Nella crisi aperta in Bosnia Erzegovina la comunità internazionale deve evitare la trappola dello scontro, riportando al centro del dibattito politico il percorso di integrazione europeo. In una Bosnia senza Alto Rappresentante. Nostro commento

06/05/2011 -  Andrea Oskari Rossini

Il 13 aprile il parlamento della Republika Srpska (RS) ha deciso di sottoporre a referendum l'operato dell'Alto Rappresentante, della Corte e della Procura di Stato. Il quesito referendario sottoposto ai residenti dell'entità bosniaca a maggioranza serba è: “Sostieni le leggi imposte dall'Alto Rappresentante e dalla comunità internazionale, in particolare quelle sulla Corte e sulla Procura di Stato della Bosnia Erzegovina, e la loro verifica incostituzionale nell’Assemblea parlamentare della BiH?”

La decisione è stata presa a larga maggioranza (66 voti a favore, 10 contrari), e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale della RS 14 giorni dopo, il 26 aprile. Il voto è previsto per la prima metà di giugno.

Il referendum proposto dalla RS rappresenta una brusca accelerazione nella crisi aperta in Bosnia Erzegovina. L'accelerazione è stata impressa da Milorad Dodik, presidente della RS, e dal suo partito (SNSD), ed è diretta in prima istanza contro le istituzioni giudiziarie comuni. In gioco c'è però molto di più. La ridefinizione del delicato equilibrio tra potere centrale e poteri delle entità, il ruolo della comunità internazionale nel Paese e, secondo alcuni, la stessa sopravvivenza della Bosnia Erzegovina come Stato sovrano.

Una parola sinistra

Milorad Dodik (from the SNSD website)

Milorad Dodik (from the SNSD website)

La parola referendum, in Bosnia, risuona sinistra alla luce della storia recente del Paese. Secondo Nenad Stojanović, ricercatore presso il Centro per la Democrazia di Aarau e docente all'Università di Losanna, “la democrazia diretta può portare vantaggi alla coesione sociale in Bosnia, i cui cittadini si allontanano sempre di più dalla politica. Ma purtroppo in Bosnia la democrazia diretta è sinonimo di referendum unilaterali. Referendum che non vengono dal basso, ma dall'alto, cioè da leader politici che indicono queste votazioni solo perché sanno in anticipo quale sarà il risultato. Questo vuol dire manipolare i cittadini e Dodik è un esempio emblematico di questo atteggiamento."

Sul banco, secondo gli osservatori più pessimisti, e nonostante le rassicurazioni fatte in tal senso sia da Dodik che dal presidente serbo Tadic a margine del recente incontro di Karadjordjevo, ci sarebbe la prova generale di qualcosa di più grande: il referendum – più volte evocato – sulla secessione della RS dalla Bosnia Erzegovina.

Diversi giuristi si sono confrontati sul significato che l'attuale referendum potrebbe avere. Molti concordano sul fatto che il voto non avrebbe valore legale, dato che si tratta di una questione di pertinenza dello Stato e non delle entità. La creazione della Corte è stata infatti ratificata dal Parlamento statale, con il sostegno – a suo tempo – dei rappresentanti serbi. Allo stesso tempo, però, molti sottolineano che il referendum potrebbe avere importanti conseguenze pratiche, specie se i giudici e i procuratori serbi lasciassero i loro posti nelle istituzioni comuni. La presidente della Corte, Meddžida Kreso, ha dichiarato che le conseguenze del referendum sarebbero catastrofiche coinvolgendo “in un effetto domino [...] altre istituzioni”.

L'Unione Europea ha reagito prontamente alla crisi aperta. L'Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza, Catherine Ashton, ha dichiarato (14 aprile) che “la decisione dell'Assemblea della RS rappresenta un passo nella direzione sbagliata”, e che “l'Unione Europea sostiene il lavoro della Corte e della Procura di Stato della BiH.”

Lo stesso concetto è stato ribadito la settimana scorsa dall'inviato dell'UE Miroslav Lajčak, il quale ha dichiarato che si tratta di una decisione irresponsabile che “non risolve alcuna questione ma al contrario ne apre di nuove, rovina l'atmosfera, crea sfiducia e allontana ulteriormente la Bosnia Erzegovina dall'Unione Europea.”

La Federazione di Bosnia/Erzegovina

Il parlamento della Federazione di Bosnia Erzegovina, la seconda entità che compone lo Stato bosniaco, in una riunione d'emergenza il 27 aprile ha approvato una risoluzione che ribadisce il desiderio di proseguire nel percorso di integrazione euro atlantico, rafforzare lo stato di diritto e sostenere un sistema giudiziario funzionale e centralizzato.

La sessione parlamentare è stata però disertata dai rappresentanti croati dell'HDZ e HDZ 1990, i due maggiori partiti croato bosniaci. Solo pochi giorni prima infatti (19 aprile), i due partiti – insieme ad altre formazioni minori – avevano dichiarato a Mostar la creazione di una “Assemblea Nazionale Croata”, sorta di governo inter-municipale che dovrebbe unire le aree a maggioranza croata con compiti di “coordinamento”. L'operazione richiama alla memoria quella tentata nel 2001 da Ante Jelavić che, secondo i supervisori internazionali di allora (Jelavić fu destituito dalle sue funzioni dall'allora Alto Rappresentante Petritsch per “attività contrarie alla Costituzione”) era diretta a creare una terza entità in Bosnia Erzegovina. Dieci anni dopo, ci risiamo.

