Nicole Corritore 18 gennaio 2017
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Dagli anni ’50 Trieste diventa per gli abitanti dell’allora Jugoslavia la meta prediletta per fare acquisti, soprattutto di blue jeans. Un documentario ne ripercorre la storia

Dalla fine degli anni ’50 la Piazza Ponterosso, nel centro di Trieste, diventa per tutti gli abitanti dell’allora Jugoslavia un mito, la meta prediletta per acquisti di ogni genere. Durante gli anni ’70 e ’80 l’oggetto che simboleggia questo mito è il blue jeans. Milioni di cittadini jugoslavi arrivavano a Trieste diverse volte l’anno, un flusso che si ferma con lo scoppio dei conflitti di dissoluzione della Federazione jugoslava.

Una storia che è il fulcro del documentario "Trieste, Jugoslavia" di Alessio Bozzer che verrà proiettato il prossimo 21 gennaio, in prima internazionale, nell'ambito degli appuntamenti fuori concorso del Trieste Film Festival.

Con uso di immagini di archivio degli anni '70, che mostrano Piazza Ponterosso pullulante di acquirenti venuti dall'est, viene ricostruita la storia del turismo da shopping che ogni sabato si riversava nei negozi e nelle piazze di Trieste alla ricerca di beni ambiti nella Jugoslavia di Tito.

Come si ricorda nel comunicato stampa della casa di produzione "Videoest", l’oggetto più ambito erano i “cowboika”, cioè i blue jeans. Nel 1978, anno miracoloso per la vendita di questo capo di abbigliamento, i traffici registrati in entrata dagli ufficiali sul confine sono 2.258.043, con lasciapassare (documento frontaliero), e 6.123.046 con passaporto. Annualmente vengono venduti 8 milioni di jeans, che filtrano clandestinamente sotto gli occhi dei doganieri attraverso la cortina di ferro, nel più clamoroso esempio di contrabbando “consentito” d’Europa. Secondo i documenti analizzati durante la lavorazione del documentario, la stima degli incassi delle bancarelle di piazza Libertà e Piazza Ponterosso è di 200 miliardi di lire annui, ma calcolando che molta merce veniva venduta “in nero” l'incasso ipotizzato è di circa 500 miliardi. Cifre strabilianti, se si paragonano ai 150/200 miliardi che arrivavano da tutte le attività del porto di Trieste.

Per la realizzazione del documentario sono state raccolte più di 50 interviste e nel film sono state inserite 40 voci, alcune più marginali, altre più importanti, tra le quali persone comuni, storici, artisti oggi famosi che però da bambini venivano a Ponterosso con la famiglia. Tra questi, ad esempio, l'attore croato Rade Šerbedžija e il musicista sarajevese Goran Bregović.

"La cosa che più mi ha coinvolto" ha dichiarato il regista Alessio Bozzer nel presentare il suo lavoro, "era di poter raccontare attraverso le singole storie, la 'grande storia'. La scomunica della Jugoslavia da parte dell’URSS, la nascita della federazione dei paesi “non allineati”, il boom economico italiano, la morte di Tito, la disgregazione della Jugoslavia."

In un momento, inoltre, in cui si ricomincia con forza a parlare di muri e di chiusure, secondo Bozzer è importante la testimonianza di chi quel confine lo sfidava regolarmente. "Se una lezione si può ricavare", ha concluso il regista, "è che i confini non servono ad altro se non ad alimentare la curiosità verso chi sta dall’altra parte. E che dall’apertura e dal contatto tra culture non può che nascere ricchezza."

Il documentario è stato realizzato con il contributo del Fondo Regionale per l'Audiovisivo del Friuli Venezia Giulia e il sostegno del Friuli Venezia Giulia Film Commission, in co-produzione con Miss Art e Al Jazeera Balkans e in collaborazione con Rai Cinema e HRT – Hrvatska Radio Televizija. Verrà proiettato sabato 21 gennaio presso la Sala Tripcovich, Largo Città di Santos, 1 a Trieste con inizio alle ore 16.00.