Lo stadio "Asim Fehratović Hase" - immagine postata originariamente su Flickr da cryptolife https://www.flickr.com/photos/91184480@N00/124281483

Un reportage dalla capitale bosniaca a seguito dei recenti preliminari di Europa League. La disfatta sul campo da calcio come metafora di una città sempre più divisa

21/08/2018 -  Linda Caglioni

«Sarajevo si ferma qui». Queste parole sono apparse tra i titoli in prima pagina del quotidiano bosniaco Oslobodjenje, all’indomani della sconfitta contro l’Atalanta, che ha visto uscire la squadra di casa provata da un indimenticabile 0-8. Una «debakl» che ha spezzato il sogno dell’Europa League, si legge nello speciale dedicato, e di cui sono stati testimoni diretti migliaia di bosniaci, principalmente abitanti della capitale. Gli stessi che, intorno al tardo pomeriggio di quel fatidico giovedì d’agosto, avevano invaso del rosso porpora della squadra del cuore i tornanti che dalle colline accompagnano con gentilezza verso la valle cittadina, proprio dove si trova lo stadio "Asim Fehratović Hase".  

Un fiume di colore senza soluzione di continuità in cui si potevano scorgere mogli che a fatica tenevano il passo dei mariti euforici, pargoletti trasportati sulle spalle dei nonni, grappoli di tifosi che si attardavano nelle kafane della zona. Severa come il guardiano del Panopticon, sopra a tutte quelle teste febbricitanti, vegliava poi la torre dei giochi olimpici del 1984, che dista dallo stadio solo una manciata di metri in linea d’aria. A spezzare l’atmosfera di svago, solo alcune vecchie signore intente a chiacchierare sulle panchine di via Alipašina, che guardavano con un certo scetticismo alla folla rossa schiamazzante. Del resto, nonostante l’occasione fosse grande, quella era una giornata storica solo per alcuni, e a molti nemmeno interessava che il Fudbalski Klub Sarajevo passasse il turno. Anzi.

"Per me è meglio se il Sarajevo esce sconfitto", mi ha detto raggiante Sifet, dopo l’ormai quinto gol dell’Atalanta, mentre ce ne stavamo seduti in tribuna B-1, cercando di ripararci come si poteva dalla pioggia che intanto aveva cominciato a scendere. Ventotto anni, di Travnik, Sifet ha osservato la partita dalla parte degli atalantini, per via del suo impiego nella sicurezza. "Io tengo allo Željezničar, che è nemica storica del Sarajevo. Funziona un po’ come per voi Milan e Inter". A ogni gol Sifet se la ride insieme al collega più anziano, con cui si scatta selfie ironici in compagnia dei tifosi bergamaschi. Intanto, sulla fetta opposta di stadio, osservo una curva del Fk Sarajevo sempre più fiaccata nell’orgoglio e nell’entusiasmo. I loro cori si sono ammutoliti a pochi minuti dall’inizio, dopo la prima rete a favore dell’Atalanta. E non hanno più avuto motivo di tornare a raccogliere le speranze. 

"Ho capito che non sarebbe stato più possibile recuperare dopo il terzo gol" mi spiega qualche giorno dopo Iman, una musulmana di vent’anni con cui mi ritrovo a parlare in un piccolo locale della Baščaršija, che ha ereditato la passione per il calcio dalla zia materna, con cui va qualche volta allo stadio anche se "per le donne è un po’ pericoloso, soprattutto se il Fk Sarajevo gioca contro lo Željezničar e i disordini sono garantiti". Quando la incontro Iman sta mangiando un piatto di patatine fritte insieme a due amiche, che al contrario non sono tifose. "Quella sera credevamo di farcela per davvero, lo stadio era affollato e i tifosi speravano con tutto il cuore che il Sarajevo potesse vincere – prosegue Iman - dopo il terzo gol però è successo qualcosa a tutti noi che eravamo lì: ci siamo resi conto che l’Atalanta era davvero troppo forte per i nostri standard. Anche i nostri giocatori sono in gamba, certo. Solo che, sai, non si sono preparati abbastanza e alla fine il risultato è stato vergognoso".  

Chi siete voi?

Probabilmente senza volerlo, Iman tocca un punto cruciale: la scarsa tenuta fisica e psicologica della più importante squadra nazionale in vista di una sfida che avrebbe potuto passare alla storia.  

Si tratta di una constatazione che non ha a che vedere soltanto con una strategia calcistica fallimentare, ma anche con un cambiamento sociale prodotto da una fallimentare strategia politica. Ossia quella che da anni i potenti della Bosnia Erzegovina stanno seguendo, come racconta Zlatko Dizdarević, giornalista di fama internazionale, che ho incontrato in un locale lungo Maršala Tita, quando il ricordo della disfatta si stava ormai sfumando. "Alcuni amici giornalisti di Bergamo mi hanno telefonato prima del 2 agosto, volevano che raccontassi di come la città si stava preparando alla partita, dell’atmosfera di festa, dell’entusiasmo. Ma per niente di queste cose c’è più spazio a Sarajevo. Solo che per chi non ha vissuto la metamorfosi della città è difficile rendersi conto che qui, ogni occasione è diventata buona per dividere, per spingere la gente verso l’identità nazionalista, invece che per unire". Anche per questo motivo nemmeno il calcio, considerato dalla notte dei tempi il collante per eccellenza, può nulla contro le crepe rimaste aperte nel corpo infragilito di Sarajevo. La frammentazione politico culturale della città, le divisioni e le debolezze che ne derivano, hanno finito per fare la differenza anche sul campo da gioco.

