Brazza, Croazia - © paul prescott/Shutterstock

Brazza, Croazia - © paul prescott/Shutterstock

Il gioco delle identità, nelle sue mille impalpabili sfumature: è questo tema che unisce sottilmente i romanzi delle autrici croate Anna Baar ("Il colore della melagrana") e quello di Ivana Bodrožić ("Figli, figlie"). Una recensione

31/01/2024 -  Diego Zandel

Due scrittrici croate apparentemente lontane, già a cominciare dalla lingua. Parlo di Anna Baar, della quale la Voland pubblica il romanzo “Il colore della melagrana”, nella traduzione dal tedesco di Paola Del Zoppo, e di Ivana Bodrožić, in Italia ora con “Figli, figlie”, edito come già il precedente “Hotel Tito”, da Sellerio, entrambi tradotti dal croato da Estera Miočić.

Dunque, seppur entrambe croate, di origine almeno, la prima scrive in tedesco e la seconda nella lingua madre.

Anna Baar, a differenza di Ivana Bodrožić, appartiene alla schiera di quegli scrittori che, pur nati in Croazia, come Marica Bodrožić, Zoran Drvenkar, Nataša Dragnić e altri, hanno poi seguito i genitori nell'emigrazione trovando nel paese in cui sono arrivati - Austria per la Baar, Germania per Marica Bodrožić e per Drvenkar, Francia per la Dragnić - la loro lingua letteraria, i cui temi, però, non si distaccano dalla terra che hanno lasciato.

Il suo romanzo “Il colore della melagrana” è infatti ambientato soprattutto nell’isola di Brač (Brazza, in italiano) lungo le coste dalmate, al largo di Spalato, dove la scrittrice usava da bambina trascorrere le vacanze estive dalla nonna. Un rapporto molto stretto il loro, che potremmo definire conflittuale se non fosse al tempo stesso nutrito di tanto amore, così come emerge in questo romanzo che potremmo definire autobiografico.

Il sacro valore del racconto è la scrittura, che si dipana in pagine di poesia e di un intricato complesso di sentimenti magnificamente sublimati dalla parola, tanto da rendere questo romanzo una sorta di epifania (e i nostri complimenti, naturalmente, vanno alla traduttrice che ha saputo ben interpretare lo spirito dell’autrice). Si legge, infatti, incantati dalla pagina che eleva materiali che in un altro contesto si ridurrebbero a una sorta di album di ricordi.

Ma qui c’è di tutto, un tutto in cui si mescola la seconda guerra mondiale e la storia (ah, la nonna Nada tollera poco che la sua Anuschka, parli il tedesco, la lingua paterna, sì, ma anche dei nijemci, dei tedeschi, quelli che “quel giorno di febbraio 1944, in cui andarono a prendere il nonno perché aveva chiamato maiale il Führer (…) Lingua di assassini, sibila Nada, quando è sola con la bambina e concede alle sue labbra color cinabro di distorcersi dal tedesco, perché lei sa rendere la lingua del padre ridicola e dimostrare la sua antipatia urlando, in un tono di comando che dà a qualunque termine un senso di indecenza”). E le insegna il croato.

D’altra parte è lei, Anushka, la luce dei suoi occhi, la bambina che trova nella nonna la sua sicurezza. Giustamente, Paola Del Zoppo, la traduttrice, nella sua postfazione al romanzo sottolinea come il titolo dello stesso si rifaccia al mito di Persefone, con Ade, che per indurre la fanciulla a restare negli inferi, le fa assaggiare la melagrana… Nonna Ade cos’altro fa? E in questa tentazione c’è uno straordinario gioco di incrocio di lingue, con il croato, venato dallo spalatino influenzato dalla dominazione veneziana dei secoli precedenti, che fa spesso capolino nei dialoghi, tra canzoni, preghiere e, anche, parolacce.

Raffinati intarsi che Anna Baar, nel suo “Il colore della melagrana” ha saputo ritagliare e incidere, dando misura di un tema così importante come quello della identità.

Non distante, per qualità di prosa, quella di Ivana Bodrožić con “Figli, figlie”. Anche qui il discorso scivola sull’identità, con la scelta di un registro che privilegia la scrittura, lasciando in secondo piano, se non trascurando del tutto – come nel romanzo della Baar – la trama.

Qui abbiamo tre personaggi, quattro se vogliamo, che rispondono: il principale, al nome di Lucija, una ragazza che rimasta paralizzata in seguito a un incidente, si trova a dover fare i conti con la segregazione dentro il suo stesso corpo, tanto immobile (può battere al limite le palpebre degli occhi), mentre il corpo, ormai estraneo, è in balìa di sanitari distratti, presi ciascuno dalla propria vita; di Dora, la ragazza che ha amato ma, estranea al proprio corpo, vissuto come una prigione (un’altra prigione dopo quella di Lucija) si è trasformata con le cure di ormoni in Dorian, il maschio che sentiva di essere e che ha visto cambiare del tutto la sua vita “basta alzare la mano, richiamare l’attenzione perché si venga presi sul serio, pagati di più, perché non si venga derisi, sfruttati, non si diventi oggetto di battute”.

Terzo personaggio in cerca di una sua identità, continuamente negata per essere lei una donna in mano agli arbitri del marito, della suocera, della società, è la madre di Lucija. Tre personaggi che parlano in prima persona in tre parti distinte. Il quarto è il figlio Tomislav, fratello di Lucija, che compare nei monologhi interiori un po’ di tutte e tre, un ragazzo che crede di vincere ogni insicurezza dietro la maschera di un nazionalismo ridicolo “Una grande pancia a scacchi bianco-rossi, la bocca spalancata in un urlo da tifoso che buca i pixel, il maschio virile, prigioniero della sua stessa gabbia, talmente angusta da non esserne nemmeno consapevole”.

È davvero straordinario per lo meno il fatto che le due scrittrici, diverse per lingua e formazione, ma unite dalla comune origine a una terra uscita come nazione indipendente al termine di una guerra cruenta, riflettano su un tema così importante come l’identità, in questo caso depurata da ogni ipoteca nazionalista (significativo, in questo senso, il polo negativo rappresentato da Tomislav nel romanzo della Bodrožić). L’identità che perseguono è esclusivamente quella di esseri umani, che desiderano semplicemente uscire dalle prigioni per ritrovarsi liberi dai condizionamenti che ogni gabbia inevitabilmente impone.


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