Tatjana Sekulić, docente di Sociologia dei fenomeni politici presso l'Università di Milano Bicocca, ne è convinta: "Il futuro non si costruisce con la violenza e la guerra". Per questo nutre forti speranze e fiducia nelle nuove generazioni, nel loro riconoscersi in una comunità che aspiri alla pace
(Originariamente pubblicato da Al Jazeera Balkans , il 25 settembre 2022)
Come commenta l’attuale quadro politico mondiale, soprattutto la guerra in Ucraina?
La recente letteratura sociologica e politologica considera il periodo apertosi con l’inizio del nuovo millennio come un’epoca di crisi multipla: dalla crisi finanziaria del 2008 all’invasione russa all’Ucraina, passando per la crisi migratoria del 2015 e quella pandemica iniziata alla fine del 2019. Questo incessante susseguirsi di crisi, causate da vari fattori, si contraddistingue per il carattere globale delle conseguenze provocate, conseguenze che ogni volta pesano sempre più sugli abitanti del Sud globale, sulla popolazione dei paesi poveri, ma anche sulle fasce impoverite dei paesi altamente sviluppati. Tutte queste crisi sono avvenute nel periodo successivo alla “guerra fredda”, all’implosione del sistema realsocialista e alla dissoluzione, più o meno conflittuale, degli stati socialisti federali, fenomeno, quest’ultimo, che ha sconvolto, eccome, anche i paesi ex jugoslavi.
Allo stesso tempo, la globalizzazione ha portato all’ascesa economica e geopolitica di alcuni paesi, come India e Cina, che si presentano come nuovi potenti attori sulla scena internazionale, ponendosi come rivali delle potenze occidentali. Anche i rapporti di forza tra queste ultime hanno subito un rimescolamento negli ultimi decenni. Il conflitto in Ucraina, scoppiato all’inizio del 2014, con l’invasione intrapresa dalla Russia lo scorso 24 febbraio ha subito un’accelerazione inaudita, assumendo una rilevanza planetaria. Così ci siamo trovati in una situazione del tutto nuova in cui l’approccio geopolitico di per sé, ossia un approccio basato sulla supremazia e sulla forza militare e diplomatica, non sarà capace di offrire una soluzione alla crisi e di portare ad una pace giusta e duratura nell’est Europa. Oggi la logica della guerra fredda, fondata sulla dottrina dell’equilibrio tra Ovest ed Est per quanto riguarda gli armamenti nucleari, non può portare nemmeno ad una pace precaria, né tanto meno può mantenerla, considerando i cambiamenti fondamentali nella struttura delle relazioni internazionali e l’interdipendenza planetaria tra individui, gruppi e stati.
Quali sono le caratteristiche peculiari della guerra in Ucraina? Cosa contraddistingue questa guerra rispetto agli altri conflitti in corso nel mondo?
La guerra in Ucraina presenta maggiori somiglianze con la guerra in Bosnia Erzegovina, ad un livello più alto, con l’evidente presenza della Russia nel ruolo di invasore, nonostante la retorica dell’”operazione speciale”. La mobilitazione nazionale parziale di 300mila riservisti [russi] segna l’inizio di una nuova fase del conflitto in Ucraina.
È difficile riassumere in poche parole ciò che contraddistingue la guerra in Ucraina rispetto agli altri conflitti attualmente in corso nel mondo, parliamo di Siria, Yemen, ma anche dei conflitti nel continente africano. Per noi, cittadini d’Europa, quello attualmente in corso in Ucraina è il secondo grande conflitto europeo dopo il 1945, il primo è rappresentato dalle guerre jugoslave. Percepiamo la guerra in Ucraina come qualcosa che ci è vicino, che condiziona direttamente le nostre vite e le nostre decisioni, rendendo ancora più tangibile il timore di un’ulteriore escalation dei conflitti. Questa dimensione soggettiva contribuisce a rafforzare l’interesse dimostrato per la guerra in Ucraina.
