I cavalli di Livno - foto gentilmente concessa da Mario Jozić

I cavalli di Livno - foto gentilmente concessa da Mario Jozić

Sono cavalli inselvatichiti, branchi ormai liberi sugli altopiani nei pressi di Livno. Nessuno se ne occupa, se non un gruppo di motociclisti

10/01/2020 -  Edvard Cucek

Il primo ricordo di loro risale ad un viaggio al mare, forse nel 1980. Da Banja Luka eravamo diretti verso l’isola di Hvar. Una scena spettacolare si svolgeva lungo i prati al fianco della strada che ci portava a Livno, dove ci stavamo recando per comprare il pane presto al mattino. Pazzo di gioia imploravo mio padre, alla guida della nostra vecchia Fiat 1300 berlina bianco avorio del 1966, di fermarsi o almeno di rallentare. Chiedevo da dove venissero tutti quei cavalli, così numerosi e belli sotto i timidi raggi del sole che trapelava dal pulviscolo sollevato dai loro zoccoli. Dove correvano? domandavo a mia madre facendo tutto il chiasso che un bambino incuriosito poteva produrre. Sembrava che i cavalli ci inseguissero correndo sempre al nostro fianco a qualche decina di metri dal ciglio della strada.

I cavalli di Livno - Mario Jozić

I cavalli di Livno - Mario Jozić

Mio padre non voleva fermarsi, però pronunciò una parola che mi restò impressa nella memoria. “Kalaša!”, disse con aria pensierosa.

Cavalli scappati in natura, liberi fino a diventare selvaggi. Cavalli indomabili.

Di fermarsi prima di giungere in città non se ne parlava nemmeno. Mio padre mi raccontò che se ci si fermava i cavalli circondavano la macchina perché sempre affamati e curiosi. Così la sosta rischiava di prolungarsi parecchio finché non si riusciva a liberarsi dal branco.

Non ho più incontrato in vita mia questi spettacolari animali. La parola pronunciata da mio padre invece non l'ho più scordata, anche perché viene utilizzata spesso in diversi contesti. Ad esempio nel caso di ragazzi troppo allegri, sregolati, pazzerelli. E da quel giorno sapevo da dove derivava questo termine, “raskalašen”, scatenato fino alla pazzia.

Anche se ora possiamo chiamarli cavalli selvaggi questi meravigliosi animali in realtà discendono da semplici cavalli da lavoro che, fino alla metà del secolo scorso, erano presenti in ogni realtà contadina. Il cavallo era utilizzato come mezzo di trasporto, per il lavoro nei campi e per altre esigenze che una famiglia prima dell'industrializzazione jugoslava poteva avere.

Figli dei camini spenti

Non sono stati invece l’industrializzazione, lo sviluppo economico e la possibilità di permettersi dei mezzi meccanici – come si potrebbe credere - a determinare il destino di questi animali. Me lo racconta Mario Jozić, amico di vecchia data, che proprio a Livno, terra d'origine dei suoi genitori, è tornato a vivere nel 1994.

“I primi cavalli diventati selvaggi non sono, come si pensa, cavalli di cui i contadini non avevano più bisogno e che quindi lasciavano liberi. Esisteva piuttosto la prassi, quando la fame bussava alle porte e non c'era da mangiare nemmeno per i figli, di liberare le bestie, sperando di non doverle macellare”, racconta Mario.

Questi cavalli “liberati”, se sopravvivevano, rimanevano sempre vicini alle stalle e alle case. Finché dai camini usciva il fumo e le loro orecchie captavano voci umane non si allontanavano. Quasi sempre, appena le circostanze lo permettevano, il padrone si riprendeva il cavallo se ancora in forze e capace di lavorare.

I primi cavalli divenuti selvaggi furono quelli che non avevano più un posto dove tornare. Figli orfani delle loro famiglie umane. Nella seconda metà degli anni Sessanta intere famiglie in cerca di un futuro migliore lasciarono la loro terra natia. Spesso si trasferivano sulla costa dalmata oppure in Germania, Nuova Zelanda, Australia e America del Nord abbandonando porte di casa serrate per sempre.

“I loro cavalli furono i primi a dover cercare una vita altrove. La trovarono proprio tra la montagna Cincar e gli altopiani di Krug. E sono di tutti e di nessuno. Peggio di così non poteva essere”, conclude il suo racconto Mario che ha con questi animali un rapporto molto intenso.

Da molti anni infatti assieme al gruppo di motociclisti "I lupi di Livno", di cui fa parte, si occupa della loro gestione. "Soprattutto in inverno e nei giorni di caldo torrido e della 'siccità alla bosniaca'", sottolinea lui.