"Due mesi fa una rete televisiva ha fatto un esperimento molto semplice: è andata per strada e ha rivolto alla gente una domanda. Ha chiesto Che cosa siete voi?. Dieci su dieci hanno risposto specificando la propria nazionalità, dicendo di essere di volta in volta serbi, croati o musulmani. Nessuno di loro ha pensato di rispondere che cosa fossero oltre all’etichetta nazionale, nessuno di loro ha pensato di dire se erano studenti, ingegneri, fornai. È la prova che qui in Bosnia Erzegovina ci siamo dimenticati della nostra identità storica, ci siamo dimenticati che una Bosnia Erzegovina che non sia multiculturale non ha speranze di sopravvivere. I partiti politici hanno fatto di tutto per produrre odio e divisione. Esiste solo un “noi” contro un “voi”. In passato non era così, ma le generazioni di adesso fanno fatica a immaginare una situazione diversa da quella attuale. La sostanza della Bosnia Erzegovina una volta non era lo Stato, ma era la società solidale con vicini, la società dei valori. Adesso questa società è andata distrutta".

Passato glorioso

In un simile scenario, è facile immaginare che neanche lo sport possa migliorare le cose. Senza contare che un tempo, anche per il calcio le cose erano ben diverse da come lo sono oggi. Il Fk Sarajevo, che esiste dal 1946, "ha alle spalle un passato glorioso, era stato più volte campione della Jugoslavia. Ora a tenere le redini della squadra sono imprenditori legati al mondo islamico della Malesia, e leader della comunità islamica. Il calcio è l’ennesimo tentativo di portare avanti degli interessi economici: non si investe affatto nei giocatori, nella loro preparazione. Per questo il risultato di giovedì non mi ha sorpreso affatto, e per questo non aveva senso che io mi esprimessi a riguardo".

Sapevo ancor prima di intraprendere i mille chilometri che separano Bergamo da Sarajevo che Dizdarević era restio a parlarne. La vicenda ha preso un’altra piega quando l’ho visto varcare inaspettatamente le porte del bar in cui mi trovavo, e davanti a un cappuccino al mio tavolo ha iniziato a raccontarmi il suo punto di vista, con quell’italiano quasi perfetto, traccia di un passato che l’ha visto profondamente legato all’Italia, e ancor di più a Bergamo. Durante i primi mesi del conflitto, infatti, riuscì a fare trasferire la sua famiglia a Trescore Balneario, e a metterli al riparo dalla vita sotto assedio. "A Milano esisteva un Rotary club. Il presidente era stato un partigiano nella Brigata Garibaldi in Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale, e lì si era innamorato di una bosniaca, che era poi stata uccisa alla fine del conflitto. Ma lui aveva conservato un bellissimo ricordo della Federazione. Così, quando qui la guerra è cominciata nel 1992, al Rotary club di Miano si sono trovati a discutere di come aiutare. Lui non voleva dare soldi, perché non sapeva che fine avrebbero fatto. Ma si era detto pronto a ospitare una famiglia con bambini, in quella casa a Trescore. Attraverso alcuni contatti in Croazia sono arrivati a me: mia moglie e i miei figli si sono trasferiti lì, dove hanno condotto una vita normale e dove sono diventati italiani e bergamaschi a tutti gli effetti". 

Mentre parliamo, dalle vetrine si può notare l’invadenza dei manifesti rosati del Sarajevo Film Festival, che come ogni anno in questo periodo prendono la scena nelle principali vie della città. "Il Sarajevo Film Festival è l’unica occasione dell’anno in cui si può avere la sensazione che la città sia ancora quella di trent’anni fa. Le strade si riempiono di turisti, di giovani, tutti tornano a sorridere. Ma è un’illusione che può catturare solo chi non l’ha vista prima. Anche se può sembrare assurdo, io come alcuni guardiamo con nostalgia alla Sarajevo in guerra. Quelli sono stati gli ultimi anni in cui è stata una città vera, piena di speranza, piena di episodi di amicizia incredibile, quando a nessuno importava del cognome di chi occorreva aiutare. Quella era la nostra vera identità". 

Quando la conversazione sfuma dopo circa un’ora e mezza, mi alzo con una scusa e vado a chiedere il conto senza dare nell’occhio. Voglio offrire il cappuccio in cambio di quella bella lezione di geopolitica, mista a storie di vita. Ma quando Dizdarević se ne accorge me ne pento subito, conscia di aver a mia volta intaccato un po’ di quello spirito sarajevese che lui teme per sempre perduto. Contratta con il cameriere, cerca di porre rimedio al mio torto, finché si arrende. "Non dovevi pagare tu – mi dice scuotendo la testa, con un sorriso accennato ma non troppo – qui a Sarajevo non accettiamo che siano gli ospiti ad offrire".


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