Dall’altro lato, il fatto che gran parte dei paesi europei sia direttamente legato all’Alleanza atlantica, dominata dagli Stati Uniti, rende questi paesi ancora più vicini all’epicentro del conflitto, dal punto di vista militare, politico ed etico. Tanto che la stessa minaccia di guerra nucleare diventa, fino ad un certo punto, un’ipotesi possibile. Qui sorge però un problema più profondo: le società occidentali in realtà non hanno mai fatto i conti con le conseguenze della decisione di lanciare bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. L’unica immagine che la maggior parte delle persone ha davanti agli occhi è quella di un enorme fungo che si espande e distrugge tutto sul suo cammino. In sostanza, non abbiamo mai fatto i conti, come società globale, con il potere di distruzione totale delle armi che abbiamo prodotto. Non importa più chi dispone di queste armi e chi è pronto a utilizzarle, il loro utilizzo comporta conseguenze globali. Eppure, si evita di parlare apertamente della questione. Chi si dimostrerà capace di dire che non utilizzerà le armi nucleari per scopi militari e di rispettare tale impegno, uscirà vincitore morale da questa situazione.
Ritiene che la guerra in Ucraina sia davvero uno scontro tra democrazia e autocrazia?
Vi è una certa tendenza a interpretare i conflitti come quello in Ucraina in un’ottica dicotomica, bianco o nero, spesso anche come una lotta tra il bene e il male. Io invece sono più propensa a interpretare l’invasione dell’Ucraina, come stato nazionale sovrano, da parte della Russia di Putin in termini assai tradizionali legati al nazionalismo e all’imperialismo nazionale.
Il sistema politico della Russia post-comunista di certo non può essere definito democrazia rappresentativa. Philippe C. Schmitter e Guillermo O’Donnell lo chiamerebbero democratura, o una forma simile di sistema politico in cui il potere autoritario di un individuo o di un gruppo di oligarchi si riproduce attraverso un sistema di finta democrazia imperniato su elezioni rigidamente controllate.
Il regime personalizzato del presidente della Russia sta assumendo sempre più i contorni di un potere simile a quello totalitario, dove chi governa si ritrova sempre più solo, e sempre più lontano dalla realtà che produce secondo le proprie convinzioni, sulla base delle quali poi prende decisioni politiche e militari serie e pericolose.
A ben guardare, parlando di questo modello di potere, non si è mai riusciti a dare una risposta esauriente all’interrogativo riguardante il modo in cui un leader totalitario crea la catena dell’obbedienza che coinvolge i suoi oligarchi, la polizia, l’esercito, i membri del partito e ampie fasce della popolazione. La società russa continua a opporre resistenza ad un regime di questo tipo, ed è qui che vedo una grande speranza: un simile regime difficilmente può essere rovesciato senza il coraggio civico e la disobbedienza militare.
Dall’altra parte, la storia della transizione democratica dell’Ucraina è molto particolare e turbolenta, lo è stata fin dall’inizio. Una storia da cui emerge una società profondamente polarizzata che non ha esitato a scendere in strada per protestare, rivendicando le proprie convinzione, filo-occidentali o filo-orientali che fossero, con episodi drammatici che hanno visto protagonisti alcuni politici di alto livello, finiti per essere avvelenati, imprigionati o costretti a fuggire senza volgersi indietro, come accaduto durante le proteste, protrattesi per mesi, nella piazza centrale di Kyiv, denominata Euromaidan. Allo stesso tempo però, l’Ucraina per anni ha funto da esempio di come sia possibile risolvere profondi conflitti politici e ideologici evitando un’escalation di violenza, fino a quando sulla scena non è comparso il nuovo volto politico di Vladimir Putin che abbiamo riconosciuto nel discorso sull’annessione della Crimea del 2014.
Secondo lei, come sarà il futuro dell’Unione europea? Come giudica la politica estera dell’UE nelle circostanze attuali?
Si tratta di un soggetto sui generis, una realtà sovranazionale e transnazionale complessa che non ha precedenti nella storia moderna. Non mi riferisco solo alle caratteristiche strutturali dell’Unione europea, ma anche alla sua evoluzione che di certo non è stata lineare. Parliamo di un processo complicato, spesso contraddittorio, basato sulla costante ricerca del consenso tra un numero sempre maggiore di attori, il cui orientamento politico si è dimostrato mutevole. Dopo ogni tornata elettorale negli stati membri, la posizione politica dell’UE subisce una trasformazione, le forze integrazioniste possono uscirne rafforzate o indebolite, mentre i nazionalismi e i sovranismi presenti in alcune società fungono da costante controforza rispetto ai tentativi di costruire le istituzioni transnazionali all’interno dell’Unione. Si tratta di processi ciclici che emergono con maggiore chiarezza dall’analisi della politica di allargamento che ormai da anni è in crisi.
