La tomba di Ana Mladić

La tomba di Ana Mladić

Il 24 marzo 1994 si suicidava Ana Mladić, figlia del noto generale Ratko Mladić accusato di crimini di guerra, ora all'Aja sotto processo. Perché Ana prese la pistola del padre e si tolse la vita? A questa domanda ha cercato di dare una risposta la scrittrice spagnola Clara Usòn con il romanzo “La figlia” (ed. Sellerio, tr. di Silvia Siche). Una recensione

11/09/2013 -  Diego Zandel

All’alba del 24 marzo 1994 Ana Mladić, figlia del generale serbo accusato di crimini di guerra, Ratko Mladić, si suicidò con un colpo di pistola alla tempia. La pistola era una vecchia Zastava che lei era solita pulire col padre insieme alle altre armi della loro collezione. Il rapporto tra loro era molto stretto. La ragazza stravedeva per il padre, e lui per lei, tanto che la chiamava “figlio”, al maschile, innalzandola cioè al rango di un figlio maschio (anche se già ne aveva uno). Quella Zastava aveva un valore simbolico: il generale avrebbe sparato con quella in onore dei figli di Ana, quando avrebbe trovato l’uomo giusto della sua vita, si sarebbe sposata e li avrebbe messi al mondo. Il fatto che Ana l’abbia usata per uccidersi ha significato la fine di tutto ciò. Perché?

A questa domanda ha cercato di dare una risposta la scrittrice spagnola Clara Usòn con uno straordinario romanzo “La figlia”, edito in Italia da Sellerio, nella traduzione di Silvia Sichel. Si tratta forse del libro che, nella distanza degli anni e grazie al distacco biografico della scrittrice che nessun legame personale ha con la ex Jugoslavia, meglio ha raccontato ciò che è stato il conflitto interetnico in quel paese tra gli anni 1991 e 1995. Un romanzo intenso, documentatissimo sul piano storico-politico e ricco di dettagli personali per quanto riguarda i personaggi, tutti veri, strutturalmente così dinamico da apparire magistrale per la circolarità della storia e gli inserimenti dei vari capitoli con i ritratti a tutto tondo dei diversi protagonisti della guerra: il generale Mladić, naturalmente, Slobodan Milošević e sua moglie Mira, la Lady Machbeth dei Balcani, Radovan Karadžić, Biljana Plavšić, senza tralasciare, seppur in subordine, tutti gli altri, da Franjo Tuđman a Momčilo Krajišnik e così via.

Il romanzo infatti comincia con i funerali di Ana e la descrizione della sua tomba e si conclude con il colpo di pistola. Nel mezzo i motivi profondi che probabilmente – ma la Usòn non dà chiaramente certezze – hanno portato Ana a quel gesto estremo. E’ la storia di un’inquietudine, frutto di una grande paura, quella di aver forse sbagliato tutto, riposto fiducia e amato un uomo, il padre, che forse non era l’eroe che credeva, ma solo un volgare assassino. Più ancora: quel colpo di pistola arriva prima che Ana si dia una risposta. Si uccide perché qualcosa del padre in cui ha creduto muoia con lei. Andare oltre, fino al giudizio finale, sarebbe stato impossibile tanto sarebbe stato doloroso.

Tutto è cominciato con un viaggio di Ana in Russia, a Mosca, con i suoi amici, compagne e compagni di studi, Martina, Nadja, Nadica, Zoran, Petar, Marko, ciascuno con la propria personalità e idee, in prevalenza comunque antinazionaliste, critiche della guerra che si sta svolgendo nel cuore dei Balcani, con epicentro l’assedio di Sarajevo. E’ inevitabile, tra una seduta al bar e lo shopping o il divertimento in qualche discoteca, lo scambio di opinioni tra loro su quanto sta accadendo nel loro paese, e che ne nascano discussioni, tensioni, silenzi. Perché alle critiche agli eccessi dei serbi, alle gesta delle bande di Arkan, ai cecchini appostati a Sarajevo pagati un tanto a morto ucciso, Ana risponde difendendo l’operato delle truppe comandate da suo padre, innalzato a eroe di una patria offesa dagli altri oppure, quando non ne può più, chiudendosi a riccio. In questo contesto conosce un ragazzo russo, Saša, un fotografo, con il quale, per gioco, si fa passare come cittadina di Andorra.

