Nelle strade di Pristina - © JackKPhoto/Shutterstock

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Decine di cittadini del Kosovo sono stati rimpatriati dai territori di Siria ed Iraq che erano sotto il controllo del "califfato dello Stato islamico". Nonostante gli sforzi, il loro reinserimento nella società kosovara resta difficile a causa di pregiudizi, disoccupazione e fragilità sociale

17/08/2022 -  Agon Sinanaj Pristina

(Originariamente pubblicato da Balkan Insight, il 14 luglio 2022)

A pochi giorni dal suo rientro in Kosovo, N. fu presa dal timore di non riuscire ad affrontare in modo adeguato le sfide che il ritorno nel suo paese di origine avrebbe inevitabilmente comportato, sfide legate innanzitutto all’incertezza economica, ma anche alle reazioni della comunità locale.

N. (che ha voluto mantenere l’anonimato) è una dei 121 cittadini del Kosovo rimpatriati dalle aree della Siria e dell’Iraq che facevano parte dell’autoproclamato califfato dello Stato islamico.

“Una volta ritornati in Kosovo, mi chiesero se volessi studiare all’università o frequentare un corso di formazione e io risposi: ‘Vorrei frequentare un corso di taglio e cucito’”, racconta N. Pur avendo completato un corso di sartoria tre anni fa, N. non è ancora riuscita a trovare un impiego. Attualmente vive con suo figlio in un appartamento in affitto pagato dallo stato.

“Ho cercato lavoro come sarta in diverse aziende, ma tutti mi hanno risposto che serve esperienza, e io non ho alcuna esperienza”, spiega N.

La disoccupazione, che ormai da tempo dilaga nell’intero paese, è uno dei principali ostacoli che minano gli sforzi per reintegrare le persone come N. nella società kosovara. Un altro problema riguarda la persistenza dei pregiudizi nei confronti delle persone rimpatriate.

Il Kosovo deve ancora elaborare una strategia efficace per la riabilitazione e il reinserimento a lungo termine delle persone rimpatriate da zone di conflitto.

“In Kosovo manca un approccio istituzionalizzato al trattamento di questa categoria di persone”, spiega Shpat Balaj, ricercatore presso il Centro kosovaro per gli studi sulla sicurezza (KCSS). “Gli interventi vengono di solito pensati ad hoc nell’ambito dei progetti portati avanti da alcune organizzazioni o grazie ai contributi, peraltro modesti, concessi dallo stato”.

Quanto durerà il sostegno statale?

Con un tasso di disoccupazione del 25,8%, che sale al 50% tra i giovani, il Kosovo resta il paese più povero della regione.

La mancanza di lavoro e di possibilità di raggiungere una stabilità economica rappresenta il principale ostacolo al reinserimento dei rimpatriati nella società kosovara. Anche nella strategia per la prevenzione dell’estremismo violento e della radicalizzazione, adottata dal governo di Pristina, si sottolinea la necessità di migliorare i meccanismi esistenti.

“Nonostante gli sforzi profusi dalle istituzioni dello stato per affrontare queste sfide, perlopiù di carattere economico e sociale, i fattori che contribuiscono all’estremismo violento trovano ancora nella nostra società terreno fertile per svilupparsi”, si legge nella strategia del governo kosovaro.

Attualmente, lo stato copre le spese di alloggio dei cittadini kosovari rimpatriati dal Medio Oriente, concedendo loro anche un sostegno finanziario per soddisfare i bisogni primari. Sono previste anche alcune misure per la tutela dei bambini, in particolare per garantire che vengano inclusi nel sistema educativo, mentre le donne possono usufruire dei sussidi, seppur modesti, volti a favorire la formazione e l’occupazione. Sorge però spontanea la domanda: per quanto tempo rimarranno ancora in vigore queste misure?

N. spiega che potrà usufruire degli aiuti di stato per coprire le spese di alloggio e di prestazioni sociali per altri sei mesi, dicendosi però preoccupata per il futuro.

“Cosa sarà di noi quando lo stato smetterà di pagare il nostro appartamento e quando non potremo più usufruire dei servizi del welfare?”, si chiede N.

Una volta ritornate in Kosovo, le famiglie rimpatriate da Siria e Iraq sono automaticamente eleggibili per l’assegno sociale (che oscilla tra i 50 e i 150 euro), ma rischiano di rimanere anche senza questo modesto aiuto economico appena iniziano a reintegrarsi nella società.

Tuttavia, per N. la sfida principale è riuscire a trovare “una sistemazione abitativa permanente”.

La mancanza di programmi istituzionali di lungo termine

Dal 2019, nell’ambito degli interventi di rimpatrio organizzati, dalla Siria e dall’Iraq sono ritornati in Kosovo 121 cittadini, di cui 10 uomini, 33 donne e 78 bambini. Altri 123 cittadini kosovari sono tornati in patria di propria iniziativa.

Interpellato in merito alla situazione lavorativa dei rimpatriati, il ministero del Lavoro kosovaro ha affermato che finora nessuna persona rimpatriata ha trovato un impiego nel settore pubblico, alcuni lavorano nel settore privato e pochissimi sono riusciti ad avviare un’attività in proprio.

I giornalisti di BIRN hanno individuato diverse lacune nei programmi istituzionali di lungo termine che si prefiggono di garantire un lavoro alle persone rimpatriate.

I ritornanti possono essere registrati come persone in cerca di lavoro presso l’Agenzia kosovara per l’impiego, ma non possono usufruire di sostegni e corsi di formazione speciali offerti dall’agenzia.

