Il voto amministrativo in Bosnia del 2 ottobre scorso ha portato a Srebrenica per la prima volta un sindaco serbo, sostenuto da una coalizione di partiti nazionalisti
Quando si parla di Srebrenica è comune che sia associata a teret, che in lingua locale significa “carico”, “peso”. Pesa il dolore per le vittime del genocidio, pesano le memorie divise e le pressioni politiche delle capitali distanti, pesano le schede e le urne elettorali. A Srebrenica, nel voto del 2 ottobre scorso, per la prima volta è stato eletto un sindaco serbo. Mladen Grujčić, 34enne insegnante di chimica a capo di una coalizione di partiti nazionalisti, ha ottenuto il 54,4% delle preferenze, contro il 45,4% del suo avversario e sindaco uscente, il 37enne Ćamil Duraković, sostenuto dai partiti bosgnacchi.
Il profilo di Grujčić è quantomeno ambiguo. È un giovane con poca esperienza politica, ma in città ricordano bene la sua vicinanza all’ultranazionalista Partito Radicale serbo di Vojislav Šešelj, da cui si dice abbia ricevuto sostegno attivo per la campagna elettorale. Da una parte, Grujčić ha garantito che il suo esecutivo sarà multietnico, che manterrà le celebrazioni legate all’11 luglio e che ne omaggerà le vittime. D’altra parte, minimizza i crimini, nega il riconoscimento del genocidio, dichiara di volere “creare una commissione con Russia e Cina” che determini “cosa è successo una volta per tutte”, incurante delle due sentenze di due tribunali internazionali e delle migliaia di perizie, testimonianze e documentazioni da essi raccolte, vagliate e messe a disposizione. È un atteggiamento in linea con gran parte della classe dirigente serbo-bosniaca, ma non per questo meno inadeguato, per chi si appresta a ricoprire un incarico con un valore simbolico e umano tanto alto. Associazioni delle vittime e semplici cittadini hanno reagito ai risultati con indignazione e preoccupazione. Alcuni evocano persino la possibilità di abbandonare la città, uno scenario che rimanderebbe a venti anni fa. Altri invitano alla calma, alla difesa di normalità e convivenza.
Il voto del 2 ottobre ha anche strascichi legali. Il sindaco uscente sconfitto Duraković non ha ancora riconosciuto il risultato, nonostante sia stato confermato ufficialmente dalla Commissione elettorale statale. Il 25 ottobre Duraković ha annunciato ricorso al Tribunale costituzionale (la Corte d’Appello ordinaria, però, lo ha già rigettato) denunciando diverse presunte manipolazioni, tra cui il mancato conteggio dei voti per posta giunti in ritardo. Per Duraković si tratterebbe di 2.000 schede, quando il distacco tra i due candidati è di 768 voti. Secondo gli analisti un ribaltamento della situazione è ormai improbabile. Ma Duraković non cede, incitando a una battaglia per lo stato di diritto, insieme a quella morale contro le posizioni negazioniste di Grujčić. È uno stallo che, ancora una volta, può mettere Srebrenica in una sospensione temporale, questa volta ostaggio di sentenze e carte bollate.
(Non) voto per Srebrenica
Sono due le cause principali del risultato elettorale. La prima è la graduale modifica del sistema speciale che ha regolato per anni le elezioni municipali a Srebrenica. In passato, si garantiva la partecipazione al voto a tutte le persone iscritte alle liste elettorali del 1991, anche se residenti in altre municipalità del paese o all’estero. Questa norma, concepita come riparazione per la pulizia etnica, consentì l’elezione di un sindaco bosgnacco in una città che dopo il 1995 era divenuta a maggioranza serba.
Nel 2012 quest’eccezione non fu rinnovata, scatenando la protesta di sopravvissuti e ambienti pro-bosniaci, che lanciarono la campagna “Voterò per Srebrenica” (Glasaću za Srebrenicu), convincendo più di 2.000 cittadini a prendere la residenza - anche solo temporaneamente - nella cittadina e sostenere il candidato pro-bosniaco Duraković, poi vittorioso.
