta.

Quali sono allora le radici “interne” di questa guerra?

Questo conflitto non può essere ricondotto solo a una follia suicidaria di Putin, ma è piuttosto il risultato della progressiva degenerazione delle strutture relazionali del suo modello di potere: una rottura dell’equilibrio tra la componente modernista e tradizionalista del suo governo.

Questo processo iniziò già alla fine del 2000 e prese una forma palese nel 2011-2012 quando, sull’onda delle proteste contro i brogli elettorali, si formò in Russia uno spazio pubblico critico che prima non esisteva. Da quel momento Putin decise che non si poteva (e non si doveva) più dialogare con l’opposizione. Oltre a diventare sempre più repressivo nei confronti della società civile, iniziò ad allontanare progressivamente dal cuore del potere persone ed esperti portatori di una certa forma di “razionalità” europea e occidentalizzata. È stato il caso, per esempio, del propagandista Gleb Pavlovsky, licenziato nel 2011 e oggi finito all’opposizione; oppure, del ministro delle Finanze Aleksej Kudrin; infine, di Vladislav Surkov, uno degli strateghi più vicini a Putin che però ha fallito nella sua idea di creare la “democrazia controllata". Si è trattato di una sorta di marginalizzazione di tutto il suo entourage più “modernista”, che ha portato a fare prevalere le componenti neotradizionaliste, più complottiste, nazionaliste e belligeranti, tra cui anche l’ala più conservatrice della Chiesa ortodossa.

Alla radicalizzazione di questo universo simbolico, e alla sua trasformazione in azione, ha dato un colpo finale la pandemia. Non sappiamo il momento esatto in cui la decisione è stata presa - se lo sapessimo non potremmo stare certo qui a parlarne pubblicamente! - ma la restrizione del circolo degli esperti del governo, insieme al progressivo isolamento di Putin dovuto al covid hanno sicuramente creato le condizioni “ambientali” in cui questa guerra è stata concepita.

Una guerra che, a suo avviso, mette insieme potere e profitto. In che senso?

Sulla base delle mie ricerche sulla struttura duale del regime russo, in cui politiche di fatto neoliberiste vengono travestite con i panni del tradizionalismo, sono giunto alla conclusione che, dall’inizio degli anni 2010, il regime politico russo sia passato a una fase neomercantilista. La consapevolezza di non poter prevalere né dal punto di vista tecnologico, né da quello demografico, e l’ossessione di difendersi da eventuali invasori, hanno portato il governo ad attribuire sempre più importanza al territorio come fonte di potenza e alla conquista di nuovi territori sotto il pretesto della “restaurazione” della grande Russia.

Non si tratta però di un progetto mosso solo da un approccio coloniale e nazionalista, ma anche da considerazioni di profitto che, seppur capitaliste, si muovono in una logica diversa dalla razionalità neoliberista. Se, infatti, si ragiona nell’ottica di massimizzazione del profitto, l’espansione territoriale non conviene, in quanto la guerra e l’occupazione sono imprese che richiedono un’ingente spesa. Se, invece, si parte dal punto di vista della razionalità mercantilista che vede nel territorio prima una fonte di potenza e poi, solo in seguito all’occupazione, anche di ricchezza, “la follia” sanguinaria di Putin seppure arcaica, diventerà più chiara nei suoi intenti. Questa è la logica che, nei primi mesi della guerra, ha portato la Russia a tutelare le infrastrutture energetiche ed economiche ucraine, nella prospettiva di un loro riciclo ad annessione avvenuta.

Ha spesso descritto la società russa come attraversata da profonde disuguaglianze, dovute alle eredità della transizione democratica e alle politiche neoliberali del governo di Putin. In che modo la guerra si è innestata in questo contesto?

