In varie città della Bosnia Erzegovina, dal 28 maggio al 2 giugno, si è tenuto un importante festival di storia che vede radunati un centinaio di storici della regione. Quest’anno però History Fest è diventato un caso di tensione etno-politica

21/06/2019 -  Alfredo Sasso

Una lettera non firmata e un misterioso tubo rotto hanno scatenato la nuova battaglia per la storia nella regione ex-jugoslava. Sono passati ormai quasi tre decenni dall’inizio della crisi che portò alla dissoluzione della Jugoslavia, e negli ultimi anni sono state numerose le iniziative di circolazione delle idee e confronto dei diversi approcci storiografici.

Crescono le conferenze, le pubblicazioni congiunte, le mobilità di ricercatori e studenti. Ma le forze che dominano il quadro politico non accettano la messa in discussione dei propri miti e narrazioni canoniche sul ‘900 e in particolare sugli anni ‘90. A ciò contribuisce la pressione dei media e un clima di generale conformismo nelle istituzioni culturali ed educative.

In questo contesto, la Bosnia Erzegovina spicca negativamente, come dimostrano le istanze revisioniste da parte del nazionalismo bosgnacco - si veda la vicenda della riabilitazione a Sarajevo di Mustafa Busuladžić, intellettuale filo-ustaša e filo-fascista - e di quello serbo - con il reiterato intento revisionista delle istituzioni della Republika Srpska sui fatti di Srebrenica.

Il nuovo esempio di questa tensione è il caso della History Fest, un annuale festival di storia giunto alla terza edizione, svoltosi tra il 28 maggio e il 2 giugno in diverse città del paese (Sarajevo, Mostar, Banja Luka e Konjic). Il promotore della History Fest è un ente non governativo di Sarajevo, l’Associazione per una Storia moderna (UHMIS), presieduto da Husnija Kamberović, uno degli storici contemporaneisti più importanti della regione.

Quest’anno la History Fest ha radunato circa un centinaio di storici, intellettuali, giovani ricercatori e testimoni diretti di ambito post-jugoslavo e internazionale. Il tema centrale del festival era la caduta del comunismo e il confronto tra i diversi 1989, quello jugoslavo e quello europeo. Diversi sono stati gli ospiti di rilievo, tra cui l’ex-presidente sloveno Milan Kučan e quello croato Stipe Mesić, le storiche e politiche serbe Ljubinka Trgočević e Latinka Perović, gli ex-membri bosniaci della presidenza jugoslava Raif Dizdarević e Bogić Bogičević.

Il 31 maggio, mentre era in viaggio da Sarajevo verso il Teatro nazionale di Banja Luka dove si sarebbe dovuto tenere un evento del festival, Husnija Kamberović riceveva una telefonata improvvisa: lo avvertivano che al teatro era “scoppiata una tubatura” che rendeva impossibile lo svolgimento dell’evento. In fretta e furia gli organizzatori trovavano un’alternativa, una modesta sala in un hotel del centro città. Ma si diffondeva il sospetto che, più che un incidente, ci fossero state pressioni politiche sul Teatro nazionale, di proprietà del governo della Republika Srpska, per ostacolare il festival. La notizia diventava di dominio pubblico, ma il teatro - la cui fittissima agenda di eventi non subiva alcuna altra modifica in quei giorni - non rilasciava nessuna comunicazione ufficiale. Proprio nelle stesse ore, iniziava a circolare tra media e social network una lettera che accresceva i sospetti.

Manipolazioni della storia

La lettera è firmata laconicamente “Programma di studio di storia”, con un’intestazione della facoltà di filosofia dell’Università di Banja Luka, ma priva di nomi e cognomi. Si tratta un appello di protesta contro “la manipolazione della storia al Teatro nazionale della Republika Srpska”. Il documento lancia attacchi pesanti contro gli organizzatori della History Fest, che avrebbero “evitato di coinvolgere autori dalla Republika Srpska” e hanno invece invitato alcuni intellettuali serbi – citati con nomi e cognomi: Latinka Perović, Sonja Biserko, Milivoje Beslin, Dubravka Stojanović – e definiti “conclamati promotori dell’ideologica nazionale bosgnacca”. Si critica inoltre la partecipazione di politici protagonisti della crisi jugoslava degli anni ’80-’90, in quanto non sarebbe stato incluso alcun “rappresentante rilevante della politica serba di quegli anni”.

La lettera fa poi riferimento alle ricerche su vicende storiche cruciali per il popolo serbo che sarebbero state presentate nel festival: tra questi vi è Jasenovac il libro del noto storico croato Ivo Goldstein dedicato al campo di sterminio ustascia contro serbi, ebrei, rom e partigiani. Con alcune allusioni la lettera sembra lamentare il fatto che si presentassero ricerche sul popolo serbo scritte da non-serbi. In conclusione, il documento definisce la History Fest come una “provocazione anti-serba” e raccomanda le istituzioni della Republika Srpska a prendere provvedimenti.

