Il villaggio bosniaco, simbolo della devastazione e dell’oblio
Il villaggio, un tempo potente motore dello sviluppo della Bosnia Erzegovina socialista, si sta trasformando in un arcaico ricordo di un’epoca felice. Le oasi rurali stanno scomparendo, complice il disboscamento illegale e l’inquinamento delle sorgenti di montagna

Monastero francescano a Kraljeva Sutjeska – Foto S. Mlađenović Stević
Monastero francescano a Kraljeva Sutjeska - Foto S. Mlađenović Stević
Siamo a Jusići, un villaggio sperduto ai piedi del monte Zvijezda, nella Bosnia centrale, dove incontriamo gli ultimi custodi dei bei tempi andati e testimoni della distruzione moderna.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino agli anni Settanta, l’agricoltura ha svolto un ruolo di primo piano nello sviluppo della Bosnia Erzegovina. La pastorizia, la frutticoltura e l’agricoltura erano le attività dominanti nei villaggi bosniaci, contribuendo in modo significativo, attraverso grandi aziende agricole, allo sviluppo postbellico della Jugoslavia.
Gli abitanti dei villaggi, oltre a lavorare nell’industria e nelle città, guadagnavano un reddito supplementare con le loro aziende agricole e i prodotti delle campagne bosniaco-erzegovesi, come tabacco di qualità, formaggi, vino, frutta e prodotti a base di carne, si potevano trovare sugli scaffali dei negozi di tutto il mondo.
Oggi, in Bosnia Erzegovina le aree rurali sono abbandonate a se stesse. Le oasi contadine, un tempo fertili e impregnate di vita, stanno praticamente scomparendo. Alcuni villaggi si sono svuotati durante la guerra, altri invece, travolti dalla povertà diffusa degli ultimi decenni, stanno lentamente scomparendo, sotto il peso degli effetti devastanti di uno sfruttamento sfrenato delle risorse naturali.
I dati dell’ultimo censimento (2013) rivelano le conseguenze di questa tendenza: circa cinquecento villaggi sono completamente abbandonati, 1.486 hanno meno di dieci abitanti e in 804 non ci sono bambini.
Sono rimasti solo gli anziani ad abitare le grandi case, costruite per intere famiglie, oggi disperse nei centri urbani della BiH e all’estero.

Ingresso principale per Bobovac – Foto S. Mlađenović Stević
Leggende su Bobovac e la convivenza a Kraljeva Sutjeska
“Addio, mia gloriosa Bosnia, custode dei miei tre tesori: il grano di Liješnica, il pesce di Bukovica e l’acqua di Radakovica, che non si trovano più da nessun’altra parte del mondo”, sono le famose parole pronunciate da Katarina, l’ultima regina della Bosnia, prima di lasciare definitivamente la città fortificata di Bobovac.
Secondo una leggenda locale, il torrente Radakovica, da cui la regina si è separata malvolentieri, ha preso il nome dal duca Radoš, comandante militare della città reale di Bobovac. La storia narra che Radoš avesse consegnato le chiavi della città ai conquistatori ottomani senza combattere, i quali poi lo gettarono dal monte di Bobovac ai cui piedi sorge il fiume Radakovica, dicendogli: “Se hai tradito i tuoi, tradirai anche noi!”.
Le leggende testimoniano anche della gentilezza della popolazione locale. Una delle storie dell’epoca moderna riguarda un ricco contadino che, durante un viaggio, decise di compiere l’Ḥajj, il sacro dovere di ogni musulmano benestante. Avendo poi cambiato idea, invece del pellegrinaggio, fece un hajr (azione buona e utile) per i suoi connazionali, costruendo due ponti su piccoli fiumi lungo un sentiero forestale, tracciando il percorso più breve per collegare i villaggi ai piedi del monte Zvijezda a Kraljeva Sutjeska. Il contadino benestante, è interessante notarlo, contribuì attivamente alla costruzione dei ponti, portando il materiale sul suo cavallo e affrontando coraggiosamente i ruscelli di montagna.
