La foce dell'Ospo - foto di Fabio Fiori

La foce dell'Ospo - foto di Fabio Fiori

Sulle rive di Trieste in un pomeriggio di settembre, Fabio Fiori pedala in direzione Salvore e ricorda: la sua infanzia e l'amore per la bicicletta, citando uno dei primi cantori della bici Olindo Guerrini. Lungo la ciclabile si manifesta la campagna settembrina, pregna di odori e di colori

28/04/2023 -  Fabio Fiori
Lungo la Parenzana - foto di Fabio Fiori

Lungo la Parenzana - foto di Fabio Fiori

La mia relazione con la bici incomincia da bambino e, nei racconti di mia mamma, è subito incendiaria. Non in senso figurato ma concretamente e pericolosamente. Perché dice che avevo 3 anni e con la bici con le rotelle laterali, provai ad attraversare le ceneri della fogheraccia di San Giuseppe, una antica festa augurale di primavera che, nella bassa Romagna, si celebra la notte del 18 marzo. Le rotelle s’incastrarono, forse tra un ramo incombusto o uno sprangone arrugginito, e le ceneri nascondevano ancora le braci. Io scesi e scappai, mentre le fiamme si ravvivarono e attaccarono le gomme! Alle mie grida disperate rispose il nonno, che non un forcone salvò la bici e con un tozzone punì il colpevole. L’incidente non interruppe la relazione con i pedali che continuò negli anni per piacere e necessità, quelle dello studente e del lavoratore. Ma la relazione divenne peccaminosa, riprendendo l’aggettivo usato dal mio conterraneo Olindo Guerrini, un pioniere del racconto ciclistico, solo quando avevo una quarantina d’anni. Succede che ci si innamori anche da adulti, sempre con gran trasporto e felice imprudenza. Questo fervore tardivo per la bici mi ha fatto spesso tradire anche la vela, il mio primo amore odeporico. Perciò negli ultimi quindici anni ho trascorso più tempo in sella che in barca, ho percorso più chilometri che miglia. Un amore nuovo, ma immutata rimane la passione per un viaggiare minimalista, per un corpo a corpo con la terra e l’acqua, per rotte, strade e sentieri meno battuti, magari anche vicini ma possibilmente fuori stagione.

Eccomi quindi in bicicletta, in un pomeriggio di settembre, sulle rive di Trieste. L’Adriatico a destra mi ricorda amori velici giovanili, la città a sinistra racconta la sua storia di trivio culturale, incrocio di tradizioni mitteleuropee, italiche e slave, contaminate e rinnovate da colori, rumori e odori turchi, africani e asiatici. Quando possibile, preferisco pedalare senza seguire una traccia GPS. Mi piace guardarmi intorno, fidarmi dei cartelli stradali, qualche volta chiedendo informazioni, anche se è sempre pericoloso. "Cosa chiedi! Non lo vedi… quello non è mai sceso dall’auto!", mi dice sempre Davide, il mio ciclo-guru. Ma oggi non è con me e quindi posso permettermi anche qualche eccezione alle sue regole di fede cartografica. Da qualche anno ha un nuovo dio, OruxMaps, a cui è ciecamente devoto, che spesso loda e qualche volta bestemmia.

Raggiungo la ex-stazione di Campo Marzio, chiusa dagli anni Sessanta del Novecento, per mettermi idealmente sulla strada ferrata Parenzana. 120 km a scartamento ridotto, inaugurata dagli austriaci nel 1902 e chiusa solo trent’anni dopo dagli italiani. Una vita breve, accidentata come il percorso geografico e quello storico di queste terre. Un collegamento comunque importante per rinsaldare i legami tra la città e l’Istria, a prescindere dalle vicende nazionali. Un collegamento ritrovato a partire dal 2002 con il progetto transfrontaliero e la successiva riapertura della omonima via ciclopedonale che incomincia a Muggia e termina, tra non poche interruzioni e deviazioni, a Parenzo in Croazia, passando per Capodistria e altri paesi sloveni. Per il ciclista vagabondo, non gps-izzato, non è semplice raggiungere la foce del rio Ospo, due chilometri a est di Muggia, da cui parte il percorso. Perché bisogna attraversare i quartieri popolari e le aree artigianali che stanno alle spalle del porto industriale di Trieste, un dedalo di strade, incroci, rotatorie e cavalcavia, molto trafficati e non molto accoglienti all’improvvido pedalatore.

Quando invece, dopo località Farnei, imbocco finalmente il percorso esclusivamente ciclabile colori, odori e sapori deflagrano in un antico silenzio istriano. Sono i colori e gli odori della campagna settembrina, sono le dolcezze dei fichi che mi fermo avidamente a mangiare subito dopo al non-confine italo-sloveno. Sarà la prima delle mie saporite merende campestri che punteggeranno questa spensierata pedalata istriana. Merende vagabonde e selvatiche, qualcuna devo confessarlo anche furtiva, di fichi, melograni, uve profumate e dolcissime. Questo tratto di Parenzana permette di tagliare i promontorio di Punta Sottile e Punta Grossa, salendo le colline slovene, per poi scendere nella piana di Capodistria. Quello che per secoli è stato il più importante avamposto settentrionale di Venezia è oggi la città marittima più importante della Slovenia. Luka Koper è diventato uno dei maggiori porti adriatici, occupando ampi spazi bonificati. Alte pareti verticali di container, grandi serbatoi petroliferi e parcheggi d’auto rilucenti, sono le immagini del nuovo paesaggio portuale, dei nuovi flussi commerciali. Pedalo sulla strada secondaria che corre parallela all’autostrada l’ormai piccolo, ma importante Stagnone che è riserva naturale. Davanti a me estesissimi vigneti, dove campeggia la scritta Vinakoper, un gigante del settore che ha ereditato una storia cooperativa iniziata nella Jugoslavia del 1947.

Lascio il percorso della Parenzana per seguire la E751 che sale fino a quasi 300 metri, per poi scendere nella valle della Dragogna, il confine, ancora confine tra Slovenia e Croazia. Non percorrerò lo spettacolare tratto costiero che attraversa Isola e Pirano, pedalato anni fa, nelle settimane precedenti, l’inimmaginabile pandemia e raccontato sempre per OBCT. Stasera voglio dormire in uno dei campeggi di Punta Salvore, dopo aver visto il sole tramontare e la luce antica del faro riaccendersi insieme alle stelle.

 

PS

Olindo Guerrini è uno dei primi cantori della bicicletta o ferreo corsier, come la ribattezzò. Intellettuale e scrittore prolifico, poliedrico, polimorfico. Nato a Forlì nel 1845, cresciuto a Sant’Alberto di Ravenna, laureato e bibliotecario a Bologna, divenne anche capoconsole per il Touring Club Ciclistico Italiano, fondato nel 1894. Racconta lui stesso che nello stesso anno divenne ciclista per seguire il figlio sedicenne che era reo confesso di “peccaminose relazioni … [con] la macchina seduttrice”. Quelle di Guerrini, a nome suo o con altri pseudonimi tra cui quello di Argia Sbolenfi focosa ciclista, sono vere e proprie cronache di viaggi, brevi o lunghi, di un’arte ciclistica che esprime piacere “direi quasi voluttà, della vita libera, piena, goduta all’aperto, nelle promesse dell’alba, nel trionfo dei meriggi, nella pace dei tramonti, correndo allegri, faticando concordi, sani, contenti”, spensierati ed ecologici, libertari ed economici, aggiungo io. Molti dei suoi scritti ciclistici sono stati ripubblicati da Tarka, In bicicletta di Olindo Guerrini, alias Lorenzo Stecchetti.


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