Venderigole a Trieste, foto d'epoca

Venderigole a Trieste, foto d'epoca

Le venditrici ambulanti e il centro storico di Trieste. Una storia oltre i confini ora raccontata dall'associazione culturale Joseph

04/10/2017 -  Valentina Vivona

Ogni mattina all’alba Rosalia partiva in bicicletta da Maresego, un piccolo paesino sopra Capodistria, per raggiungere Trieste e lavorare nelle case di alcune famiglie benestanti come lavandaia. Negli anni Cinquanta non era la sola a varcare quotidianamente il confine che separava la zona A dalla zona B del Territorio Libero, protettorato internazionale imposto dalle forze alleate dopo la Seconda guerra mondiale: pancogole, mlekarice, mussolere, venderigole percorrevano decine di chilometri per vendere pane, latte, molluschi ed ortaggi nel mercato diffuso che ha caratterizzato le piazze e le strade di Trieste per quasi tre secoli.

La toponomastica locale conserva le tracce del passato, svelando che venditori di sardele e mussolere si rifornivano tra via del Pesce e via della Pescheria in prossimità dei magazzini del ghiaccio (ghiaccerette) sebbene la freschezza non fosse in fondo un requisito fondamentale (“cos te compri el pese de matina ke xe più caro, se la sera te paghi meno e el xe anke za cusinà”, tradotto “perché comprare il pesce la mattina quando è più caro, mentre la sera costa meno ed è anche già cotto?”).

In via delle Beccherie si trovavano le carni dei macellai residenti nell’allora malfamata Cavana, dove spesso il sangue dei maiali scorreva nei vicoli. In via Androna e via del Pane si concentravano le pancogole, ognuna con il proprio spazio assegnato ed intoccabile, competitive ma in grado di unirsi per scioperare già nel 1710 se la qualità del frumento venduto dal fontico comunale non le soddisfaceva. Il patriarcato con difficoltà poteva attecchire in unità familiari composte da uomini di mare assenti e donne responsabili di far quadrare i conti a casa. Le moine dei nobili o dei soldati erano oggetto di scherno tra le venderigole, consegnate a un motivo popolare che porta il loro nome ("La venderigola ") di cui forse i venditori che oggi montano le bancarelle a Ponterosso ignorano le parole.

“Le vedevo d’inverno tutto il giorno a Ponterosso, il punto di Trieste dove la bora colpisce più forte. Per questo ho iniziato a fotografarle”, racconta Ugo Borsatti, 90 anni di cui 65 passati con la fotocamera in mano. “Quando hanno costruito il mercato coperto, un po’ della magia è andata perduta”, confida. Borsatti si riferisce alla costruzione fascista eretta nel 1936, dono lasciato in eredità dalla benestante Sara Davis alle venderigole proprio per proteggerle dal freddo. Il razionalismo architettonico del mercato ortofrutticolo non stuzzicò la fantasia critica dei triestini che, tre decenni prima, avevano invece prontamente ribattezzato ‘Santa Maria del guato (un tipo di pesce poco pregiato, Ndr)’ l’imponente pescheria voluta dagli Asburgo nel loro porto mediterraneo. Ugo ricorda anche questa struttura: “Al suo interno i rubinetti erano ruggine perché gli sloveni lavavano il pescato con l’acqua di mare. Cercavo di arrivare sempre di prima mattina per non perdermi quella che si chiamava asta muta: i pescivendoli sussurravano all'orecchio dei pescatori le proprie offerte, senza fare rumore”. I banchi di marmo della cattedrale del pesce hanno perso la loro funzione solo nel 2006, ormai soppiantati dai congelatori del supermercato. L’intera città mercato si è lentamente arresa alla grande distribuzione, dopo aver resistito ai colpi inferti da ogni cambio di epoca, costumi o regime.

Un pomeriggio del marzo 1952 scoppiarono violenti disordini a Trieste per reclamare il ritorno del capoluogo giuliano all’Italia. La frontiera tra Zona A e Zona B venne chiusa e Rosalia dovette aspettare l’autunno per rientrare a casa, nell’odierna Slovenia. È la nipote Cristina, giornalista e collaboratrice del quotidiano Il Piccolo , a fare da eco tra i vicoli triestini ai propri aneddoti familiari, a detti e storie degli antichi mercati come accompagnatrice dell’associazione culturale Joseph, nata sul confine italo-sloveno per diffondere cultura e identità del Carso. "Vogliamo che gli accompagnatori siano persone che vivono il territorio", spiega il suo presidente Enrico Maria Milič. Le attività dell’associazione variano dall’orticoltura alla riscoperta dei sentieri che portavano pescatori e mlekarice dalla costa all’entroterra, e viceversa. "La bellezza del nostro patrimonio deriva dall’incrocio tra Centro-Europa, Balcani e Mediterraneo che si riflette nella natura, nella gastronomia e nella cultura", afferma Enrico. E le venderigole sono parte essenziale del capitale locale.


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