Imprenditori, accademici, attori della cooperazione e rappresentanti delle istituzioni locali confrontano reciproche esperienze e aspettative intorno alla stessa domanda: internazionalizzazione e cooperazione sono due mondi inconciliabili?

09/10/2006 -  Luca Lietti

A Udine lo scorso 5 ottobre al convegno promosso e organizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia - "Cooperazione e internazionalizzazione: incompatibilità, sinergie, sintesi" - è iniziato un dibattito che da qualche tempo aleggiava tra i corridoi delle amministrazioni pubbliche, negli uffici delle camere di commercio e delle decine di ONG sparse in tutta la penisola: possono cooperazione allo sviluppo e internazionalizzazione del sistema imprenditoriale fare parte di una stessa strategia politica e programmatica di un territorio che si affaccia su contesti internazionali?

Oggi la risposta non è ancora alla portata né della letteratura di ricerca né degli attori che effettivamente operano nei due contesti. Ma non è questo il punto. La notizia è che finalmente due mondi distanti, in tante occasioni anche antagonisti, spesso autoreferenziali, hanno aperto un confronto sulle tematiche dello sviluppo sostenibile, sul valore del territorio, sulla responsabilità sociale, sui concetti di competitività e cooperazione.

Il momento è sicuramente maturo, il contesto nazionale e internazionale suggerisce in più modi il confronto. Da una parte la cooperazione allo sviluppo sta subendo una trasformazione decisiva nel nostro paese e in Europa. Il ruolo delle associazioni non governative è profondamente cambiato: il loro peso nel tessuto sociale è mutato, le figure professionali che le compongono non sono più le stesse di 5-10 anni fa, le loro fonti finanziarie si sono diversificate. Intanto la cooperazione decentrata, quella sostenuta dalle amministrazioni locali, si trova di fronte a programmi europei di nuova generazione - il nuovo strumento di gestione delle politiche di vicinato (ENPI) e quello ritagliato per la cooperazione con i paesi in via di accesso all'Unione (IPA) - e un quadro legislativo nazionale tutto da reinventare.

Nell'altro campo, quello delle imprese, l'incertezza è accompagnata da una reale minaccia. La vertiginosa ascesa sui mercati internazionali della Cindia - neologismo che nasce dalla fusione di Cina e India, campioni di performance industriali degli ultimi anni - getta lunghe ombre sul futuro industriale del sistema produttivo italiano, dei suoi distretti e sulle 4000 medie imprese manifatturiere, individuate da più parti durante questo convegno e in altri ambiti, come spina dorsale della ripresa economica del nostro paese.

Il primo passo verso l'apertura di questo dialogo non arriva direttamente dal mondo degli imprenditori, ma dall'eccellenza della ricerca universitaria in campo aziendale - tra i nomi autorevoli: Università Bocconi di Milano, Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, Università di Padova, Istituto per gli Affari Internazionali e ISPI. Le ricerche, talvolta congiunte, mostrano dei dati empirici che convergono su conclusioni simili: estrema polverizzazione delle esperienze di internazionalizzazione, scarso coordinamento intra e inter-regionale, estrema volatilità della maggior parte degli investimenti diretti esteri, diretta ricaduta del basso grado di interrelazione con gli attori del territorio, soprattutto istituzionali.

La novità, che il sistema industriale italiano sta iniziando a metabolizzare, è il ribaltamento della natura stessa dell'internazionalizzazione: essa non è un fine ma un processo, un mezzo necessario per sopravvivere alla complessità del mercato globalizzato. Questo ha conseguenze importanti: ammette implicitamente che esistono modalità diverse di fare internazionalizzazione. I dati confermano anche un'altra svolta: la fine dei vantaggi della delocalizzazione della catena produttiva, o di parte di essa. Questa nel medio termine si rivela per molti motivi - non ultimo quello del progressivo adeguamento salariale - non economicamente conveniente e sostenibile, rientrando nella categoria delle internazionalizzazioni inefficienti.

E' su questo punto di discriminazione tra le modalità di internazionalizzazione che si innesta l'apertura del dialogo con la cooperazione allo sviluppo. Interessi, obiettivi e motivazioni sono naturalmente diversi tra mondo imprenditoriale e solidaristico, e devono rimanere tali, pena il rischio di perdita di identità degli uni e degli altri.

Ma qui, secondo quanto suggerito da più parti durante il convegno, entra in gioco l'istituzione locale a cui imprese e ong guardano come punto di sintesi strategica e politica: in una fase matura di gestione dell'amministrazione locale l'ente deve avere una dimensione internazionale per ogni politica regionale (immigrazione, ambiente, infrastrutture, economia, solidarietà, cultura, istruzione, ecc..). E' compito non facile dell'ente declinare il co-sviluppo nei processi di internazionalizazione delle imprese del proprio territorio.

Gli strumenti, suggeriscono più parti, esistono già: i partenariati. Costituiscono un'alchimia istituzionale che fonde l'agire locale con il nazionale, favorisce la reciprocità degli interessi progettuali e apre canali di integrazione economica e di scambio culturale. Uno strumento che necessita di una visione politica: un investimento nella costruzione di mutue utilità tra le diverse culture all'interno del proprio territorio, esprimendo di volta in volta priorità di medio termine condivise pur partendo dalla complessità degli interessi specifici.

Difficile dire come procederà il confronto, molte posizioni sembrano ancora distanti e i particolarismi non rendono facile questo dialogo, ma almeno sembra essere stata messa da parte la sordità reciproca.


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