Per la prima volta nella sua storia la nazionale albanese di calcio disputa la fase finale di un campionato europeo. Una novità sportiva dal grande valore simbolico, ma non priva delle contraddizioni del paese

13/06/2016 -  Nicola Pedrazzi

Dopo l’inatteso secondo posto nel girone di qualificazione (alle spalle del Portogallo e davanti alle più quotate Danimarca e Serbia), l’Albania è, per tutti gli osservatori internazionali, l’outsider più interessante del campionato europeo di Francia. L’immeritata sconfitta maturata nell’esordio con la Svizzera non ha cambiato questa percezione; alla luce del gioco espresso è invece chiaro a tutti che nel girone A non ci sono squadre materasso: con gli aquilotti dovrà giocarsela sia la Francia padrona di casa (15 giugno, ore 21, nella bolgia del Vélodrome di Marsiglia) che la più esperta Romania (19 giugno, ore 21, al Parc Olympique di Lione).

L’arrivo in nord Europa è stato discreto. La nazionale albanese è atterrata in Francia il 6 giugno scorso, all’aeroporto di Perros Guirec, un piccolo paesino della Bretagna che conta meno di 8.000 abitanti. Per ordine del sindaco, all’esterno di ogni negozio l’aquila rosso-nera ha affiancato il tricolore francese. Cartelli, simpatia ed entusiasmo locale hanno accompagnato la squadra al ritiro nella vicina Lennion, dieci chilometri più a sud. È nel verde del silenzio bretone che mister De Biasi, l’italiano più amato d’Albania, sta lavorando per trasmettere calma e concentrazione al suo gruppo scalpitante.

I 27.000 biglietti che l’Uefa ha messo a disposizione dei tifosi albanesi sono esauriti da febbraio, a fronte del doppio delle richieste pervenute. Sabato scorso, a Lens, c’erano 6.000 tifosi rosso-neri: un quarto di quelli che avrebbero voluto comprare il biglietto. Per la partita con la Francia sono attesi più di 10.000 supporter albanesi, lo stesso a Lione il 19 giugno. Nel frattempo, a Tirana, piazza Madre Teresa ospita un megaschermo che fa invidia all’allestimento che precedette la visita di papa Francesco.

«Non c’è squadra, non c’è paese, non c’è popolo che attendesse più di noi albanesi questo campionato europeo». A dirmelo è Ani, un mio vecchio compagno di calcetto. Ho vissuto nel suo paese d’origine e so che ha ragione. Per almeno due motivi.

Quando la nazionale è nazionalismo

Se nel calcio gli azzurri rappresentano l’Italia, i bleus la Francia e le furie rosse la Spagna, la nazionale albanese rappresenta anzitutto gli albanesi. Questo per motivi antichi e recenti: nel 1912 lo Stato albanese nacque con confini che non coincidevano con la carta etno-linguistica del tempo; ottanta anni dopo, al termine della Guerra Fredda, la fuga dalla povertà privò il piccolo stato balcanico di almeno due generazioni di cittadini (numeri alla mano, il processo d’emigrazione perdura tuttora). Oggi, al termine delle tragedie del Novecento, dei 10.5 milioni di albanesi etnici nel mondo 7.5 vivono fuori dall’Albania: quasi 2 milioni in Kosovo, più di 1 milione in Turchia e Grecia, mezzo milione in Macedonia, Germania e Italia. Ecco perché quella rosso-nera è la maglia di un popolo più che di un paese solo.

Non è un caso che il confronto con la Svizzera fosse il più atteso del torneo: perché in entrambe le selezioni giocano kosovari di seconda generazione, diversi non per storia ma per scelta di cittadinanza. Degno della poesia d’un regista lo scontro incarnato dai fratelli Xhaka: entrambi i calciatori sono nati a Basilea da genitori kosovari emigrati durante il conflitto degli anni Novanta; ma Taulant, naturalizzato albanese nel 2014, ha scelto di indossare la maglia dell’Albania; il più piccolo, Granit, promettente centrocampista dell’Arsenal, corre invece per la Svizzera, il paese in cui è nato e cresciuto.

Per la maggior parte dei calciatori kosovari, soprattutto per quelli nati e cresciuti fuori dal Kosovo, quella albanese è la maglia delle origini, della famiglia, della nazione, per usare una parola pericolosa ma più appropriata: dell’etnia. Berisha e Cana – portiere e capitano, architravi della squadra albanese – sono nati in Kosovo; Veseli, Ajeti, Basha, Gashi e Abrashi sono tutti kosovari di seconda generazione, nati in Svizzera e solo successivamente naturalizzati albanesi. Certo i casi sono molteplici, e altri hanno seguito il percorso inverso: dal luogo di nascita al paese d’arrivo. Ad esempio Xherdan Shaqiri, potente centrocampista ex Inter, è nato a Gnjilane, in Kosovo, ma ha optato per la cittadinanza svizzera: una scelta che nei bar di Tirana viene spesso tacciata di «tradimento». In realtà, il giorno in cui venisse ammessa l’iscrizione della nazionale kosovara (le condizioni politiche ancora non consentono alla FIFA di procedere in tal senso), le opzioni sportive o identitarie dei nuovi talenti kosovari sarebbero addirittura tre, e ricadrebbero tanto sugli spogliatoi albanesi quanto su quelli svizzeri – si tenga presente che a guidare le naturalizzazioni non sono tanto i sentimenti del sangue e del suolo, ma le legittime prospettive di carriera sportiva dei singoli atleti!