Per staccare del tutto, liberarsi anche dei discorsi sulla guerra, non vuole comunque rivelare il fatto di essere serba. Con Saša, che sta al gioco, sembra prendere avvio un feeling che potrebbe portare a qualcosa di intimo. Tant’è che lui la invita a casa sua, dove però non vive solo: divide l’appartamento con un altro giovane, Ron, di origine canadese, fotografo anch’egli, il quale quando lei sale da lui, nonostante la raccomandazione di Saša di lasciargli libero il campo, si trova lì temporaneamente con un’altra ragazza. La quale, poco dopo, risulterà essere bosniaca, vittima di una bomba scagliata dai serbi a Sarajevo, della quale porta i segni in tutto il corpo, carica di odio per Mladić, responsabile dei massacri. Ron è riuscito a portarla via in qualche modo da quell’inferno, che lui ha fotografato, ripreso, registrato, diffuso. E’ inevitabile che se ne parli. Che si parli della ferocia dei serbi, della crudeltà di Mladić. Alma, la ragazza bosniaca, fa vedere il suo corpo dilaniato dalle schegge sotto il vestito. E Ana, sempre più cupa e infastidita dentro di sé si trattiene dall’esplodere, tace, mentre vorrebbe spargere il suo veleno contro quella gente, quella donna che ai suoi occhi diventa un’impostora, che parla di suo padre come di un criminale, uno psicopatico, mentre lei è come soffocata dall’amore e dall’orgoglio per quell’uomo eccezionale. Lei che lo conosce bene. Ana, però, si limita ad esprimere solo qualche obiezione, mentre sollecita Saša, che si rende conto del cambiamento di umore che avviene in lei, ad andare via da lì. La ferma solo Ron che, all’ultimo momento, le propone la visione di un filmato con il generale Mladić. La tentazione per Ana di vederlo è troppo forte. E sentirà la voce di suo padre che dalle montagne sopra Sarajevo ordina di sparare senza tregua sulla città, sulla Presidenza, il Parlamento, sui vari quartieri: “Lì non c’è più quasi nessun serbo. Forza col fuoco d’artiglieria. Non lasciarli dormire. Li faremo diventare matti”.

E’ troppo, troppo per Ana. Ormai vuole solo andarsene da lì. Ron non capisce, gli dispiace per l’amico, di avergli rovinato tutto. Quando scendono in strada Saša chiede ad Ana perché fa così. E allora lei glielo dice “Il generale Ratko Mladić non è uno psicopatico! E’ un eroe, un grande eroe serbo. E la voce di quelle registrazioni non è la sua”. “E tu come lo sai?” le chiede Saša. “Perché è mio padre” gli risponde. Saša resta di sasso. Quasi non ci crede. E questo straordinario capitolo che rappresenta un po’ la svolta di tutto si conclude con due righe che danno il senso alla storia: “Ma stavolta non mentiva, il suo nome completo era Ana Mladić; quanto al resto… era la voce di suo padre”.

Non sarà l’unico momento topico. Ce ne saranno altri (tra cui la lettura di un significativo racconto di Tolstoj), che produrranno spostamenti sensibili nel cuore della donna, tornata a Belgrado da quella vacanza cambiata, e molto, a parere di tutti. A Belgrado dove, tra l’altro, scoprirà ancora che il suo ultimo fidanzato, Dragan, morto sul fronte, si è trovato lì solo perché spedito per dispetto da suo padre, al quale stava antipatico e ritenuto non degno sposo di sua figlia e che ad ucciderlo non sono stati i nemici ma sempre gli uomini di Mladić perché scoperto nel tentativo di diserzione da quella guerra che lui aveva sempre avversato.

Ma la morte tragica della figlia non sarà certo un segnale per Mladić che poco più di un anno dopo, seppellita e pianta e sempre rimpianta, non esiterà a condurre la orribile offensiva su Srebrenica, convinta che altre siano state le ragioni di quel gesto. Ragioni imputabili ad altri, che Mladić non avrebbe smesso di cercare (anche con l’aiuto di una fattucchiera), non certo a lui.


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