Dževad Karahasan (Foto © Danilo Krstanović)

Dževad Karahasan (Foto © Danilo Krstanović)

Nel suo ultimo libro Uvod u lebdenje [Introduzione al galleggiamento], ambientato nel 1992 a Sarajevo, lo scrittore bosniaco-erzegovese Dževad Karahasan si interroga sulla duplicità di quella tragica esperienza in "un ambiente ideale per conoscere la sensazione di galleggiamento, perché tutto era stato portato all’esasperazione, al contempo rimanendo distaccato, fuori di sé"

10/02/2023 -  Anđelka Cvijić

(Originariamente pubblicato sul quotidiano Danas , il 22 gennaio 2023)

L’ultimo romanzo dello scrittore bosniaco-erzegovese Dževad Karahasan, intitolato Uvod u lebdenje [Introduzione al galleggiamento], è ambientato a Sarajevo nella primavera del 1992. Il protagonista è un traduttore sarajevese che ospita nella sua città l’autore di un libro di cui ha curato la traduzione e che dovrebbe essere presentato al pubblico bosniaco. La vita a Sarajevo pone i due uomini davanti a grandi sfide. Parallelamente alla narrazione dei fatti inconfutabili – fatti che hanno reso Sarajevo una delle città martiri della storia contemporanea – Dževad Karahasan, addentrandosi nei meandri della psiche dei suoi personaggi, indaga su quei dilemmi morali da cui si può uscire più forti oppure completamente frantumati.

Nonostante il termine galleggiamento suggerisca una sensazione di leggerezza, beatitudine e quiete, come quella sperimentata da un corpo in caduta libera, il suo romanzo Uvod u lebdenje mette fortemente in dubbio certe convinzioni, interrogandosi sull’effettiva capacità dell’individuo di conoscere se stesso, su ciò che ci rende reali. Ritiene che la storia della Sarajevo assediata ci possa offrire una risposta credibile a questi interrogativi?

Sono contento che lei abbia colto l’ambiguità dell’idea di galleggiamento nel mio romanzo. Credo che nel mondo reale, dove la vita è possibile, nulla sia univoco, cioè solo bello e buono, oppure solo brutto e cattivo, come invece ci suggeriscono le immagini kitsch della cultura del nostro tempo. Quindi, nel mondo vivente anche il galleggiamento è ambiguo, duplice o addirittura molteplice.

Le epoche passate ne erano ben consapevoli. Nella tradizione cattolica, il galleggiamento viene indicato con il termine levitazione con cui ci si riferisce alla capacità dell’individuo di utilizzare la propria energia spirituale per liberarsi dal peso e sollevarsi dal suolo, contraddicendo così la legge di gravità. A levitare furono molti santi, soprattutto le donne sante, come Teresa d’Avila e Caterina da Siena. Per la capacità di levitare si contraddistinse anche Simon Mago, l’unico maestro gnostico citato nel Nuovo Testamento come imbroglione e peccatore, tanto da sembrare quasi un emissario del diavolo.

Ad ogni modo, a prescindere dal fatto che si tratti di un’opera divina o diabolica, la levitazione è inestricabilmente legata all’estasi, all’uscire da sé (ex-stasis), ed è per questo che può essere considerata – come anche lei ha suggerito – uno stato di beata assenza di peso e, allo stesso tempo, uno stato di distacco dal sé. Credo che Sarajevo sotto assedio fosse un ambiente ideale per conoscere la sensazione di galleggiamento, perché tutto era stato portato all’esasperazione, al contempo rimanendo distaccato, fuori di sé.

In tali condizioni non ci sono risposte certe, perché non c’è un costante fluire del tempo. Ogni istante è un riflesso dell’eternità, una piccola eternità a sé stante, e non può essere paragonato all’istante precedente, né tanto meno a quello successivo. Se mai c’è stato un periodo in cui è diventato chiaro che nessun essere umano o evento può essere paragonato ad un altro, quello è il periodo dell’assedio di Sarajevo.

Una certezza che forse avremmo potuto raggiungere anche in una Sarajevo pacifica e multinazionale?

Sarajevo era rimasta una città multinazionale anche durante l’assedio. Nel mio palazzo vivevano Petrojka e Dejan, Risto e Slava, ma anche Branko e Zdenko, Dževad e Hajrija… Ritengo però valida la sua domanda perché, sotto il peso dell’assedio, tutti i confini tra persone in un certo senso erano stati cancellati, tutti erano diventati semplicemente sarajevesi, persone assediate, accomunate dagli stessi timori e dalla stessa fame, dallo stesso freddo e dalla stessa sete. In circostanze normali, a Sarajevo puoi addentrarti alla scoperta di te stesso senza grandi difficoltà, perché ti ritrovi sempre davanti all’Altro inteso come interlocutore, specchio e occasione di confronto.