Sembra che i cavalli riconoscano anche il rombo del motore del suo fuoristrada russo, un Lada Niva. Per contro gruppi di entusiasti turisti che si lanciano in improvvisati "safari" impiegano invece ore per incontrarli. Bisogna cercarli, i kalaša, lo si sa. Questi territori carsici dove vivono, tutta l’area del monte Krug e il suo altopiano alle porte di Livno, si estendono per più di un centinaio di chilometri quadrati. Ma Mario dice che, per un motivo a lui sconosciuto, non c'è una volta che non li riesca ad incontrare.

Bellezze difficili da gestire

Dopo un lungo racconto Mario conclude che di questo sensazionale fenomeno - unico da queste parti del vecchio continente ma raro anche nel resto dell’Europa - non si occupa formalmente nessuno. Per un certo periodo si era assunto l'onere della gestione dei branchi il comune di Livno, per poi rinunciare dopo le numerose cause intentate da automobilisti finiti fuori strada a causa dei cavalli.

L’associazione locale “Borova Glava”, che si occupa di ecologia e foreste, dà un proprio contributo soprattutto nei mesi invernali fornendo del sale in luoghi predisposti, cercando così di evitare che i cavalli vadano a cercare sale lungo la carreggiata dopo gli interventi di mezzi spargisale. Anche loro però non hanno mai potuto assumersi un ruolo formale. Nessuno sembra infatti intenzionato a registrarsi come ente che si occupa dei branchi di kalaša, li gestisce e promuove come offerta turistica ma si assume anche le responsabilità dei danni da loro causati.

I cavalli di Livno - Mario Jozić

Chi, seppur informalmente, continua ad occuparsene maggiormente ormai dal 2007 sono i "Lupi", un gruppo di motociclisti locali. Due realtà, la loro e quella dei cavalli selvaggi, che a prima vista sembrerebbero poco conciliabili, ma sul campo la collaborazione funziona. "È la libertà che ci rende così vicini. Noi 'cavalchiamo' in piena libertà e non possono quindi essere che nostri amici", ribadisce Mario.

Mi mostra poi una serie di strutture che hanno costruito autofinanziandosi: abbeveratoi e tettoie rudimentali dove i cavalli possono proteggersi in caso di grandine. Le mangiatoie coperte dove lasciare del fieno servono addirittura come rifugio per chi vuole visitare gli altopiani o per chi facendo la manutenzione delle strutture si ferma fino a tardi. I cavalli sono tanti. Mario si rifiuta di speculare sui numeri. Quello che ha sentito o letto in tutti questi anni su un “numero totale” gli dà molto fastidio. È la prima cosa che vogliono sapere i giornalisti. Conferma comunque che il numero non è inferiore alle 400 unità.

Mario è perplesso in merito alla nascita di una specie di turismo fotografico con  protagonisti principali i kalaša. È consapevole che sia positivo che questa risorsa del territorio venga valorizzata ma lo fa preoccupare vedere gruppi chiassosi di turisti aggirarsi per gli altopiani, intenti a fotografare il tutto senza un minimo di precauzioni, dando anche cibo assolutamente non adatto a questi animali. Non sono infatti iniziative promosse da un ente turistico ma promosse da qualche giovane entusiasta - anche con nobili idee e tanto amore per questa terra - ma con molti aspetti critici. I Kalaša sono comunque selvaggi e quindi si possono creare situazioni pericolose.

Piano piano giunge l’ora di salutarsi. Mario mi convince che i cavalli, qualche volta, ballano. Mi mostra anche una foto e ammette che la sua vita senza i suoi amici a quattro zampe sarebbe difficilmente pensabile. “Niente è più emozionante di quando un puledro, dopo aver appoggiato la testa sul cofano della mia vecchia Lada, come per fermarmi, infila suo muso dal finestrino cercando quello che gli spetta", racconta con gli occhi lucidi.

Per finire gli chiedo come è possibile che inserendo sui vari motori di ricerca il termine kalaša niente lo colleghi ai cavalli selvaggi. "Politica", chiosa lui. “A qualcuno, o a tanti - considerando che ci troviamo nella parte della Bosnia a larga maggioranza croato-bosniaca - questo nome che suona troppo asiatico e orientale non piace. Preferiscono chiamare i kalaša 'cavalli selvaggi di Livno' ed è così che si cerca di presentare il fenomeno al pubblico". "Tra l'altro - continua lui - i cavalli non sono mica solo della zona di Livno ma provengono anche da Kupres e da zone a sud della municipalità di Livno”. Nomina sunt odiosa, dall’antica Roma fino alla Bosnia odierna.


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