A confermarci la complessità del rapporto tra calcio e nazione albanese è lo slogan ufficiale della spedizione rosso-nera in Francia: «Feel so good to be Albanian», un esplicito riferimento alla «gente» piuttosto che al paese. Le alternative messe ai voti erano due, ma sempre dello stesso tenore: «You, Albania, give me honor», una frase mutuata dal motto risorgimentale dello Stato albanese («Tu Albania mi dai l’onore, mi dai il nome di albanese») e «Fly you Eagle», un riferimento pop all’aquila a due teste che campeggia sulla bandiera nazionale. Da un punto di vista storico, l’aquila bicipite è un simbolo araldico pre-ottomano assai diffuso in tutto il mondo bizantino, ma in virtù della radice shqip («aquila») incastonata nel nome del paese (Shqipëria, ovvero, stando alla vulgata popolare, «terra delle aquile») in Albania la bandiera suona come partorita dal nome. La piacevole ricorrenza di un volatile nobile e guerriero basta a conferire forza di verità alla simbologia nazionalista, un sentimento che in quanto tale non gradisce d’essere indagato con gli strumenti imparziali della linguistica e dell’araldica.

Un procedimento simile, totalmente astorico, vale anche per l’eroe nazionale Skanderbeg: un altro simbolo fatto proprio dalla nazionale di calcio. Dopo l’amichevole con il Qatar vinta per 3 reti a 1, i ragazzi di De Biasi, che prima di raggiungere la Francia si sono allenati in Austria, si sono recati in pellegrinaggio al Kunthistorisches di Vienna, il museo che conserva l’elmo e la spada dell’eroe invitto. Un gesto comprensibile solamente all’interno della mitologia nazionalista che sostanzia il tifo albanese: per una squadra di popolo, che a differenza della madrepatria non conosce confini.

Quando lo sport è riscatto di un paese

Nell’immaginario degli albanesi tutti, d’Albania e del mondo, il calcio d’inizio in Francia ha segnato un punto di non ritorno. Ma ad assaporare il gusto della rivincita, non va mai dimenticato, sono anzitutto gli albanesi d’Albania: persone che convivono con il difficile percorso del loro paese, e che hanno più ragione degli altri di festeggiarne i successi. L’11 ottobre scorso, quando tre reti gonfiate nella lontana Armenia regalarono alla selezione albanese la sua prima qualificazione internazionale, la festa di piazza esplosa a Tirana e l’accoglienza istituzionale riservata ai giocatori in patria dimostrarono che quel risultato trascendeva l’evento sportivo. Agli occhi di chi in Albania ci vive, De Biasi e i suoi ragazzi incarnano una rivoluzione copernicana: dopo decenni d’isolamento e di sogni televisivi, dopo una transizione confusa e avara di soddisfazioni collettive, quest’anno, per la prima volta, a Tirana non si adotta la Germania, non si simpatizza l’Italia, non si delega a ricchi paesi terzi la propria passione calcistica: si montano i megaschermi per il proprio paese. È in questo tipo d’Albania – a un paese che ritrova la consapevolezza del suo potenziale, il piacere di non essere periferia – che i giovani albanesi potranno scegliere di vivere e di sperare: il futuro è uno stato funzionante, non il mito del sangue.

È difficile sentirlo o leggerlo in Albania, ma l’omogeneità etnica dei giocatori non è un dato rilevante, né dovrebbe essere esaltata con orgoglio: in un mondo globale, stati multietnici esprimono «nazionali multietniche», nei paesi più avanzati come la Francia questo è già successo. Il dato che invece conta, sia da un punto di vista economico che della soddisfazione sportiva, è quanti atleti di livello crescono in ogni paese. Quanti talenti potranno migliorarsi, e non soltanto nascere, su un campetto del Paese delle Aquile? È questa la domanda, infrastrutturale, di prospettiva, e dunque politica, che l’Albania del calcio deve porsi per far sì che Euro2016 non rimanga un ricordo isolato, ma sia soltanto l’inizio.

Al momento, tra i 23 convocati di De Biasi, solamente 2 giocatori, il secondo e il terzo portiere, giocano nel campionato albanese. Tutti gli altri sono cresciuti in club italiani, svizzeri, francesi, greci, tedeschi… Eccolo il limite della «sorpresa albanese», la tendenza ancora da invertire, lavorando a partire dalle scuole calcio loro sì «autoctone». In questo senso, l’annuncio del governo Rama sulla costruzione di un novello «Juventus-Stadium» sulle rovine delle strutture fasciste ancora in utilizzo a Tirana è soltanto una buona notizia, ma non sarà una strategia sufficiente.

All’Albania del futuro non basteranno giocatori cresciuti in campionati stranieri, non basterà un super stadio dove fargli vestire tre volte l’anno una maglia etnica. Ai cittadini albanesi, kosovari e a tutti gli abitanti di paesi con una cultura calcistica superiore al potenziale espresso serviranno campetti, polisportive e aree verdi dove poter coltivare, con quotidiana soddisfazione, se stessi, il proprio domani.


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