Le scomode verità di Bato Čengić
Nato a Maglaj nel 1931, Bahrudin Bato Čengić è stato uno dei registi jugoslavi più famosi, premiato al Festival di Pola e che rappresentò la Jugoslavia a Cannes. Spirito libero e critico, oggi è caduto nell’oblio e nessuna via porta il suo nome in Bosnia Erzegovina

mali vojnici
La locandina di Mali Vojnici di Bato Čengić (1967)
Se un giorno (forse anche prima) dovesse essere scritta una valida Storia alternativa dell’arte e del pensiero della Jugoslavia socialista, in questo libro – già me lo immagino corposo – nel capitolo dedicato al cinema, un posto speciale dovrebbe essere riservato a Bahrudin Bato Čengić (Maglaj, 1931 – Sarajevo, 2007), regista bosniaco ed europeo.

Bahrudin “Bato” Čengić (1931-2007)
Čengić nacque nel 1931 a Maglaj, piccola città della Bosnia Erzegovina dove ho insegnato per tredici anni. Rilancio qui, senza malizia né rammarico, il solito messaggio rivolto ai lettori curiosi: non sforzatevi di cercare qualche scuola, strada, piazza, nemmeno un vicolo cieco a Sarajevo, Maglaj o altrove, che porti il suo nome. Non sforzatevi inutilmente, anche lì i maghi dell’oblio non dormono mai. E… non meravigliatevi dell’elenco, piuttosto breve, dei lungometraggi di Čengić. Invece, la lista dei suoi documentari è più lunga. (La filmografia di Čengić è disponibile online in diverse lingue europee ed è inclusa in alcune autorevoli enciclopedie del cinema jugoslavo ed europeo, che – ahimè – non sono consultabili in rete, quindi bisogna andare in biblioteca.)
Provo a sintetizzare, per quanto possibile, la vita di Bato Čengić che – un punto su cui concordano tutti gli autori delle voci enciclopediche sul grande regista – ha segnato l’arte cinematografica dell’ex Jugoslavia con le sue opere Mali vojnici [Piccoli soldati], Uloga moje porodice u svetskoj revoluciji [Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale], Slike iz života udarnika [Immagini della vita di un lavoratore], Pismo-glava [Testa o croce], Gluvi barut [Sorda polvere da sparo].
Studiò regia a Belgrado e Parigi. Spirito libero, era convinto che un artista dovesse fare affidamento sui propri occhi. Già negli anni ’60 si guadagnò la reputazione di tordo beffeggiatore del cinema jugoslavo, e di conseguenza venne incluso nella lista dei registi del cosiddetto Crni talas [Onda nera]. Le sue opere giovanili – i due cortometraggi Deset na jednog [Dieci contro uno] e Čovjek bez lica [L’uomo senza volto] preannunciarono quella strada. Con le sue osservazioni sulla guerra, ma anche su alcuni temi di stretta attualità, attirò l’attenzione del pubblico, come anche delle autorità.
Da Cannes all’oblio
A contribuire maggiormente a quella catalogazione è stato il film Mali vojnici (1967), realizzato secondo la sceneggiatura di Mirko Kovač. Il film vinse diversi premi al Festival del cinema di Pola, rappresentando poi la Jugoslavia a Cannes nel 1968 [1]. La “leggenda” narra che Tito, peraltro un cinefilo accanito, dopo aver visto Mali vojnici avesse agitato la mano in segno di disapprovazione e, pronunciando un commento duro, fosse uscito dalla sala del Palazzo Bianco dove guardava film ogni sera. Cosa aveva effettivamente detto il Maresciallo? Qualche frase, facilmente intuibile, del tipo: “Questa non è un’immagine fedele della rivoluzione!”(?).