La guerra ha reso più visibili le fratture etniche, culturali e di classe che già attraversavano la società russa e le ha esacerbate, lasciando che fossero le persone più in basso nella scala sociale a subire le conseguenze più pesanti del conflitto. Per fare un esempio, il 21 settembre Putin ha annunciato la mobilitazione “parziale” in tutto il paese, ma il 17 ottobre il sindaco di Mosca l’aveva già dichiarata conclusa per la capitale. Sicuramente è stata una decisione volta a ridurre manifestazioni di dissenso; tuttavia, ha anche scoperchiato una delle gravi disuguaglianze di questo conflitto. Alcuni dati mostrano come la maggior parte dei soldati che hanno perso la vita veniva dalle zone rurali e dalle repubbliche etniche: Daghestan, Tuva, Buriazia. Da parte del governo non si tratta di una discriminazione etnica, almeno non esplicita, ma sono le regioni più povere, dove aderire alle forze armate è per i giovani una delle poche possibilità di mobilità sociale.

Un altro dato interessante è quello sugli psicofarmaci. Rispetto al 2021, la loro vendita è raddoppiata. Senza sorpresa, le regioni in cui è più alta sono Mosca e San Pietroburgo, le stesse dove si registrano i tassi più alti di partenze per sottrarsi alla guerra; quelle dove invece è più bassa sono la Cecenia, il Daghestan, Tuva, ovvero quelle che hanno sofferto di più nelle prime fasi del conflitto e da cui, per motivi economici, è più difficile scappare. Non bisogna, infatti, dimenticare che per fuggire e sottrarsi all’arruolamento bisogna poter disporre di un capitale economico e in Russia non tutti ce l’hanno.

Da anni, si occupa di movimenti di protesta in Russia. Si può parlare oggi di un movimento di opposizione al conflitto?

Al momento, si possono rintracciare almeno tre forme di resistenza. La prima è quella portata avanti da gruppi come le femministe della rete Fas , i movimenti Lgbt, o gli anarchici. Non organizzano grandi manifestazioni, ma utilizzano pratiche simboliche, tipiche di chi ha dovuto agire in un contesto sempre più repressivo: aprono canali Telegram, scrivono messaggi contro la guerra sulle banconote, lasciano graffiti e oggetti in vari punti delle città per ricordare i bambini di Mariupol uccisi dalle bombe russe, o ancora organizzano performance come quelle delle “donne in nero”. Hanno anche creato una cassa di aiuto per le persone che sono state licenziate per essersi opposte alla guerra.

La seconda, è quella portata avanti dall’opposizione democratica o liberale. Utilizzano forme di protesta più “classiche”: le manifestazioni di strada, i picchetti individuali. Sono azioni che privilegiano l’idea del messaggio politico nello spazio pubblico e s’indirizzano soprattutto ai media. Questo è un repertorio dissidente molto ben collaudato in Russia già dall’epoca sovietica e che ricorda i sei dissidenti russi che nel ’68 si radunarono sulla piazza Rossa, per protestare contro l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici.

La terza, infine, è quella rappresentata dalle forme di resistenza che si svolgono negli strati sociali che appartenevano alla maggioranza leale alle istituzioni e che non si erano mai mobilitate prima, ma che ora, soprattutto dopo l’ultima chiamata alla mobilitazione detta “parziale”, davanti al rischio della morte dei propri cari, hanno cominciato a farlo.

Potrebbe fare qualche esempio di questa terza forma?

Dall’inizio della guerra, sono state lanciate 75 bombe molotov contro i commissariati, con lo scopo di protestare contro la guerra, ma anche di distruggere i registri di leva. Se alcune di queste azioni sono state compiute da attivisti - anche di estrema destra - altre sono state compiute da persone comuni, che non volevano che gli uomini della propria famiglia andassero in guerra.

Un’altra iniziativa interessante è quella dell’assenza di gruppo dal posto di lavoro, presentando un certificato medico regolare. Era una strategia inventata dalla sinistra radicale per protestare contro l’economia neoliberista, evitando i rischi della repressione. Dopo che hanno cominciato a prelevare gli uomini da arruolare nelle sedi di lavoro, anche i manovali e gli operai hanno iniziato a utilizzare questa tattica per sottrarsi alla chiamata e non partecipare all’economia della guerra.