In seguito, però, una nuova legge ha reso più restrittive le condizioni di residenza, e dunque di diritto al voto per profughi ed emigrati. La nuova situazione vedeva così un numero maggiore di elettori registrati serbi, circa 7.700, rispetto ai circa 6.000 bosgnacchi. “La maggior parte dei bosgnacchi vivono nella Federazione di Bosnia Erzegovina, dove hanno l’assistenza sanitaria e sociale. Se si registrano a Srebrenica (che è in Republika Srpska, ndr) per votare, perdono tutti i diritti”, spiega a OBC Transeuropa l’attivista Bekir Halilović.
La seconda causa è più esplicitamente politica. L’analista Srđan Puhalo spiega a OBC Transeuropa che per la prima volta i partiti serbi hanno presentato un candidato unico. Inoltre, sostiene Puhalo, l'afflusso di votanti residenti nella vicina Serbia è stato organizzato e coordinato meglio che in passato. Ai bosgnacchi, invece, è mancata una mobilitazione comune per il sindaco uscente Ćamil Duraković. Il voto di quattro anni fa aveva generato grandi aspettative per lui. Nato nel 1979, sopravvissuto al massacro del 1995 ed emigrato negli Stati Uniti, poi tornato in città nel 2007, sembrava avere il profilo ideale: giovane, indipendente dai partiti, visione di futuro, apertura al dialogo.
Tuttavia, una strategia debole sembra avere disorientato la sua stessa base. “Ha taciuto troppo sulle irregolarità che avvengono nell’amministrazione municipale”, ci spiega Halilović. Inoltre, Duraković sembra non aver gestito al meglio la crescente presenza negli affari di Srebrenica del premier della Serbia Aleksandar Vučić, con cui il rapporto è stato incostante e mai del tutto trasparente (vedi la famosa visita di Vučić nel 2015, conclusasi disastrosamente, e la successiva promessa di cinque milioni di euro alla municipalità).
La campagna “Voterò per Srebrenica”, decisiva nel 2012, si è dissolta per contrasti interni. Il suo carismatico ex-leader Emir Suljagić, anch’egli un sopravvissuto al massacro, se ne è sfilato apparentemente per screzi personali e rivalità tra partiti. Suljagić rimprovera a Duraković di essersi fatto manipolare da Vučić e di avere mal gestito la campagna elettorale, motivi per cui gli ha rivolto pesanti epiteti (“completo idiota”, “dilettante politico”) dal proprio profilo Facebook.
Un’occasione persa
La presenza di due candidati giovani, entrambi residenti in città e con il proprio bagaglio individuale di diverse sofferenze, l’uno sfuggito a un genocidio dopo sei giorni e sei notti di marcia tra i boschi, l’altro il cui padre è stato ucciso all’inizio della guerra, poteva essere un’occasione di dialogo e riconoscimento reciproco. Vista la piega irreversibile degli eventi, è un’occasione persa.
“Qui tutti, indipendentemente dalla nazionalità, sono stanchi delle elezioni, delle tensioni aizzate solo per prendere voti, ogni quattro anni. Ma a nessuno interessa come vive la gente qui. Tutto si calmerà di nuovo, Srebrenica sarà di nuovo dimenticata. Intanto, questi luoghi ogni giorno si svuotano sempre più”, dice a OBC Čedomir Glavaš, direttore del Centro giovani nella vicina Bratunac. Srebrenica continua ad attirare votanti mentre continua a perdere abitanti, in linea con la catastrofe demografica della regione. Secondo il censimento 2013 gli abitanti nella municipalità sono 13.409, poco più di un terzo rispetto al 1991 (36.666), con una disoccupazione del 34%.
In questo contesto, la ripresa economica deve essere accompagnata da un rispetto delle diverse memorie. E viceversa. Scrive Irfanka Pasagić che gli abitanti di Srebrenica “ormai camminano sulla stessa strada, vanno negli stessi negozi e sugli stessi autobus”; si devono incontrare, poi salutare; così inizia il dialogo. Poi devono prendersi cura di ciò che hanno in comune: strade, lavoro, scuole, lotta per la sopravvivenza. “Condannati gli uni agli altri, per quanto possa suonare male, hanno bisogno gli uni degli altri”. E anche il nuovo sindaco sarà condannato a farsi carico dell’amministrazione della città e delle sue conseguenze, come sostiene Srđan Puhalo. Non potrà sottrarsi all’obbligo di organizzare le commemorazioni, né a quello di risolvere i problemi quotidiani ed esistenziali di una città che, “intrappolata nel passato, non ha altra scelta che continuare a vivere”.
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