Ad ogni modo, parliamo di un film intrinsecamente jugoslavo, con un cast eccellente (Stole Aranđelović, Zaim Muzaferija, Marika Tučanovska, Mija Aleksić). Ancora oggi, Mali voljnici interroga implicitamente gli spettatori: Chi siamo se ci lasciamo trascinare da (qualsiasi) collettivismo ideologico? Un film all’epoca considerato scomodo anche per via della demistificazione del ruolo dei bambini nel movimento partigiano, trattati come se fossero adulti. La musica di Bojan Adamič (che comporrà anche per i film di Čengić Slike iz života udarnika e Pismo-glava) dà al film un tocco speciale. Noi, che ancora non abbiamo dimenticato, riascoltando il brano che apre il film – un adattamento della canzone partigiana Po šumama i gorama [Attraverso boschi e monti], in cui riecheggia la promessa: “Preferiamo morire che rinunciare alla nostra terra” – potremmo essere portati a… fare cosa? Forse soprattutto a tacere? Di fronte alla storia dei fatti o di fronte alle illusioni sulla saldezza dei cosiddetti progetti storici?
Il film di Čenglić Uloga moje porodice u svetskoj revoluciji (1971), ispirato all’omonimo romanzo di Bora Ćosić, nonostante gli elogi ricevuti dopo la première a Pola, fu tacciato dalla critica ufficiale come inappropriato. Oggi, quest’opera – con un cast d’eccezione (Dragan Nikolić, Milena Dravić, Bata Stojković, Branka Petrić, Milivoje Tomić) che ha conferito al film un’autentica vena satirica – è considerata uno dei simboli della cinematografia jugoslava. L’immortale scena in cui una famiglia di Belgrado, confusa dalla storia in movimento, mangia un dolce a forma di testa di Stalin, era tollerabile, pur trattandosi di un attacco indiretto al sistema monopartitico e all’”unica via verso il socialismo”.
Invece Slike iz života udarnika (1972) non poteva essere tollerato. La giuria, presieduta dal compagno Stipe Šuvar, aveva deciso di escludere il film dal concorso. Il film racconta la scomoda verità sulla vita di un minatore, ispirata alla storia di Alija Sirotanović, un mitico minatore della miniera di Breza. Il protagonista, in una sfida di estrazione del carbone, sconfigge Stakhanov, un minatore altrettanto mitico, proveniente dall’Urss. Alija esce vittorioso, crede nel socialismo, per poi finire nell’oblio, diventando un caso sociale. Il film, restaurato, è stato presentato alla Biennale di Venezia nel 2023.
Slike iz života udarnika fu la goccia che fece traboccare il vaso: la parabola cinematografica di Čengić prese una piega analoga a quella di Aleksandar Saša Petrović e Živojin Žika Pavlović. Ben presto arrivarono inviti da alcuni rinomati studi cinematografici occidentali a continuare la carriera all’estero. Non accettò. Rimase nel suo paese, come un vero artista desideroso di conoscere la società attraverso un’esperienza diretta. Un aspetto meno noto della vita di Čengić è che, grazie all’aiuto di un amico, scriveva articoli per Zadrugar, una rivista specializzata in agricoltura, per guadagnare qualche soldo.
Verso la fine della Jugoslavia
Non girò film per molto tempo, rimanendo però legato ai suoi progetti, fermamente convinto che almeno alcuni si potessero realizzare. “Un lavoratore del cinema è un essere umano infelice…”, dirà poi in un’intervista, rilasciata alla vigilia della tragedia jugoslava, che vale la pena ascoltare. Ancora oggi, mi soffermo su quella frase laconica di un uomo e un artista che non ha mai pronunciato una sola parola vendicativa in un periodo cruciale, quando andava di moda infangare il passato. Quando improvvisamente nessuno era più “comunista” perché voleva esserlo, ma perché “doveva esserlo”. Inoltre, credeva che tra i comunisti ci fossero persone onorevoli e oneste.
Non girò fino al 1983, quando realizzò il film Pismo-glava, che potete trovare in rete. (Un cast eccellente: Mladen Nelević, Mira Furlan, Adem Čejvan, Vladica Milosavljević, Boro Stjepanović, Zaim Muzaferija, Boris Dvornik…) Ambientata a Sarajevo, è un’avvincente storia cinematografico sul dramma sociale di persone comuni, le cui vite riflettono indirettamente vari elementi della crisi in Jugoslavia dopo la morte di Tito.
