Se la Croazia si mette di traverso sull’adesione all’UE del Montenegro
Dopo aver lungamente appoggiato l’ingresso di Podgorica in UE, nell’ultimo anno Zagabria ha posto non pochi ostacoli al percorso di avviciamento all’Unione del vicino balcanico. Le questioni aperte sono risolvibili, ma i problemi potrebbero essere più profondi di quanto non sembri in superficie

Bandiera montegrina e croata © danielo/Shutterstock
Bandiera montegrina e croata © danielo/Shutterstock
Il Montenegro, si ripete con insistenza tanto a Podgorica quanto a Bruxelles, è il frontrunner tra i Paesi candidati all’adesione all’UE. Una conclusione messa nero su bianco anche dall’esecutivo comunitario nell’ultimo rapporto sull’allargamento, pubblicato a inizio novembre, e comprovata dal numero di capitoli negoziali chiusi provvisoriamente dal piccolo Stato balcanico: ben 12 su un totale di 33, più di ogni altro candidato.
Gli ultimi cinque – capitolo 3 (Diritto di stabilimento delle società e libera prestazione dei servizi), capitolo 4 (Libera circolazione dei capitali), capitolo 6 (Diritto societario), capitolo 11 (Agricoltura e sviluppo rurale) e capitolo 13 (Pesca) – sono stati formalmente chiusi lo scorso 16 dicembre, in occasione della 24esima conferenza UE-Montenegro.
L’obiettivo dichiarato dal primo ministro Milojko Spajić è chiudere la parte tecnica dei negoziati entro la fine del 2026 per diventare il 28esimo Stato membro entro il 2028. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha addirittura suggerito di iniziare a redigere il trattato di adesione, offrendo la benedizione politica del più influente tra i Ventisette. Al di là della retorica e della matematica, tuttavia, il prossimo tratto di strada potrebbe rivelarsi in salita per il Paese adriatico.
Da un lato, non sarà scontato per Podgorica rispettare quest’ambiziosa tabella di marcia. Macinare riforme strutturali è complesso per definizione, e il sistema politico-istituzionale si sta dimostrando più instabile del previsto. Un esempio emblematico riguarda la Corte costituzionale, rimasta senza quorum nel settembre 2022.
Ad oggi funziona ancora ad operatività ridotta, con due posti ancora vacanti sui sette totali perché la Skupština, il Parlamento monocamerale montenegrino, non riesce ad accordarsi sui nomi (andranno peraltro sostituiti altri tre giudici attualmente in carica, i cui mandati sono scaduti o prossimi alla scadenza).
Dall’altro lato, non vanno sottovalutati gli ostacoli che stanno emergendo all’esterno dei confini nazionali. Nel corso dell’ultimo anno, a mettere i bastoni tra le ruote montenegrine è stata una cancelleria teoricamente insospettabile, avendo sempre sostenuto strenuamente l’ingresso del vicino balcanico nel club a dodici stelle, vale a dire quella croata. Con una mossa inaspettata, nel dicembre 2024 Zagabria ha bloccato la chiusura del capitolo 31 (Politica estera, di difesa e di sicurezza).
Il governo di Andrej Plenković ha motivato il brusco stop come una risposta all’adozione, da parte dell’Aula montenegrina, di una risoluzione che condannava il “genocidio” del campo di prigionia di Jasenovac, ai tempi del cosiddetto Stato indipendente di Croazia (il regime Ustaša, fantoccio dei nazifascisti tra il 1941 e il 1945).
A sua volta, la Skupština aveva giustificato quella risoluzione come un bilanciamento rispetto alla condanna del genocidio di Srebrenica (perpetrato dai serbi nel 1995) votata dall’Assemblea generale dell’ONU.
La Croazia punta i piedi
Ma non si era trattato di un fulmine a ciel sereno. Il mese precedente, Zagabria aveva presentato un elenco di “questioni aperte” che, sostiene, andranno appianate per permettere al Montenegro di disinnescare il veto croato sul capitolo 31. La lista comprende svariati punti, ancorati nella storia regionale dalla Seconda guerra mondiale alla sanguinosa dissoluzione della Repubblica socialista federale di Jugoslavia (SFRJ).
Fin dall’inizio di quest’anno si è intensificato il dialogo bilaterale tra Zagabria e Podgorica per sbloccare l’impasse. Negli ultimi mesi, almeno stando alle dichiarazioni dei rispettivi vertici istituzionali, si sarebbero registrati progressi su alcuni dei nodi più intricati, ma un’intesa definitiva sembra ancora lontana.
