Un uomo beve un thè durante la costruzione di una diga, immagine tratta da “Water Has No Borders” di Maradia Tsaava

Un'immagine tratta da “Water Has No Borders” di Maradia Tsaava

E' in corso la settantesima edizione del Trento Film Festival. Il nostro critico cinematografico, ieri, ha visto il georgiano "Water Has No Borders" di Maradia Tsaava

03/05/2022 -  Nicola Falcinella

La diga sull’Inguri (o Enguri) è la più grande della Georgia e una delle più alte al mondo. La particolarità è che la costruzione in calcestruzzo e il bacino si trovano sul territorio della Repubblica ex sovietica, la centrale elettrica che ne sfrutta le acque è 15 chilometri a valle in Abkhazia, che si è dichiarata indipendente dopo la guerra del 1992/93. Ne parla il bel documentariogeorgiano “Water Has No Borders” di Maradia Tsaava, presentato nella sezione Terre Alte del 70° Trento Film Festival e in replica stasera alle 21 al Cinema Modena (trailer ).

Un film che, in attesa delle premiazioni ufficiali di sabato (programma e informazioni www.trentofestival.it ) si è già aggiudicato il "Premio per i diritti umani", consegnato ieri dalla presidente della giuria, Katia Malatesta del Forum pace e diritti umani. La regista caucasica, al primo lungometraggio, parte da un incidente, il guasto all’auto capitato mentre era alla diga per un breve servizio filmato. L’occasione diventa lo spunto per incontrare gli uomini e le donne che, più o meno direttamente, lavorano sull’impianto e cominciare a conoscere una realtà che pare assurda.

Per l’autrice, classe 1990, la porzione separatista era un luogo come le fiabe, “impossibile” da raggiungere. Il bacino idroelettrico è però sopravvissuto alla dissoluzione del’Urss e rappresenta uno dei rari casi di cooperazione tra le due entità, anche perché nessuna delle due parti potrebbe fare da sola. Piano piano Tsaava porta in rilievo una realtà nascosta, di un confine quasi impenetrabile, eppure attraversato quotidianamente da alcuni lavoratori. Il primo tentativo della regista di superare i check-point fallisce e così il secondo: non le resta che presentare documenti e richieste a fantomatiche autorità nella speranza di un permesso per entrare in uno stato autoproclamato, protetto dalla Russia. Nell’attesa di una risposta, la documentarista raccoglie storie di una guerra che nessuno si aspettava, di famiglie ancora oggi divise e persino un racconto macabro. E mentre si avvicina al ponte sul fiume che fa da confine e unione, si sentono distintamente spari nei dintorni. Il film rende l’impressionante costruzione dentro la gola dell’Inguri e soprattutto l’assurdità di una situazione che rasenta l’incredibile. Viene naturale pensare, in scala più grande, a quanto sta accadendo in Ucraina e alle tragiche contraddizioni dell’ex Unione sovietica. E, come suggerisce il titolo, solo l'acqua supera liberamente il confine.

“Water Has No Borders” è l’unico film di area caucasica o balcanica selezionato tra i circa 150 titoli del festival. In concorso per le tradizionali Genziane ci sono 16 lungometraggi e 11 cortometraggi. Tra questi, oltre all’italiano “Caveman – Il gigante nascosto” di Tommaso Landucci su uno scultore che ha concepito una statua gigantesca dentro un abisso, spiccano tre opere. Su tutte “Fire of Love” di Sara Dosa, che andrà prossimamente su DisneyPlus, esaltante melodramma (o triangolo amoroso come lo definisce la regista) che vede protagonista la coppia di vulcanologi francesi Katia e Maurice Krafft e i vulcani che negli anni hanno osservato, anche da troppo vicino, e studiato. Una storia d’amore e di unione davvero unica, con i due geologi accomunati dalla passione per i vulcani (all’inizio Etna e Stromboli) tanto da diventare inseparabili e morire nel 1991 travolti dall’eruzione del giapponese Unzen a un passo una dall’altro. Un film tutto con materiali d’archivio, con fotografie e riprese dei protagonisti e dei loro amici e colleghi, spettacolare e coinvolgente.

Toccante ed emozionante è anche “The Last Mountain” di Chris Terrill sui tragici destini dell’alpinista Tom Ballard (morto sul Nanga Parbat nel 2019 con Daniele Nardi) e della madre Alison Hargreaves, perita scendendo dal K2 nel 1995. Due talenti, due grandi passioni e una sorte simile, raccontati dalla sorella e figlia Kate dai campi base delle due vette himalayane.

Sono impressionanti anche le immagini del danese “Into the Ice” di Lars Ostenfeld, che racconta i cambiamenti climatici e lo scioglimento dell’Artico andando sui ghiacciai in Groenlandia per fare misurazioni e calandosi negli spaventosi “moulin”, i buchi dove precipitano i fiumi superficiali che si creano per lo scioglimento dei ghiacci.

Altro pezzo forte del 70° Trento Film Festival l’omaggio a Mario Fantin, l’operatore della mitica ascensione italiana al K2 del 1954 (le sue immagini divennero “Italia K2” di Marcello Baldi che ora è stato restaurato) e di tante altre spedizioni alpinistiche in tutto il mondo. Il Festival ne propone alcuni lavori e anche, in anteprima, il documentario biografico “Il mondo in camera” di Mauro Bartoli che ne ripercorre (in modo simile a “Fire of Love”) una vita dedicata alla passione di riprendere le montagne che non gli diede le soddisfazioni che si sarebbe aspettato.


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