Il palazzo reale, simbolo del potere militare e politico della Bosnia medievale, sovrasta ancora i pittoreschi villaggi ai piedi delle catene montuose della Bosnia centrale. Circa dieci chilometri a sud, la meravigliosa località di Kraljeva Sutjeska custodisce il silenzio e la convivenza dei tempi passati. Qui si trova uno dei più antichi monasteri francescani della Bosnia Erzegovina, che conserva opere d’arte e ricchi archivi di testimonianze scritte e visive della vita di questa regione, con la sua natura magica, la quiete e la solidità delle mura fortificate che attraggono numerosi visitatori dalla BiH e dall’estero.
A poche centinaia di metri di distanza, a metà del XV secolo, fu costruita una delle prime moschee in Bosnia, a testimonianza della convivenza e della cooperazione interreligiosa in queste terre. Per centinaia di anni, persone di diverse tradizioni religiose hanno vissuto qui in pace e rispetto reciproco, fino allo scoppio della guerra.
Ieri e oggi
Chi è rimasto nei villaggi ricorda ancora i racconti del passato. Seduti ad una tavola imbandita, con kajmak, formaggio e pane fatto in casa, fragole e insalata dal loro orto, Zineta e Omer Juso del villaggio di Jusići rievocano la vita di una volta, prima che i fiumi locali venissero contaminati da metalli provenienti dalle miniere, le foreste distrutte dal disboscamento illegale e i terreni fertili trasformati in discariche minerarie.
“Qui abbiamo tutto: fagioli, patate, frutta, latte… Ora teniamo solo una mucca, ma in passato si tenevano cavalli e buoi, due o tre fienili venivano utilizzati per il bestiame”, racconta Zineta, sottolineando con tristezza che le grandi aziende agricole di un tempo sono state ormai quasi tutte abbandonate. Anche i suoi tre figli se ne sono andati. Il figlio lavora in Germania e le due figlie vivono a Sarajevo.
“Omer ha lavorato come cameriere a Vareš, suo padre in un’acciaieria, ma a casa tenevano cavalli, pecore e mucche, il cibo non mancava mai. Si mangiava il prosciutto, tutto fatto in casa. Altri prodotti venivano venduti al mercato. Anche oggi si vive bene, però è meglio quando siamo più numerosi in casa, quindi prepariamo da mangiare per tutti. Ora c’è molto cibo, ma mancano le persone”.
All’epoca socialista, la città più vicina, Vareš, era un piccolo centro industriale dove affluivano lavoratori provenienti dai villaggi circostanti.
“A quel tempo, Vareš contava circa ventiquattromila abitanti e sicuramente più di undicimila lavoratori. Gli autobus arrivavano alla stazione pieni di lavoratori dei villaggi circostanti”, ricorda Omer, che ha trascorso tutta la sua vita lavorativa nei ristoranti di Vareš, dove incontrava ogni giorno i lavoratori dell’industria locale.
“Con lo scoppio della guerra, sono stati chiusi l’acciaieria e gli impianti di Energoinvest, e anche la miniera di piombo, zinco e barite, un tempo linfa vitale della nostra regione. Vareš si è svuotata, tanto che oggi conta meno di seimila abitanti. Molti hanno perso il lavoro. I croati della zona sono fuggiti durante la guerra, anche la popolazione musulmana è stata costretta ad andarsene per il futuro dei propri figli e per motivi di salute”, spiega Omer.

Zineta i Omer Juso – Foto S. Mlađenović Stević
Ci vogliono ore per raggiungere l’ospedale più vicino, a Zenica (a circa 60 km di distanza), essendoci solo una strada sterrata difficilmente percorribile, e l’ambulatorio nel vicino villaggio di Dragovići da tempo ormai è senza medici. Nella scuola locale, in passato frequentata da più di cento studenti, sono rimasti solo un insegnante e uno studente.
Il villaggio di Kopljari, a maggioranza cattolica, contava circa trecento abitanti. A Gornja e Donja Borovica ce n’erano fino a duemila. Oggi, tutti i villaggi cattolici di questa zona sono quasi completamente vuoti. Solo pochi decidono di tornarci. Nella dozzina di villaggi che circondano Vareš, sul versante meridionale, verso Kakanj, vivevano insieme la popolazione musulmana e quella cattolica, senza che nessuna delle due prevalesse sull’altra. Migliaia di anime. Sempre in amore e armonia.
