La tabella di via Diomede a San Nicola, foto di Fabio Fiori

Via Diomede a San Nicola, foto di Fabio Fiori

E' con "Le rondini", canzone di Lucio Dalla, spesso ospite sull'isola di San Nicola, che continua la nostra esplorazione delle Tremiti

18/10/2021 -  Fabio Fiori

(Vai alla prima e alla seconda puntata di questo viaggio alle isole Tremiti)

“Vorrei entrare dentro i fili di una radio / E volare sopra i tetti delle città / Incontrare le espressioni dialettali / Mescolarmi con l'odore dei caffè”. Con gli occhi chiusi ascolto questi versi, all'ombra dei pini del giardino di Via Diomede, sull'isola di San Nicola. Provo a riposare la vista dalla luce del Maestrale e l'udito dallo stridio dei gabbiani, che mi hanno tramortito poco fa sul Bastione del Cannone. Sono le riposanti, profumate chiome dei pini e le dolci, oniriche note de “Le rondini” di Lucio Dalla, che qui era di casa, a restituirmi la pace necessaria a visitare Tremiti, come chiamano gli isolani il paese, poi l'abbazia e San Nicola, cioè la parte nord dell'isola, usando sempre la toponomastica di chi abita qui. Una piccola isola tripartita da secoli, un trittico che è un'ascesi: dall'umano al divino, dall'urbano al selvaggio.

Chiesa di Santa Maria al Mare, San Nicola - foto di Fabio Fiori

Pochissimi isolani silenziosi, questa mattina, vanno con passo spedito. Chi con una busta della spesa, probabilmente fatta a San Domino perché qui non c'è neanche un alimentari aperto; chi con pennelli e barattoli, probabilmente per verniciare una lancia giù al porto.

Di fronte a me, dall'altra parte della strada, il primo blocco di cameroni borbonici costruiti nell'Ottocento. E' un unico caseggiato, rettangolare, allungato, a due piani. Da una porta esce un uomo, barba e capelli lunghi brizzolati, pelle scura. Gli vado incontro per chiedere informazioni sull'edificio. Nicola, così si chiama il mio Virgilio tremitese, mi racconta con passione la storia di questi suoi cameroni, avuti in eredità dai nonni. Da qualche anno è tornato a vivere qui, dopo un lungo esilio a Roma. Di San Nicola e delle altre isole conosce la storia antica e quella recente, così come vizi e virtù degli isolani. Mi parlerà anche della triste vicenda dei femminielli confinati a San Domino durante il ventennio fascista. Una storia poco conosciuta, drammatica e commovente, raccontata con grande precisione e trasporto da Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio nel libro “La città e l'isola. Omosessuali al confino nell'Italia fascista”. Nicola li ha aiutati nelle ricerche d'archivio e in quelle svolte qualche anno fa intervistando i protagonisti sopravvissuti, principalmente catanesi. Perché la maggior parte dei prefetti disattesero le direttive mussoliniane, a differenza di quello di Catania che ne fece arrestare e mandare al confino una quarantina. “Qualcuno ci ha detto che è vero che stavano lontani da casa, dai loro affetti famigliari … ma qui potevano essere liberi di vivere la loro vita”.

Riprendo il cammino in direzione dell'abbazia. Mi fermo però dopo cento metri a prendere un caffè al Bar Nazionale, sulla sinistra. All'interno qualche vecchia foto di Lucio Dalla mi dà l'occasione per chiedere informazioni al barista. Poche parole, ma sufficienti a evocare atmosfere fiabesche. Quelle di un ragazzo bolognese, che per la prima volta venne alle Tremiti da bambino con la mamma, e se ne innamorò. Una decina d'anni dopo incominciò a frequentarle da solo, con qualche amico, e proprio qui veniva per telefonare alla madre, attraversando a nuoto il canale che separa San Domino, dove risiedeva, da San Nicola. Fuori dal bar il maestrale scuote i pini torti e arcigni che ombreggiano un polveroso slargo con al centro il monumento ai confinati. Dopo meno di cento metri sono al ponticello di legno che attraversa il fossato meridionale dell'abbazia, su cui troneggia il Torrione Angioino, costruito alla fine del Duecento. Dall'alto si gode di una vista spettacolare, che spazia su quasi tutto l'orizzonte: a sudest il profilo imponente del Gargano, a sud San Domino con dietro la costa molisana, a nordovest Caprara.

L'ingresso nella fortezza-abbazia è stretto e buio, sovrastato dal bassorilievo in pietra, simbolo dei benedettini: una grande croce su tre isole stilizzate. All'uscita della loggia, la luce, riflessa dalla facciata della Chiesa di Santa Maria al Mare, è accecante. Sarà solo la prima di una serie di esperienze di buio e di luce, che acuiscono ancor di più il senso di straniamento vissuto nell'esplorazione di questa grandiosa rovina. Una rovina che si trova in un incredibile stato d'abbandono, che lascia ancor più dispiaciuti e arrabbiati vedendo recenti lavori di restauro incompiuti, se non già ritravolti dall'incuria. Ma l'altrettanto incredibile possibilità di muoversi liberamente, a ogni ora del giorno e della notte, regala all'esplorazione piaceri fanciulleschi, scoperte entusiasmanti.

Grida vendetta la rampa di cemento costruita sulla monumentale scalinata di accesso al piazzale antistante la chiesa. Trentacinque gradini, larghi cinque metri, alti solo undici centimetri per permettere la salita anche agli asini, per secoli fedeli servitori degli isolani. Mentre fotografo l'anno dell'ultimo restauro, 1792, scolpito sull'ultimo gradino, passa un'ape 50, stracarica di attrezzi agricoli. Un demone giallo, rugginoso, rombante e puzzolente, che mi cambia d'umore, mettendomi una rustica, spensierata allegria.

Così non vado subito in chiesa, ma sul grande belvedere che guarda a meridione. E' una terrazza spoglia e magnifica che invita alla sosta. Mi siedo a terra, ridossato al muro perimetrale. Protetto dal Maestrale, intiepidito dal sole, mangio qualche mandorla, inseguendo con lo sguardo le rondini che rigano l'azzurro. Mi rimetto le cuffie e riprendo l'ascolto, interrotto qualche ora fa. “Sogni / Tu sogni / Nel mare / Dei sogni / Vorrei girare il cielo come le rondini / E ogni tanto fermarmi qua e là”.


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