Dom Naroda

Il referendum proposto dalla RS avrebbe potuto essere bloccato dalla Camera dei Popoli dell'entità, nella quale siedono rappresentanti di tutti e 3 i popoli costituenti. I rappresentanti bosgnacchi però, pur essendo contrari alla decisione, non hanno utilizzato il proprio diritto di veto. In Bosnia Erzegovina è ormai prassi comune attendere che i problemi vengano risolti da un deus ex machina, l'Alto Rappresentante della comunità internazionale, in questo momento l'austriaco Valentin Inzko.

Inzko ha dichiarato di non poter ignorare il referendum, dato che rappresenta “un diretto attacco agli accordi di Dayton, alla Costituzione e alle istituzioni della Bosnia”. Più esplicitamente, sulle colonne del quotidiano britannico The Guardian (28 aprile), Inzko ha detto che l'Alto Rappresentante “dovrà intervenire per bloccare il referendum” e che “la Bosnia è di fronte alla peggiore crisi dalla fine della guerra”.

Secondo una fonte dell'OHR, che ha preferito rimanere anonima, l'atmosfera all'interno dell'organizzazione era più distesa dopo la riunione del Consiglio di Implementazione della Pace (PIC, la conferenza intergovernativa da cui l'OHR dipende) di venerdì scorso (29 aprile). Superando le consuete divisioni, tutti gli ambasciatori presenti – tranne il russo – si sarebbero infatti mostrati solidali con la posizione espressa da Inzko, e favorevoli a prendere misure contro la decisione della RS.

Lunedì l'agenzia di stampa FoNet ha infatti comunicato che Inzko utilizzerà i propri poteri esecutivi per annullare il referendum. La stessa agenzia ha dichiarato che “secondo fonti diplomatiche a Sarajevo, l'Alto Rappresentante intende anche 'sanzionare' alcuni politici, compreso il presidente della RS Milorad Dodik e il portavoce del parlamento della RS, Igor Radojičić.”

Escalation

Valentin Inzko (from the OHR website)

Valentin Inzko (from the OHR website)

Seguendo il copione dell'inevitabile (e prevedibile) escalation, fonti vicine al governo della RS, citate dal quotidiano Glas Srpske, hanno però fatto sapere subito dopo (mercoledì 4 maggio) che i rappresentanti serbi abbandoneranno le istituzioni comuni se l'Alto Rappresentante prenderà queste misure. La “contromisura” potrebbe coinvolgere il rappresentante della presidenza tripartita bosniaca, Nebojša Radmanović, i rappresentanti serbi nel Consiglio dei Ministri, oltre a deputati, giudici e procuratori serbi.

Mercoledì sera Valentin Inzko e Milorad Dodik si sono incontrati, ma la riunione non ha prodotto risultati, come poi dichiarato ai giornalisti dallo stesso Inzko.

Ieri l'Alto Rappresentante ha fatto pubblicare sulla stampa locale un commento in cui ricorda che “nessuna entità in base alla Costituzione può interferire con un'istituzione dello Stato”, e che “i politici della RS lo sanno, e dovrebbero sapere che portare una minaccia agli Accordi di Pace rappresenta un'avventura politica pericolosa, che può avere conseguenze imprevedibili.” Lo stesso concetto è stato ribadito dopo una nuova riunione del PIC, ieri a Sarajevo. Al termine dell'incontro però non sono state annunciate misure concrete.

La scelta di Inzko

La posizione di Inzko è stata riassunta in una recente intervista (Euractiv.com, 3 maggio). Inzko ha dichiarato che “ci sono solo due possibilità. O la RS annulla la decisione [di convocare il referendum], o lo farà la comunità internazionale.”

Esiste una terza possibilità: lasciare che il referendum si svolga. L'utilizzo dei poteri dell'Alto Rappresentante non risolverà la situazione. Al contrario, la aggraverà. Il voto referendario non può che avere un valore consultivo. Dopo il referendum, se ne valuteranno le conseguenze pratiche. La pronuncia di una parte del Paese non potrà essere ignorata nel dibattito politico bosniaco. Ma non si può cambiare l'assetto costituzionale di Dayton con la volontà di una sola parte. Questo lo sanno sia Dodik che Čović o Lagumdžija. Non ci sono alternative ad un percorso condiviso di riforme. Ma la cosa più importante, in questa fase, è evitare la trappola dello scontro. Sarebbe molto grave se la spirale della crisi si avvitasse ulteriormente. In un conflitto aperto con la RS, la comunità internazionale ha solo da perdere.

In generale, l'intervento dell'Alto Rappresentante nelle questioni politiche interne sembra ormai produrre effetti controproducenti, sia sotto il profilo della soluzione di problemi concreti che sotto quello del rafforzamento delle istituzioni locali. È tempo per l'OHR di cedere il testimone. Fino a quando i politici bosniaci non saranno pienamente responsabili di fronte al proprio elettorato, prevarrà la retorica e sarà difficile che il Paese faccia progressi nel suo principale obiettivo di politica estera, l'ingresso nell'Unione Europea. Il percorso di integrazione comporta il rafforzamento delle istituzioni dello Stato. Uno Stato disfunzionale non può entrare in Europa. Di questo i politici locali, a cominciare da Dodik, sono ben consapevoli. Per questo la chimera europea, unanimemente invocata, è anche temuta. Il rischio è quello di perdere posizioni di rendita. Ed è per questo che il dibattito politico continua ad essere dirottato su altre questioni, sull'eterno conflitto tra Dodik e l'Alto Rappresentante. Nel percorso europeo, che deve essere sostenuto da una rafforzata delegazione della Commissione in Bosnia Erzegovina, non ci possono essere altri attori oltre a quelli locali. Altrimenti la crisi di Dayton può durare a lungo.


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