Sebbene il festival si sia concluso regolarmente, con una crescita di partecipanti e pubblico, questa frattura può lasciare conseguenze pesanti nell’ambiente scientifico e intellettuale del paese. Stupisce il modo in cui è stata sollevata la questione, con un documento semi-anonimo che sembra istigare alla segregazione e all’auto-censura, con toni oppressivi e quasi intimidatori ad personas. È un approccio che elimina ogni possibilità di confronto, e soffoca l’invocazione – legittima, e forse necessaria, dopo quasi trent’anni - a esplorare certe zone grigie sui conflitti degli anni Novanta, che le tante interpretazioni manichee in campo continuano a rimuovere.

Altri aspetti preoccupanti sembrano confermare la presenza di un clima non proprio favorevole alla libertà di espressione a Banja Luka. Tutti i media della Republika Srpska, compresi quelli di opposizione – fa eccezione solo l’indipendente Buka – hanno taciuto del tutto sulla vicenda. Quasi nessuno degli intellettuali della città ha scritto e preso posizione in solidarietà con la History Fest, a eccezione dei soliti Srđan Puhalo e Dragan Bursać. "Penso che volessero che quel giorno si presentasse l’ologramma di Slobodan Milošević, o il suo giullare di corte Vojislav Šešelj", ha ironizzato Puhalo. Lo stesso autore ricorda che nel 2017 l’Università di Banja Luka ha ospitato la proiezione di un film apologetico su Radovan Karadžić, eppure nessuno all’epoca parlò di politicizzazione della storia. Va riconosciuto che anche a Sarajevo e nel resto della Bosnia Erzegovina il caso sembra aver ricevuto poca attenzione, un po’ per rassegnazione e assuefazione al clima di segregazione culturale, un po’ perché i temi della quotidianità prendono il sopravvento, un po’ perché la sindrome da “eccesso di memoria” spinge gli individui a un ripiegamento nel ricordo privato e all’accettazione dei miti esistenti, più che alla ricerca di confronto e innovazione degli approcci storiografici.

Un dialogo argomentato

Contattato da OBC Transeuropa, il direttore della History Fest Husnija Kamberović all’inizio prova a smorzare. "A giudicare dalle reazioni, il festival è andato molto bene, a parte la vicenda di Banja Luka che non bisogna vivere come una tragedia". Ma risponde drasticamente alle accuse, sottolineando che "il concetto del Festival non si basa sulla presenza di certe rappresentazioni storiografiche nazionali, attorno a cui aleggiano le fantasie degli autori di quella lettera, bensì sulla partecipazione degli storici che riflettono criticamente sul passato e si mostrano pronti per un dialogo argomentato".

L’accusa di non avere mai invitato nessuno storico della Republika Srpska è, sostiene Kamberović, "del tutto falsa: sia quest’anno sia negli anni scorsi abbiamo invitato degli storici di Banja Luka, certo non come rappresentanti della Republika Srpska in quanto tale, ma come storici che presentano il proprio lavoro. Con loro abbiamo presentato anche pubblicazioni della stessa Facoltà di filosofia [da cui proviene la lettera, nda]". Kamberović ci elenca minuziosamente i tanti eventi in comune realizzati in questi anni con i colleghi di Banja Luka, come a rivendicare una spontanea e costante normalità di collaborazioni, poco visibile all’epoca, molto rumorosa ora che viene a mancare.

Sul rischio di segregazione etnica della ricerca storica, Kamberović ci spiega: "Nella lettera si sostiene che alcuni partecipanti presenteranno dei lavori che si occupano direttamente della storia del popolo serbo in Bosnia Erzegovina. Non è del tutto chiaro cosa si intende dire con questa formulazione, ma sembra intendere che della storia del popolo serbo possono occuparsi solo storici del popolo serbo. E qui prendiamo le distanze, perché vogliamo costruire un approccio critico ai problemi storici, non chiuderci nei propri spazi nazionali. Relegare la storia nei confini nazionali non porta allo sviluppo della storia in senso scientifico, ma all’affermazione del nazionalismo nella storiografia. In questo ci distanziamo".

Quanto al mancato invito dei rappresentanti della politica serba degli anni ’80-’90, Kamberović ci rivela un dettaglio inedito. "In verità ho cercato di invitare tutti i membri ancora in vita dell’ultima presidenza collettiva jugoslava. Ho parlato a lungo con tutti, anche con Borisav Jović [il membro serbo della presidenza collettiva jugoslava nel 1990-91; all’epoca un braccio destro di Slobodan Milošević, nda], con lui ci eravamo messi d’accordo perché partecipasse. Volevo un confronto aperto e forse nuovi elementi. Ma poi Borisav Jović ha deciso di non partecipare, e non voglio rivelare i motivi, lo farà solo lui se vorrà".

In conclusione, domandiamo a Kamberović se ci saranno conseguenze per il futuro del festival. "La mia posizione è sempre stata, e rimarrà anche in futuro, che la History Fest non può e non deve essere strumentalizzata politicamente. Il fatto che gli autori della lettera attribuiscano a noi la propria politicizzazione della storia è una tattica consolidata. Ma non c’è stata alcuna reazione della comunità accademica di Banja Luka a questa scandalosa lettera, e per me questo è motivo di delusione. Ma nessuno ci fermerà nel nostro intento di difendere la dignità della scienza storica, di coltivare l’idea di dialogo, nessuno ci farà acconsentire all’etnicizzazione e alla politicizzazione della storia".


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