Ad esempio, sarebbe vicino l’accordo sulle compensazioni che il Montenegro dovrebbe versare alle famiglie dei croati internati tra il 1991 e il 1992 nel campo di prigionia di Morinj, sulla baia di Kotor. Indiscrezioni circolate sulla stampa locale parlano di una cifra compresa tra i 15 e i 17 milioni di euro (che si aggiungono agli oltre 1,4 milioni versati in passato) e dell’impegno assunto da Podgorica a mantenere una targa che commemora l’aggressione delle truppe serbo-montenegrine contro la Croazia, con attacchi partiti proprio da Morinj (incluso l’assedio di Dubrovnik).
In quell’area s’intrecciano anche altre questioni. Una, in via di risoluzione, riguarda il nome della piscina comunale, dedicata nel 2021 all’ex pallanuotista Zoran Gopčević. Che però – contesta la Croazia – fu comandante proprio al campo di Morinj. Ora, in base agli accordi tra i due governi, la struttura dovrebbe cambiare nuovamente nome.
Conclusa anche la donazione del centro culturale croato “Josip Marković”, a Tivat, passato definitivamente nelle mani di Zagabria a giugno. A settembre, invece, il governo di Plenković ha avanzato un’ulteriore richiesta: la restituzione di proprietà terriere che sarebbero state sottratte alla comunità croata locale tramite operazioni catastali opache.
Tra le altre questioni rimaste in sospeso, c’è quella del veliero Jadran (“Mar Adriatico”), fiore all’occhiello della marina jugoslava. Alla vigilia dell’inizio delle ostilità nella SFRJ, fu trasferito dal porto croato di Spalato a Tivat per delle riparazioni: lì rimase anche al termine della guerra, e da allora Zagabria non ha mai smesso di rivendicarlo. Rifacendosi a un accordo del 2001 sulla spartizione delle proprietà jugoslave, tuttavia, Podgorica sostiene di aver diritto alla nave.
Lo scorso agosto, il ministero della Difesa montenegrino ha realizzato delle nuove mostrine per i marinai dello Jadran, ritenute offensive dalla Croazia. Protestando per l’ennesima volta, Zagabria ha chiesto un risarcimento di oltre due miliardi di dollari relative alla “successione” di proprietà della SFRJ di cui Podgorica si sarebbe appropriata indebitamente.
Senza soluzione rimane per il momento anche la questione del confine marittimo intorno alla penisola di Prevlaka, un lembo di terra croata all’imboccatura della baia di Kotor. L’accordo che ne sanciva la demarcazione risale al 2002, quattro anni prima dell’indipendenza del Montenegro dalla Serbia, e dunque qualcuno a Podgorica continua a disputarne la validità.
Il risveglio dei nazionalismi
In realtà, secondo diversi osservatori dietro a queste rivendicazioni si nasconderebbero attriti più profondi. Piuttosto, i veri timori croati sarebbero legati alla percepita “deriva” filo-serba del Montenegro, accentuatasi con le tornate elettorali del 2020 e 2023.
Sulla scia delle grandi proteste (litije) contro la tentata confisca dei beni storici della Chiesa ortodossa serba, il partito filo-occidentale DPS di Milo Đukanović, travolto dagli scandali, ha perso il potere per la prima volta in tre decenni. Oggi i partiti filo-serbi (soprattutto l’NSD di Andrija Mandić, presidente della Skupština, e il DNP di Milan Knežević), tradizionalmente più freddi rispetto alla collocazione euro-atlantica del Paese e più simpatetici con Belgrado e Mosca, sono indispensabili per la tenuta della coalizione di governo, la cui quota di di maggioranza è del PES di Spajić.
L’esecutivo conservatore di Zagabria – dal quale l’anno scorso l’HDZ di Plenković ha escluso per la prima volta dal 2007 il partito della minoranza serba (SDSS), alleandosi con la destra nazionalista (DP) – vede di cattivo occhio la nuova centralità di NSD e DNP, dipinti come agenti dell’irredentismo serbo e, pertanto, naturalmente ostili agli interessi croati. Fino a dichiarare tre parlamentari montenegrini (tra cui Mandić) personae non gratae dopo la risoluzione su Jasenovac.
Del resto, la Croazia è agitata da un’ondata di sentimento anti-serbo, deflagrato nelle scorse settimane in una serie di attacchi di estremisti che inneggiano apertamente al regime Ustaša.
L’aumento della violenza politica, dell’intolleranza e del revisionismo storico di matrice fascista (anche da parte di esponenti governativi) ha innescato un’ampia mobilitazione della società civile, ma il futuro delle relazioni tra Zagabria e Podgorica potrebbe risentire delle opposte tensioni nazionaliste che stanno riaffiorando in entrambi i Paesi, ad appena 30 anni dalla catastrofe delle guerre jugoslave.
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