Secondo Shpat Balaj, la comunicazione tra i centri per l’impiego locali e il ministero del Lavoro sulla questione dei rimpatriati è “del tutto inesistente”.

Interpellata dai giornalisti di BIRN, l’Agenzia per l’impiego ha affermato di non disporre di dati certi sul numero dei cittadini kosovari rimpatriati attualmente impiegati nel settore pubblico e in quello privato. L’Agenzia non ha invece ritenuto opportuno rispondere alla domande in merito ai corsi di formazione e al sostegno al lavoro teoricamente fruibili dai cittadini kosovari rimpatriati dalla Siria e dall’Iraq.

Pregiudizi come ostacolo all’inserimento dei rimpatriati nel mercato del lavoro

Oltre alla mancanza di prospettive occupazionali, i rimpatriati sono costretti a fare i conti con diversi pregiudizi.

Shpat Balaj cita il caso di un datore di lavoro che voleva licenziare una persona rimpatriata “dopo aver saputo del suo passato”. “Ci è voluto l’intervento della polizia per garantire che le regole venissero rispettate”, spiega Balaj.

Secondo il ministero dell’Interno, le persone rimpatriate hanno difficoltà nel trovare lavoro nel settore pubblico perché spesso non sono in grado di dimostrare di non avere precedenti penali o perché scelgono di vestirsi in modo non conforme alle regole dell’abbigliamento per i dipendenti pubblici.

Per quanto riguarda invece l’assunzione nel settore privato, il ministero ha precisato di aver “avviato una trattativa con due aziende private per l’assunzione di dodici donne che hanno completato un corso di formazione professionale e quindi possono contribuire al mercato del lavoro”.

Le istituzioni kosovare sembrano però aver focalizzato i propri sforzi sulle azioni volte a incoraggiare il lavoro autonomo, prestando particolare attenzione alle famiglie che vivono nelle aree rurali. Ad oggi il ministero dell’Interno ha autorizzato la concessione di contributi a 58 persone rimpatriate, perlopiù sotto forma di sostegno all’avvio di piccole imprese.

Carenza di personale, servono corsi di formazione

La strategia del governo kosovaro per la prevenzione dell’estremismo violento e della radicalizzazione prevede l’istituzione di tre meccanismi per favorire il reinserimento sociale delle persone rimpatriate: consulenza psicologica e religiosa per i detenuti condannati per reati legati all’estremismo, sostegno sociale per le famiglie dei detenuti, e programmi per favorire l’occupazione e altri metodi di reinserimento sociale degli individui de-radicalizzati.

Tuttavia, in molti criticano le autorità kosovare per il continuo indugiare sull’implementazione della strategia per la prevenzione dell’estremismo.

Il ruolo centrale nell’attuazione della strategia è affidato a due organismi istituiti in seno al ministero della Giustizia: il Servizio correttivo del Kosovo (SKS) e il Servizio di libertà vigilata (ShSK).

Stando ad un rapporto pubblicato nel dicembre 2021 dal Centro per gli studi sulla sicurezza (KCSS), il Servizio kosovaro di libertà vigilata non dispone di uno staff qualificato né di risorse sufficienti per il reinserimento delle persone rimpatriate.

“Il Servizio di libertà vigilata non dispone di personale sufficiente per poter svolgere il proprio lavoro secondo il mandato conferitogli dalla legge. Questo limita la possibilità per le persone condannate per terrorismo di ottenere un’assistenza professionale [dal Servizio di libertà vigilata]”, si legge nel report del KCSS. Gli autori dello studio spiegano inoltre che, nonostante le promesse del governo di Pristina, l’aumento del carico di lavoro del Servizio di libertà vigilata, registrato negli ultimi anni, non è stato accompagnato da un aumento del personale.

Il Servizio di libertà vigilata non ha voluto commentare la vicenda.

Per quanto riguarda invece il Servizio correttivo del Kosovo, è stata istituita un’unità speciale con personale qualificato, in grado di fornire assistenza alle persone rimpatriate che stanno scontando una pena detentiva. Il Servizio correttivo ha avviato un apposito corso di formazione che l’anno scorso ha visto coinvolti 48 dipendenti e quest’anno 41.

I programmi elaborati dal Servizio correttivo prevedono varie attività, tra cui la riabilitazione psicologica dei detenuti, la gestione della rabbia, lo sviluppo delle capacità cognitive, la possibilità per i detenuti di frequentare una scuola secondaria o un corso di formazione professionale in diversi ambiti, come falegnameria, idraulica e grafica.

Rafforzare il ruolo della comunità

Per Shpat Balaj, il principale problema risiede nella tendenza delle autorità kosovare a percepire la questione dei rimpatriati come una questione di sicurezza, anziché focalizzarsi sulla riabilitazione e il reinserimento sociale delle persone rimpatriate.

Anche la strategia approvata dal governo kosovaro – come spiega Balaj – prevede pochi interventi in materia di reinserimento ed è perlopiù focalizzata sulla prevenzione e il contrasto dell’estremismo.

Balaj sostiene che bisognerebbe coinvolgere maggiormente gli enti e la comunità locale, e cita il caso del comune di Ferizaj/Uroševac dove c’è solo uno psicologo. Anche i dipendenti dei centri di assistenza sociale territoriale non dispongono di competenze adeguate per affrontare la questione dei rimpatriati e spesso sono totalmente ignari del fatto che molte persone che cercano aiuto siano in realtà state rimpatriate da zone di conflitto.

Eppure, proprio gli enti locali, in particolare i Comitati municipali per la sicurezza della comunità, dovrebbero essere i primi a dare una mano alle persone rimpatriate.

“La soluzione è nella comunità“, conclude Balaj.


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