Un viaggio attraverso l'Ucraina, da Donetsk, alla frontiera con la Russia, a Leopoli, non lontano dal confine con la Polonia. Due città, due anime di un paese quando mai lacerato. Un reportage, la prima di quattro puntate
Quando l’aereo buca lo spesso strato di nubi che chiude come un coperchio il cielo sopra Donetsk, la prima immagine che appare dal finestrino è una grossa voragine nera nel terreno. Poi una distesa di grigi kruščëvky, i prefabbricati a tre piani delle periferie sovietiche che sembravano già vecchi appena finiti. Poi l’aeroporto, nuovo di zecca, costruito per gli europei di calcio, luccicante e vuoto.
Le miniere che fanno la ricchezza del Donbass, la regione più orientale dell’Ucraina, arrivano alle porte della città. Il carbone cavato dal sottosuolo fa ammalare la gente e crescere i grattacieli nel centro, dà lavoro e morte: l’ultimo incidente nel 2007 ha ucciso cento minatori, ma è solo l’ultimo della lista. Il bilancio è comunque a favore delle miniere, perché i soldi sono davvero tanti.
“Sai quante tasse versa la città allo stato? Cinque volte di più di quello che riceve”. Oleg è un ragazzo alto e smunto, con due occhi scavati e i modi calmi. Studia alla facoltà mineraria dell’Università nazionale tecnica di Donetsk, la stessa dove studiò Kruščëv. “Esattamente il rapporto inverso di Leopoli, che versa un quinto di quello che riceve. Sono miliardi di grivnia (1 EUR = 17,409 UAH, ndr). Praticamente questo paese lo manteniamo noi”.
Donetsk da una parte, Leopoli dall’altra. Le due città sembrano i due poli di un’Ucraina oggi più divisa che mai. Ora che la Crimea non fa più parte del Paese, ora che il tabù dell’intervento armato russo è caduto e la guerra civile è uno spauracchio che aleggia sulle sorti della nazione, queste due città così diverse tra loro incarnano le due anime ucraine in maniera ancora più netta che in passato.
Ecco che un lungo viaggio da Donetsk a Leopoli, due giorni di treno, da un estremo all’altro del paese, possono aiutare a comporre il puzzle ucraino. Un viaggio che inizia qui a Donetsk, a un tiro di schioppo dal confine con la Russia, dove tutti – ma proprio tutti – tanto russi quanto ucraini si esprimono nella lingua di Mosca, e finisce dall’altra parte del paese, all’ombra del barocco polacco di Leopoli, dove ucraina è la lingua, cattolica la religione e polacco, austroungarico e yiddish il passato.
Oleg viene in piazza Lenin ogni fine settimana. Insieme a lui alcune migliaia di cittadini di Donetsk si raccolgono sotto la grande statua di Vladimir Ilič per sventolare bandiere russe e chiedere un referendum sul modello di quello svoltosi in Crimea il 16 marzo scorso. Secondo lui è tutta una questione economica. “Per questo la soluzione migliore sarebbe l’autonomia da Kiev”. Gli chiedo se per autonomia intenda indipendenza, o perfino unione con la Russia. “Autonomia fiscale, soprattutto. Se dessimo ai governatori delle regioni di Donetsk, Kharkiv e Lugansk la possibilità di spendere qui i soldi delle nostre tasse, noi cittadini potremmo controllarli più facilmente, e se rubano, mandarli a casa. Invece così va a finire che si rubano tutto a Kiev e noi non ci possiamo fare niente”.
Donetsk, Kharkiv, Lugansk: praticamente tutta l’Ucraina orientale. Città di stampo stalinista, costruite a colpi di edilizia popolare per alloggiare i lavoratori del bacino minerario e dell’industria pesante. Prospettive larghe quattro corsie e lunghe chilometri, e piazze d’armi segnate dall’immancabile statua del padre della Rivoluzione d’ottobre. Tutt’oggi l’area più produttiva del Paese, ma anche quella più conservatrice e lontana dal filoeuropeismo che ha animato la rivoluzione di Euromaidan.