Il grande romanziere Branko Ćopić, poco prima di scrivere “Addio, vita bella e terribile”, gli diede il permesso di realizzare una sceneggiatura cinematografica basata sul romanzo Gluvi barut. Il film uscì nelle sale cinematografiche nel 1990, frutto di un lungo lavoro di Čengić sulla sceneggiatura (in sette versioni), con la quale – per citare le sue stesse parole – cercò di “trasporre un’opera letteraria in un altro genere”. E questo a suo modo, secondo la profonda libertà di coscienza, a ricordare che “siamo una nazione che fondamentalmente parte dal nulla, non impariamo mai dalla storia”.
In questo progetto cinematografico sulla sgradevole (e dannosa, come si diceva allora) verità sulla Resistenza e sulla Rivoluzione, coinvolse i migliori attori jugoslavi: Mira Furlan, Branislav Lečić, Fabijan Šovagović, Mustafa Nadarević, Josip Pejaković (recentemente scomparso), Marko Nikolić, Zvonko Lepetić, Radko Polič, Zaim Muzaferija, Svetozar Cvetković, Enver Petrovci…
Nel realizzare Gluvi barut, Čengić si concentrò sul tema del cosiddetto terrore rosso, ovvero sul repulisti degli oppositori ideologici del comunismo tra le file della resistenza al terrore ustascia e ai crimini contro i serbi nella Krajina bosniaca, di cui testimoniano sul piano letterario (e documentario) i romanzi di Ćopić Prolom e Gluvi barut.
Tuttavia, il tema implicito del film è il diritto al crimine. In questo intreccio drammatico, sempre implicitamente, emergono alcune questioni che anche Dostoevskij, Selimović e Sartre hanno sollevato, pensiamo all’opera teatrale Le mani sporche di Sartre.
Lo stesso interrogativo, immagino, ha assillato Ćopić fino alla sua morte. Nella sua complessa interpretazione, Čengić ha dato spazio anche al tema dell’odio ideologico verso la religione, chiedendosi inoltre: Chi pensa di poter essere allo stesso tempo pubblico ministero, giudice e boia? Questo film, a modo suo, si colloca sulla verticale delle opere eretiche: nella visione di Čengić, la Seconda guerra mondiale in Jugoslavia è stata anche una guerra civile.
Un regista nella Sarajevo assediata
Durante l’assedio serbo di Sarajevo, Bato Čengić ha registrato novecento minuti di materiale documentario, trasformandolo poi nel 1999 in un lungometraggio documentario intitolato Mona Lisa a Sarajevo. Questa storia sentimentale e documentaria sulla resistenza al male sembra ispirarsi alla riflessione di Dostoevskij, oggi amaramente ironica: “La bellezza salverà il mondo”.
Non ho intenzione di sollevare nuovamente la questione della mancanza di vie e piazze intitolate a Bato Čengić, o meglio dell’ennesimo tentativo di cancellare deliberatamente la memoria, questa volta dalla cultura della Bosnia Erzegovina. Più precisamente, dal suo segmento bosgnacco, politicizzato al punto da non dare spazio nemmeno a figure come Izet Sarajlić. C’è però sempre spazio (come anche in altri paesi ex jugoslavi) per l’oblio e per il revisionismo culturale e storico.
Certo, i nomi di strade, piazze, scuole, biblioteche, centri culturali non tolgono né aggiungono valore alle opere di un artista, però possono rispecchiare l’atteggiamento di una società nei confronti degli artisti e del valore dell’arte.
Concludo con un messaggio rivolto ai lettori pazienti: i link presenti in questo articolo non sono frutto di una pretesa accademica, bensì del tentativo di rendere i film di Čengić più accessibili ai curiosi. Un altro piccolo “regalo”: se volete, date un’occhiata alla breve poesia di Bato in puro linguaggio cinematografico, senza una sola parola, Čovjek sa satom [L’uomo con l’orologio, 1981, 13 minuti).
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[1] Il 1968 è un anno particolare nella storia del Festival di Cannes. La ventunesima edizione del Festival fu interrotta per via del Primo Maggio francese (proteste studentesche). Il film di Čengić ebbe la fortuna di essere proiettato prima del 13 maggio, giorno dell’interruzione. Era in concorso con film di registi come Eastwood, Tarantino, Wenders… Roman Polanski, Monica Vitti e Louis Malle si dimisero dalla giuria, e alcuni registi, tra cui Miloš Forman, ritirarono i loro film dal concorso.
Tag: Cinema
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