Non c’è nulla di più comune del ritrovarsi in una kafana con un cattolico e un comunista, con un ortodosso e un ateo che, già con la loro presenza, ti permettono di capire con grande chiarezza chi sei e quanto sei diverso da loro, in quanto musulmano o agnostico. Al contempo però, in situazioni normali, queste stesse persone, di nazionalità e fede diversa dalla tua, persone che danno forma e delimitano la tua libertà, non ti permettono di levitare, non permettono un’esperienza estatica. Solo nella Sarajevo assediata, in quella Sarajevo dove le differenze tra le persone erano venute meno, era diventato possibile sperimentare uno stato di estasi e, di conseguenza, una profonda “esplorazione del sé”, esplorazione di tutto ciò che ci portiamo dentro.

Questo percorso che a volte ci porta a scoprire ciò che avremmo preferito non conoscere mai, come dimostra l’esperienza di Peter Hurd, protagonista del mio romanzo. Il suo caso mi ha fatto capire che non conoscere tutto ciò che ci portiamo dentro può rivelarsi una cosa molto positiva, ed è certamente saggio conoscere i propri amici un po’ meglio di se stessi.

Forse è proprio la ricerca delle risposte agli interrogativi di cui sopra il motivo per cui, come lei stesso ha affermato, ha aspettato ventiquattro anni per scrivere Introduzione al galleggiamento?

Un’ottima domanda! Non lo so, non mi è mai venuta in mente l’idea di giustapporre questi due aspetti. Però ora che me lo chiede, mi sembra del tutto possibile che la stesura del romanzo sia stata così lunga e difficile proprio per via delle questioni affrontate, questioni a cui non è possibile dare una risposta certa.

Solo quando ho raggiunto una certa età, accettando l’incertezza della mia permanenza su questo mondo, mi sono reso conto che vanno bene anche quelle risposte incerte che mi ha offerto la Sarajevo assediata. Risposte inattendibili, parziali, che sembravano valide solo in quel preciso momento e in quelle circostanze, eppure si stanno dimostrando complementari ai miei interrogativi. Ora che so che la mia esistenza è insicura e incerta, mi risulta facile ammettere di non sapere, cioè di avere solo una conoscenza del mondo parziale e incerta.

Qualche anno fa lei è stato insignito del Premio Goethe, istituito dalla città di Francoforte, per il suo contributo al superamento delle barriere politiche e culturali in un’epoca contrassegnata da recrudescenze nazionaliste e per l’impegno nella promozione di una reciproca comprensione e tolleranza tra Est e Ovest. Ritiene che sia possibile trascendere queste barriere ora che i rifugiati provenienti dall’est sono diventati parte integrante della quotidianità del mondo occidentale?

Certo che è possibile, le barriere stanno già scomparendo. Mi piace paragonare il dialogo tra culture, il loro intrecciarsi e conoscersi a vicenda, al processo di osmosi. Basti ricordare quanto profondo e complesso fosse stato il confronto tra l’Europa cattolica e l’oriente islamico all’epoca delle crociate. Credo che a quel tempo nessuno dei potenti auspicasse tale confronto, in Europa già la sola conoscenza dell’altro veniva considerata un peccato mortale. Eppure, le culture, oggi come allora, continuano a intrecciarsi e conoscersi a vicenda, con la differenza che oggi tale dialogo risulta molto più facile.

Ritiene che ci sia ancora qualche speranza che in Bosnia Erzegovina rinascano il multiculturalismo e la tolleranza?

Certo, credo che si tratti di un processo inarrestabile. Nelle città la tolleranza e il multiculturalismo sono sempre rimasti vivi, nonostante la guerra. Ancora oggi a Sarajevo, Zenica, Tuzla c’è quella meravigliosa mescolanza di popoli, religioni e concezioni del mondo che esisteva prima della guerra. Qualche traccia ne è rimasta persino a Mostar, città che ha pagato, e continua a pagare il prezzo più alto per il suo jugoslavismo. Non so però come sia la situazione a Banja Luka, ci sono stato solo una volta dopo la guerra. Però credo fermamente che anche lì sempre più persone si stiano rendendo conto che il diverso, anziché rappresentare una minaccia, ci aiuta a conoscere e riconoscere se stessi.

Lei vive in Occidente. È riuscito a intuire il motivo alla base dell’inerzia dell’Europa e dell’intero mondo occidentale di fronte alla dissoluzione della Jugoslavia? Secondo lei, si è trattato di incomprensione, inettitudine o di una razionalità ipocrita del tipo “che combattano pure tra loro, noi interverremo quando saremo proprio costretti a farlo”?

Non posso saperlo con certezza, ma credo profondamente che si sia trattato dell’ultima cosa che lei ha citato. Schiacciati sotto il fardello delle questioni esistenziali e morali, continuiamo a dimenticare che le guerre e i processi di dissoluzione dei paesi sono in larga misura fenomeni economici. C’è sempre chi guadagna bene con una guerra e con il crollo di un paese. Basta guardare chi ci guadagna per capire chi ha iniziato una guerra. Forse l’Occidente non si era mai immischiato molto nelle nostre guerre, ma non c’era nemmeno bisogno che lo facesse, sapendo che eravamo tanto sciocchi da fare tutto il possibile per danneggiare noi stessi. Al contempo però è chiaro che l’Occidente ha guadagnato tanto, ma proprio tanto dalle nostre guerre e dalla dissoluzione della Jugoslavia.