Questa questione può essere osservata anche da una prospettiva incentrata sull’elaborazione della politica estera dell’UE in relazione a specifiche politiche degli stati membri. Capita spesso che le decisioni politiche su alcune questioni spinose, come il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, vengano lasciate agli stati membri. L’Unione non dispone di un proprio esercito e gli stati membri decidono autonomamente se aderire o meno all’Alleanza atlantica. Questa situazione certamente contribuisce all’indebolimento del potere sovrano dell’Europa di prendere decisioni su importanti questioni di politica estera a livello transnazionale, quindi non permette all’Europa di rafforzare la propria posizione nella nuova costellazione geopolitica. Alcuni intellettuali europei, come Jürgen Habermas e Jacques Derrida, avevano affrontato questa problematica ancora nel 2003, quando l’opinione pubblica europea era diventata protagonista di una massiccia protesta contro l’aggressione degli Stati Uniti all’Iraq. Quanto alla guerra in Ucraina, è legittimo affermare che i leader politici e le istituzioni dell’UE hanno dimostrato una compattezza inedita nel sostenere – politicamente, militarmente e moralmente – la difesa dell’Ucraina.
Come vede le relazioni tra i paesi dei Balcani occidentali?
Gli stati che oggi fanno parte della regione dei Balcani occidentali sono nati a seguito di una serie di conflitti (come nel caso dei paesi post-jugoslavi) o come frutto delle situazioni di forte conflittualità caratterizzate da episodi di violenza (questo è il caso dell’Albania). Oltre ad un’enorme tragedia in termini di vite umane e di danni sociali, materiali e ambientali, questi conflitti hanno lasciato dietro di sé tutta una serie di questioni irrisolte, o risolte in modo fazioso, riguardanti i crimini, le dispute territoriali, la sovranità, il carattere delle nuove realtà politiche. Quindi, lo spazio per migliorare le relazioni bilaterali e multilaterali c’è, quello che manca è la volontà politica e la saggezza degli attori locali, nonché una pressione politica concreta da parte dell’Unione europea. Manca una visione comune di un futuro caratterizzato dalla pace e dalla cooperazione reciproca all’interno – lo auspico – dell’Unione europea, una visione capace di fermare la fuga dei giovani da tutti i paesi in questione, compresa la Croazia, il più giovane membro dell’UE.
Quanto sono pericolose le politiche etnonazionaliste nei Balcani occidentali?
Le politiche etnonazionaliste sono presenti in quest’area sin dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Queste politiche hanno rallentato, se non addirittura completamente fermato qualsiasi processo di transizione democratica delle società post-jugoslave che sono rimaste ostaggio dei conflitti bellici – oppure ne sono uscite totalmente distrutte, come nel caso della Bosnia Erzegovina – le cui conseguenze si fanno ancora sentire. Queste politiche continuano ad ostacolare la costruzione di società basate su principi migliori e rendono impossibile il riconoscimento di interessi politici, sociali, valoriali e culturali che trascendano la mera appartenenza etnica. Per questo continuiamo a parlare di società imprigionate, in correlazione con l’uniformità del pensiero politico di chi si è impossessato del potere economico.
Quanto è importante un vero confronto con il passato nei Balcani?
È incredibilmente importante. Da un lato, l’elaborazione del lutto non solo negli spazi privati, ma anche, e soprattutto in quelli pubblici può aiutare le vittime a dare un nuovo senso al presente e al futuro, aiutando così anche le società a guardare avanti. Dall’altro lato, questo processo non può essere portato avanti senza l’elaborazione della colpa da parte di chi ha commesso crimini. Il tema della colpa non riguarda solo i processi penali davanti ai tribunali internazionali e nazionali, ma anche la necessità di sollevare pubblicamente la questione della colpa politica e morale, e di riconoscere tale colpa.
La Germania è forse l’unico paese che io conosca dove il processo di confronto con il passato nazista è diventato una caratteristica persistente della società. L’Italia invece non si è mai spinta così lontano nel fare i conti con il proprio passato fascista, e ne sta ancora pagando le conseguenze. Nella nostra regione manca ancora un’effettiva elaborazione della colpa da parte degli autori dei crimini, ma anche da parte di chi ha assistito a quanto accadeva senza dire nemmeno una parola. Da noi la Commissione per la verità e la giustizia – un meccanismo già implementato in Sudafrica – continua ad essere usurpata da chi dovrebbe rispondere davanti a questo organismo. Quindi, si tratta di un processo ancora aperto e doloroso.
Ritiene che l’intervento internazionale abbia dato i suoi frutti per quanto riguarda i conflitti etnici nei Balcani?