Omer afferma che i croati sono stati “cacciati via dalla propaganda” durante la guerra. Qui non ci sono mai state azioni militari. A trent’anni dalla fine del conflitto tra croati e bosgnacchi, la leggendaria convivenza non è ancora tornata in queste terre amene, oggi perlopiù abbandonate.
“Mio padre aveva otto figli. Eravamo in dodici in una casa. A quel tempo le case venivano costruite per più famiglie, perché ci si aspettava che i figli, anche dopo il matrimonio, rimanessero con i genitori. Questo piccolo villaggio oggi conta undici persone, mentre in passato, non conosco il numero esatto, ma sicuramente una cinquantina di persone viveva solo nella frazione di Jusići. Oggi non ci sono più giovani né persone di mezza età. E dove non ci sono bambini, non c’è vita”, osserva Omer con tristezza.
I giovani se ne sono andati perché non c’era lavoro, e oggi le attività agricole non bastano per sfamare una famiglia. Per i pochi contadini rimasti non vale la pena produrre per il mercato. Gli incentivi forniti dallo stato non sono sufficienti a stimolare la coltivazione locale di patate, fagioli e altri legumi in modo che possano competere con successo con prodotti importati. E per quelli che dovrebbero recarsi al lavoro ogni mattina, il problema insormontabile sarebbero le strade dissestate, ormai difficilmente percorribili dai mezzi pubblici.
Anche i turisti diretti verso Bobovac si devono spesso muovere a piedi. La principale via di collegamento tra il villaggio e Kraljeva Sutjeska è una strada serrata impervia, e per chi vuole raggiungere Vareš il viaggio diventa un vero e proprio gioco di fortuna.
È proprio questa negligenza nei confronti della popolazione locale, come anche nei confronti dei monumenti culturali e storici – monumenti di cui i politici della Bosnia Erzegovina amano vantarsi – ad ostacolare la crescita e lo sviluppo dell’area. Ecco perché gli investimenti stranieri vengono difesi con tanta veemenza, considerati dalle autorità una salvezza per l’economia bosniaco-erzegovese, ormai in ginocchio.
La miniera di Vareš
Recentemente, una nuova miniera è stata aperta sul sito degli ex stabilimenti dell’azienda Energoinvest a Vareš. L’investimento britannico, dichiarato strategico dalle autorità della BiH, è stato sostenuto anche dalle ambasciate di Gran Bretagna, Norvegia e Stati Uniti. Alla società Adriatic Metals è stata lasciata mano libera per disboscare decine di ettari di foresta statale, compresa un’area nella seconda e terza zona di tutela delle acque del fiume Bukovica, che fornisce acqua potabile a circa trentamila abitanti di Kakanj.
Né lo stato né la popolazione locale hanno tratto vantaggi dalla più grande transazione commerciale nella storia della Bosnia Erzegovina, se non consideriamo i canoni minimi demaniali pari a meno di due euro per tonnellata di minerale. Nell’ambito di questo progetto, la canadese Dundee Precious Metals ha acquistato la miniera di Rupice dal precedente investitore per 1,25 miliardi di dollari.
Per anni, gli attivisti locali hanno lanciato invano l’allarme sull’impatto devastante del progetto sulla qualità dell’acqua potabile a Kakanj, individuato durante l’esplorazione dei ricchi giacimenti minerari, nonché sulla distruzione indiscriminata delle foreste durante la preparazione del sito estrattivo .
“Hanno disboscato la foresta e costruito una strada di una larghezza appena sufficiente per permettere il passaggio dei camion, lungo il torrente di Borovica, a Semizova Ponikva. Il torrente confluisce nel fiume Bukovica, che fornisce acqua potabile a Kakanj”, conferma Omer e aggiunge: “È stato venduto tutto quello che poteva essere venduto. Tutti fanno finta di niente, ma chi ha preso i soldi sa benissimo cosa sta accadendo”.
Per la popolazione locale l’acqua è un dono divino. Ce n’è ancora in abbondanza, tanto che ogni frazione ha almeno una fontana pubblica, e gli abitanti non ricordano episodi di scarsità idrica. Temono però che un giorno l’acqua possa finire proprio come sono scomparse le fitte foreste che Zineta e Omer Juso ricordano dalla loro infanzia. Temono, a ragione, che tutte le leggende, la bellezza e la rigogliosità di queste terre possano svanire.
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