Oggi le repubbliche ex jugoslave sono costruzioni statali fragili e incompiute, che vengono mantenute in vita alimentando costantemente fantasmi nazionalisti. Perché lo spettro del nazionalismo continua ad essere così forte, considerando che era stato proprio un incitamento consapevole al nazionalismo a portare alla dissoluzione della Jugoslavia?

Mi guardo bene da spiegazioni semplici e da chi le offre. Temo però che la risposta alla sua domanda sia assai semplice. La paura è un aspetto importante dei nostri “fantasmi nazionalisti” ( la ringrazio per questa espressione), la paura dell’altro che “si prepara a distruggerci”. Un altro aspetto di questi fantasmi è la convinzione che la mera appartenenza ad un popolo ci renda migliori degli altri (le persone amano sentirsi superiori agli altri).

Vi è poi un terzo aspetto che riguarda la narrazione focalizzata sul nostro glorioso passato e sulla terribile situazione in cui ci troviamo oggi. Una narrazione che ovviamente contiene la promessa che, appena diventeremo abbastanza pazzi, ci riprenderemo tutto ciò che abbiamo avuto quel glorioso passato.

So per esperienza che è molto difficile riprendersi dalla sbornia se ci si è ubriacati mescolando bevande, e i nostri fantasmi contengono proprio questo – una miscela di bevande. Quella stessa miscela che troviamo ne Gli uccelli di Aristofane: il discorso di Pistetero agli uccelli contiene quello stesso cocktail che i nostri leader ci stanno vendendo ormai da quarant’anni.

Quando diventeremo stanchi dell’odio? Ritiene che l’odio sia diventato il metro di misura del patriottismo?

Non credo si tratti di un fenomeno circoscritto alla nostra regione, è una caratteristica dell’epoca in cui viviamo. Lei probabilmente ricorderà che Samuel Huntington, nella terza parte del suo libro Lo scontro delle civiltà, scrive con tutta serietà: “Odiare è umano. Le persone hanno bisogno di nemici per l’autodeterminazione e la motivazione”. Non c’è nulla da togliere a questa idea, c’è però molto da aggiungere, ad esempio, che è altrettanto umano amare, cercare amici, non avere secondi fini…

Per quanto riguarda “l’autodeterminazione e la motivazione”, le persone normali contano molto di più sui loro cari e amici che non sulla presenza dei nemici. Lo so per esperienza. Eppure, “la filosofia dell’odio” di Huntington è diventata il dogma politico più influente del nostro tempo. Basti osservare cosa sta accadendo nel ricco e pacifico Occidente alla luce della guerra in Ucraina: i brani di Čajkovskij vengono rimossi dai cartelloni concertistici, ai tennisti russi viene impedito di giocare a Londra, Anna Netrebko è stata costretta a prendere pubblicamente le distanze da Putin per potersi esibire, le conferenze dedicate a Čehov vengono cancellate. Ma certo, la responsabilità delle guerre è sempre stata di tennisti, soprani e mostri come Čajkovskij e Čehov.

Tornando a discorsi seri, chi ha bisogno di queste idiozie imbarazzanti? Com’è possibile che le persone inizino a pensare e agire in questo modo? L’unica idea che mi viene in mente è legata allo Zeitgeist, che è intriso di odio. Tutto questo ovviamente non spiega, né tanto meno giustifica la nostra malsana propensione ad accettare l’odio verso il nostro vicino come misura del nostro patriottismo.

È riuscito a trovare un rimedio per alleviare la malinconia?

L’uomo non può fuggire da se stesso. Chi nasce malinconico, sicuramente anche morirà tale. Quindi, non ho nemmeno cercato un rimedio per la mia malinconia, non mi dà alcun fastidio. Mi piacerebbe però trovare un toccasana per tutti quelli che sono diventati “malinconici per forza” essendosi trovati costretti ad abbandonare la nostra regione, sparpagliandosi ai quattro angoli della terra, e continuano ad essere assenti sia dal luogo in cui attualmente risiedono sia dal luogo da cui se ne sono andati. Come ad esempio il mio caro amico Dragan T. È stato lui a spingermi a scrivere il saggio sulla malinconia che conclude il mio romanzo Dnevnik selidbe [Diario di un emigrante]. Dragan vive a Vancouver, vive abbastanza bene, eppure ogni mattina quando esce dal bagno, accende il computer per vedere che tempo fa a Sarajevo. Il suo universo emotivo è rimasto a Sarajevo; dal punto di vista emotivo, lui vive a Sarajevo più che a Vancouver. I malinconici sono molto isolati dal mondo che li circonda, è come se tra loro e il mondo ci fosse un muro di vetro.

Così tra Dragan e Vancouver si erge Sarajevo, così come è rimasta impressa nella memoria del mio amico. Un autentico amante dello sport è diventato malinconico solo perché è stato costretto a lasciare Sarajevo. Vagando per il mondo, ci si imbatte in tantissime persone come Dragan, persone che sono fuggite da Mostar, Belgrado, Banja Luka, Spalato, diventando “malinconici per forza”.


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