Jasna Đuričić  in una scena del film “Quo vadis, Aida?”

Jasna Đuričić  in una scena del film “Quo vadis, Aida?”

Un film da vedere e da consigliare, il più importante film bosniaco da parecchi anni a questa parte, e probabilmente il miglior lavoro realizzato dalla regista Jasmila Žbanić. Una recensione di "Quo vadis, Aida?", da ieri nelle sale italiane

01/10/2021 -  Nicola Falcinella

Da ieri è nelle sale italiane il film bosniaco “Quo vadis, Aida?” di Jasmila Žbanić, presentato in prima mondiale in concorso lo scorso anno alla 77° Mostra del cinema di Venezia e candidato all'Oscar per la Bosnia, dopo essere stato un successo di pubblico in patria.

Un film bello e importante con il quale la cineasta di Sarajevo, nota soprattutto per l'esordio “Grbavica – Il segreto di Esma” (2006), ha portato per la prima volta sullo schermo il massacro di Srebrenica nel luglio 1995, ispirandosi alla storia vera del traduttore Hasan Nuhanović.

Siamo nei giorni che preludono alla strage e Aida (Jasna Đuričić), che prima della guerra era un'insegnante nella città nell'est del Paese, lavora come interprete all'Onu e segue le trattative inconcludenti degli olandesi con il generale Mladić. La sede dei caschi blu, un grande capannone industriale, è stracolma di persone che vi hanno cercato rifugio, mentre molti altri residenti del circondario premono all'esterno per entrare. Tra questi ci sono anche il marito Nihad e due figli della donna, Sead e Hamdija di 19 e 17 anni, che la fanno stare in apprensione.

Srebrenica è stata dichiarata “zona sicura”, ma i serbo-bosniaci non sono intenzionati ad attenersi agli accordi, le forze internazionali in loco non sono in grado di farli rispettare e dalla sede di New York non arriva nessun sostegno.

Grazie al suo lavoro, Aida ha informazioni dirette che le fanno capire cosa sta per succedere e spera di poter usare la sua posizione per salvare i congiunti: la situazione precipita in fretta, la donna capisce che deve fare qualsiasi cosa per metterli al sicuro. Aida è animata dal desiderio di salvare la sua famiglia, ma si trova ad affrontare dubbi e scelte che mai avrebbe voluto porsi, compreso il sentire di abusare della sua posizione.

La protagonista riesce a inserire Nihad, che era preside della scuola locale, nella piccola delegazione di cittadini musulmani che va a incontrare un arrogante Mladić che cerca di irretire gli ospiti, fa promesse false e garantisce che tutti saranno portati a Kladanj. Intanto un altro ufficiale serbo-bosniaco, Joka, riesce con la prepotenza a entrare nel capannone per “verificare se ci sono armi”, seminando il panico tra le migliaia di persone ammucchiate là dentro. Una prova di forza e sadismo che anticipa quanto sta per avvenire, il momento fatidico nel quale gli uomini furono separati da donne, anziani e bambini per essere trasportati via e trucidati.

“Quo vadis, Aida?” è un dramma ben scritto e costruito, basato su una buona ricostruzione (è stato girato tra Stolac e Mostar, con solo un’immagine iniziale di Srebrenica) e diversi momenti molto forti, quasi insostenibili, non perché mostri la violenza ma perché fa capire quel che è successo.

Proprio lasciare fuori campo la violenza e le uccisioni, mostrando invece ampiamente il prima, è la scelta migliore della regista che in questo modo non lascia che il massacro scorra via e si esaurisca nella visione, ma lo lascia addosso allo spettatore tutto da elaborare e come un peso che non se ne va. Del resto l’ultima parte è dal dopoguerra, alle case occupate, alle rimozioni, ai corpi non ritrovati, alle difficoltà di ricominciare e alla normalità del male.

Žbanić compie un’operazione intelligente, utilizzando un linguaggio comprensibile a tutti per far riflettere e ribadire come sono andati i fatti, in maniera il più possibile oggettiva e riuscendo a far vedere le ombre di quell’eccidio che ancora restano sull’oggi.

“Quo vadis, Aida?”, che contiene tra gli altri un evidente riferimento a “Roma città aperta”, è un film rigoroso e senza fronzoli, lontano dai manicheismi e dagli schematismi, pur netto nel mostrare la protervia dei serbo bosniaci, rappresentati da Mladić (un bravo Boris Isaković in un ruolo non facile) e Joka (un Emir Hadžihafizbegović sempre magistrale nei panni di personaggi viscidi e prepotenti). Da notare che la bravissima protagonista Jasna Đuričić è serba e si era già messa in evidenza in “White White World” (2010) e “A Good Wife” (2016). Salta all’occhio anche che la pellicola è una coproduzione tra ben nove Paesi, Olanda compresa.

Un film da vedere e da consigliare, il più importante film bosniaco da parecchi anni, forse addirittura da “No Man's Land” (2001), e il miglior lavoro realizzato da Jasmila Žbanić.


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