È sabato su piazza Lenin e un inaspettato vento gelido soffia neve di traverso. C’è poca gente. “La gente qui lavora, non possiamo mica permetterci di stare mesi nelle tende, tutti i giorni, come quelli a Kiev”. A dirmelo in coro è un gruppo di signore ossigenate che distribuiscono volantini vicino al palco. “Torna domani e vedrai”. Una di loro ha appeso sulla schiena un cartello in inglese: “Stop nazi government in Kiyv”.
Quello dei fascisti al governo è un argomento che sento ripetere più volte, anche da chi si avvicenda a parlare sul palco. “Guarda cos’hanno combinato a Kiev. Guarda cosa hanno fatto ai nostri berkut [la polizia speciale antisommossa in gran parte formata da agenti provenienti dal sud e dall’est]. Hanno sparato, lanciato molotov, ucciso e incendiato la città. E ora sono al potere e terrorizzano la gente. Non dobbiamo permettere che facciano lo stesso anche qua”.
Marija parla un buon inglese scolastico, una rarità a est del Dnipro, con una timidezza che stride con la baldanza del resto del gruppo. Mi chiede da dove vengo, glielo dico. Alla parola “Italia” tutte si aprono in un sorriso affettuoso, chi ha un parente che vive là, chi vorrebbe andarci. Poi tutte insieme mi fanno una raccomandazione accorata: “Quando torni in Italia, di’ la verità. Scrivilo, raccontalo che qui noi vogliamo solo vivere alla nostra maniera. Di’ la verità”.
Donetsk non è bella. È un grosso agglomerato di quasi un milione di abitanti, che fino al 1961 si chiamava Stalino. Il centro della città è una griglia ortogonale di larghi viali circondati da grossi edifici della metà del secolo scorso, perlopiù malmessi. E poi qua e là i grattacieli appena finiti o ancora in costruzione che vogliono essere la nuova faccia della città. E poi ancora il suo fiore all’occhiello, la Donbass Arena, il nuovissimo stadio dello Shakhtar, la blasonata squadra della città.
La domenica un freddo sole rende piazza Lenin decisamente meno lugubre. E c’è più gente. Diverse migliaia di persone. Attorno al palco riconosco però molte facce del giorno prima. Ci sono le signore ossigenate che distribuiscono volantini, gli stessi ragazzi che dispiegano una grande bandiera russa sulla gradinata alla base della statua e le stesse ragazze che stendono lo striscione “Janukovič è il nostro legittimo presidente”. Un uomo si avvicina, dice qualcosa contro Janukovič, che ha abbandonato il paese nel momento peggiore, ma viene cacciato a male parole da due ceffi. In generale però c’è un’aria più festosa di sabato.
Su un tavolino si raccolgono le firme per il referendum, ma non c’è alcun controllo, solo dei fogli bianchi su cui chiunque può scrivere un nome e scarabocchiare una firma. Potrei farlo pure io. Un ragazzo tiene un’asta con la bandiera della Donetskaja Respublika, un tricolore con l’aquila bicipite russa. È uno spilungone coi capelli lunghi e si chiama Kirill. “Non siamo nati mica adesso, la nostra organizzazione esiste già da quasi dieci anni. Non c’entriamo niente con quello che è successo a Kiev, noi l’autonomia della regione di Donetsk l’abbiamo sempre voluta”.
L’associazione Donetskaja Respublika fu messa al bando dal tribunale cittadino già nel 2007 con l’accusa di separatismo, ma i tempi sono cambiati.
All’una in punto una marcia russa dagli altoparlanti del palco annuncia la fine della manifestazione e la folla lentamente defluisce nei viali intorno, chi verso la fermata del filobus, chi verso il McDonald’s. Altri invece formano un corteo che va verso il palazzo della regione, pochi isolati più a nord.
(continua)
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