Infine, dopo l’annuncio della mobilitazione, persone che sono rimasti in Russia, e che osservano la vita quotidiana di Mosca, mi hanno raccontato che diverse persone, che per mesi non avevano parlato della guerra in pubblico per paura della censura, hanno iniziato a discutere ad alta voce - sugli autobus, nei caffé o per strada - su come far scappare i propri figli o nipoti.

Non sono movimenti massivi o spettacolari, ma una resistenza quotidiana e istintiva, molto importante per un contesto repressivo come quello russo, che dimostra che il governo non ha un controllo totalitario sulla popolazione e che il consenso verso questo conflitto non è così alto come vuole far credere.

Ritiene che l’opposizione in Russia sia stata sufficientemente sostenuta dai governi e dalle società civili europee?

Sicuramente c’è stata sensibilità verso la resistenza russa. Tuttavia, rimangono dei nodi. Il primo riguarda il futuro prossimo delle reti di resistenza, sia in Russia sia in Europa. Al momento, l’accoglienza degli esuli nei diversi paesi europei si basa soprattutto sull’assistenza individuale: i visti, l’alloggio, l’offerta di borse di studio di breve durata. Manca però una strategia di lungo raggio sulla loro integrazione sociale e politica (questione che riguarda ancora di più i profughi ucraini), con l’effetto di una diaspora isolata dagli interessi civili europei. Un altro tema riguarda il sostegno piuttosto frammentato alle attività di ricerca e formazione in campi attualmente proibiti sul territorio russo (la protesta, il pensiero anticoloniale, le questioni legate all’universo lgbtq), sia per i profughi che per coloro che continuano a resistere in Russia. L’emersione stabile di una coscienza civica russa contro la guerra è indissociabile da un’elaborazione collettiva del trauma di appartenere al paese aggressore e, dunque, ha bisogno di strutture associative e collettive per acquisire una forma che duri nel tempo.

Nel contesto di questa guerra, cosa dovrebbe prevedere una pace “giusta”?

So che larga parte della sinistra italiana e internazionale chiede che la Nato, e più generalmente i paesi occidentali, smettano di sostenere militarmente le forze pro-occidentali in Ucraina. Sicuramente, e giustamente, un approccio critico alle strutture del potere della «propria» società è un fattore costitutivo della sinistra. In questo caso, però, si realizza al costo di non riconoscere (e a volte di non voler riconoscere) la complessa e oppressiva realtà russa degli ultimi dieci anni. Non sono solo le strutture del potere occidentali ad avere la loro storia e il loro peso, lo stesso vale anche per il potere russo. D’altra parte, non basta neanche chiedere solo il cessate il fuoco: è un’opzione troppo minimalista che congela il conflitto senza cercare una vera soluzione. Bisogna invece chiedere anche il ritiro delle forze armate russe dal territorio ucraino. Come dicevo prima, questa è una guerra mercantilista dal forte carattere coloniale e capitalista, non riconoscerlo è un errore epistemico che non offre una base solida per riflettere su una soluzione “giusta” a questo conflitto.

Come vede il futuro della Russia dopo questa guerra?

Non sono molto ottimista. Se la mia ipotesi sul carattere neomercantilista dell’attuale regime russo è corretta, questa guerra non sarà l’ultima. L’idea sembra piuttosto quella di riorientare l’economia sempre più verso la produzione bellica e continuare l’espansione territoriale, con lo scopo di creare nuove colonie su base capitalistica. Temo che le strutture statali e le grandi imprese economiche verranno sempre più assoggettate a questo progetto. Bisogna considerare, poi, che la parte della popolazione più incline a resistere ha dovuto lasciare il paese. Anche dal punto di vista sociale, quindi, si prospetta lo scenario di una popolazione a cui si chiede un consenso sempre più forzato, sottoposta a disuguaglianze sempre più acute, rese ancora meno visibili sotto lo slogan dell’unione nazionale, in una Russia sempre più isolata sul piano internazionale. E tutto questo, va detto, è spaventoso.


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