Le guerre jugoslave hanno messo a nudo molti punti deboli delle istituzioni internazionali per quanto riguarda la prevenzione e la risoluzione dei conflitti bellici. Questo vale soprattutto per le Nazioni Unite, ma anche per l’Unione europea che, non dimentichiamolo, per la prima volta intervenne nelle guerre jugoslave come una comunità composta da dodici paesi, ai quali poi solo nel 1995 si unirono altri tre paesi. Cercando una soluzione per porre fine al conflitto, si decise di applicare proprio il principio etnonazionale: la demarcazione territoriale secondo una logica etnica fu all’ordine del giorno sin dalla Conferenza di Lisbona tenutasi nel febbraio 1992. Il bombardamento della Serbia e del Montenegro del 1999, senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, costituì un precedente a cui fece seguito il bombardamento dell’Iraq. Oggi la voce dell’Onu quasi non di sente più, sia che si parli della guerra in Siria o dell’aggressione russa all’Ucraina.
In questo momento, quanto è realistica l’ipotesi di un’adesione accelerata dei Balcani occidentali all’UE?
La decisione di accogliere la candidatura dell’Ucraina per l’ingresso nell’UE ha certamente accelerato la presa di posizione definitiva riguardo all’apertura dei negoziati di adesione con la Macedonia del Nord e l’Albania. La Serbia e il Montenegro hanno già aperto numerosi capitoli dell’acquis comunitario, a questo punto molto dipenderà dalla misura in cui si cercherà di applicare il principio di condizionalità per quanto riguarda la soluzione definitiva dei problemi che ostacolano i buoni rapporti tra Serbia e Kosovo.
Quello della Bosnia Erzegovina è un caso particolarmente complesso. Resta da vedere se i risultati del voto [dello scorso 2 ottobre] contribuiranno a rafforzare la volontà politica e la prontezza di trovare un compromesso tra gli attori politici usciti vincitori dalle elezioni. Anche qui, così come in molti paesi occidentali, manca ancora una forte alternativa alle correnti conservatrici e di destra dominanti, sia che si tratti di correnti fondate sui principi etnonazionali, quelli neofascisti, sulle idee xenofobe e misogine o sul tentativo di limitare i diritti e le libertà di certi individui e gruppi. Bisogna impegnarsi con tenacia per costruire tali alternative politiche e per rafforzare le istituzioni e le garanzie dello stato di diritto.
Lei come vede il futuro, soprattutto per quanto riguarda i Balcani occidentali? Quali sono le sue aspettative?
Posso dirvi delle mie speranze e della mia fiducia nelle nuove generazioni, nei giovani che non sono appesantiti dalle varie narrazioni del passato jugoslavo e comunista e si riconoscono come cittadini d’Europa, intesa come una comunità che aspira alla pace, alla giustizia e alla prosperità. Tale visione non impedisce ai giovani di far coesistere la loro identità civica con un’identità etnonazionale, religiosa, culturale, di genere, di classe e qualsiasi altra forma di identità collettiva. Dico sempre ai miei studenti di tenere bene a mente uno dei motivi della nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio: mettere l’industria bellica sotto il controllo di un’autorità comune, sovranazionale, per evitare nuove guerre sul suolo europeo. Il futuro non si costruisce con la violenza e la guerra.
Tatjana Sekulić è professoressa associata di Sociologia dei fenomeni politici presso l'Università di Milano Bicocca. Si è laureata nel 1986 presso il Dipartimento di Filosofia e Sociologia della Facoltà di Filosofia di Sarajevo, per poi conseguire, nel 1999, un dottorato di ricerca presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano. Ha insegnato sociologia della cultura e dell'educazione, sociologia politica dell'Europa e storia dell'integrazione europea. Il suo interesse di ricerca è focalizzato sull'integrazione europea osservata in un'ottica policentrica, le nuove guerre e i conflitti contemporanei, lo studio dei crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidi; l'analisi della transizione democratica dei regimi post-totalitari e delle nuove forme di totalitarismo, la cultura politica e la trasformazione strutturale e istituzionale dell'istruzione superiore.
Questo materiale è pubblicato nel contesto del progetto "Bosnia Erzegovina, la costituzione e l'integrazione europea. Una piattaforma accademica per discutere le opzioni” sostenuto dalla Central European Initiative (CEI). La CEI non è in alcun modo responsabile delle informazioni o dei punti di vista espressi nel quadro del progetto. La responsabilità sui contenuti è unicamente di OBC Transeuropa. Vai alla pagina dedicata al progetto
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