Bosnia Erzegovina, contro le divisioni etno-nazionali

Per Nijaz Skenderagić, antifascista che da decenni si oppone alle divisioni nazionaliste, a portare alla dissoluzione della Jugoslavia  non è stato uno scontro tra nazioni, ma le ambizioni contrastanti di leader politici che hanno sacrificato lo stato unitario dei popoli jugoslavi per creare piccoli imperi monoetnici

02/12/2025, Edin Krehić Sarajevo
Nijaz Skenderagić parla a un raduno di antifascisti © Halid Kuburović

Nijaz Skenderagić parla a un raduno di antifascisti © Halid Kuburović

Nijaz Skenderagić parla a un raduno di antifascisti © Halid Kuburović

Nijaz Skenderagić da decenni ormai è irremovibile nella sua posizione, difendendo idee che non è mai stato facile difendere in Bosnia Erzegovina: antifascismo, identità civica, società interculturale. Per via del suo impegno pubblico, ha subito forti pressioni e minacce, e gli ambienti nazionalisti continuano a considerarlo un nemico.

Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, da giovane politico, ricoprendo cariche istituzionali di rilievo, ha assistito alla dissoluzione e poi alla sanguinosa fine della Jugoslavia. Pur non occupandosi più di politica – oggi è un manager di successo – resta una voce importante che si oppone apertamente alle divisioni etno-nazionali.

A spingerci a interpellare Skenderagić è stato un recente scandalo che ha visto protagonista Staša Košarac, ministro del Commercio Estero e delle Relazioni Economiche della Bosnia Erzegovina. Košarac ha inviato un elmetto militare nazista a Christian Schmidt, Alto Rappresentante in BiH, definendo quell’oggetto “un’eredità degli antenati” del diplomatico tedesco.

Košarac è un esponente di spicco dell’Unione dei socialdemocratici indipendenti (SNSD), guidata da Milorad Dodik. Quest’ultimo era entrato nella vita politica della Republika Srpska come “un riformista moderato” grazie ad un forte sostegno degli attori occidentali, per poi trasformarsi nel più influente fautore della politica nazionalista in BiH. Una politica spesso accompagnata dalla relativizzazione dei crimini e dalla glorificazione dei criminali di guerra condannati.

Da antifascista, come commenta questo recente scandalo? Si tratta di una provocazione politica, un insulto o puro odio?

La situazione attuale non è frutto di una serie di scandali casuali, bensì di un lungo e sistematico progetto di revisionismo. Quando un alto funzionario della BiH invia un elmetto nazista all’Alto Rappresentante, definendo quell’oggetto “un’eredità degli antenati” del diplomatico tedesco, questa non è una gaffe. Non è nemmeno uno scherzo per attirare l’attenzione dei media. È un atto che fa parte di un progetto politico da anni ormai portato avanti in Republika Srpska: normalizzazione dell’estremismo, relativizzazione dei crimini, delegittimazione della comunità internazionale e disumanizzazione sistematica dei bosgnacchi come “altri”.

Questa retorica non è un fenomeno isolato. È frutto di un lungo assorbimento delle ideologie belliche che dipingono l’Occidente come un nemico e la Bosnia Erzegovina come uno stato creato artificiosamente. In quest’ottica, chiunque insista sullo stato di diritto è un nemico degli “interessi serbi”. Se questo discorso viene ripetuto abbastanza a lungo, il pubblico non solo lo accetta, ma se lo aspetta.

Nella vita politica della Bosnia Erzegovina, da anni ormai persiste una retorica becera basata sugli insulti e sull’umiliazione dell’altro. Perché questa narrazione attecchisce ancora?

C’è un’intera generazione che non ha mai conosciuto una normale comunicazione politica. Chi è nato durante o subito dopo la guerra, è cresciuto con narrazioni concentrate su tradimenti, nemici, assedio, odio e paura.

In una società dove gli insulti sono ritenuti normali, dove le sentenze dei tribunali internazionali vengono negate e le personalità pubbliche vengono premiate per le loro azioni radicali, l’opinione pubblica considera questa politica come una norma.

Aggiungendo poi un sistema educativo etnicamente diviso, i media che funzionano come macchine di propaganda e le strutture religiose che sono spesso attori politici, si crea un circolo vizioso.

Come commenta la reazione tiepida della comunità internazionale? Si tratta della mancanza di volontà politica, una valutazione errata, stanchezza, paura della destabilizzazione oppure la Bosnia Erzegovina post-Dayton, così com’è oggi, serve gli interessi della comunità internazionale?

Da tempo ormai la comunità internazionale, in particolare l’Unione europea, persegue una politica concentrata su come “gestire”, anziché risolvere la crisi in Bosnia Erzegovina. L’attuale status quo fa comodo: garantire che il paese non vada in rovina, senza però renderlo funzionale. È una stabilità senza sviluppo.

Le ragioni principali di questa politica sono tre.

Innanzitutto il pragmatismo geopolitico. L’Occidente non vuole scatenare una nuova crisi essendo ancora alle prese con la situazione in Ucraina e in Medio Oriente e con la concorrenza globale della Cina.

Secondo, si assiste ad un calo di interesse per i Balcani. La regione non è più una priorità, è diventata “un problema noioso”.

Infine, ci sono gli interessi personali dei funzionari internazionali. Molti carrieristi in missioni e uffici in Bosnia Erzegovina evitano di reagire apertamente per non mettere a repentaglio la propria posizione. Però volendo, potrebbero innescare un cambiamento. Quindi il problema non è il potere, ma la volontà.

Lei ha partecipato attivamente agli eventi politici degli anni della dissoluzione della Jugoslavia. Riesce a sintetizzare i momenti e le emozioni che hanno segnato quel periodo, considerando anche che è stato uno dei membri più giovani del Comitato centrale della Lega dei comunisti della Jugoslavia?

La dissoluzione della Jugoslavia non era imminente. Non si è trattato di uno scontro di popoli, bensì di uno scontro di ambizioni.

Slobodan Milošević, Franjo Tuđman e altri leader nazionalisti hanno visto un’opportunità storica per diventare sovrani assoluti di territori etnicamente omogenei. Il progetto jugoslavo è crollato non perché non fosse solido, ma perché era percepito come un ostacolo alle ambizioni delle élite nazionaliste.

Nel Comitato centrale si è visto come il sistema è crollato dall’interno diffondendo paura, creando nemici interni, manipolando la crisi economica e fomentando l’odio nei media.

La Jugoslavia era molto più avanzata di quanto le nuove generazioni possano immaginare. Energoinvest, Šipad, Famos, Gorenje, Iskra, Rade Končar, INA… Parliamo di aziende rinomate a livello internazionale. Poi però sono arrivate certe persone che hanno deciso di sacrificare un grande paese comune per creare piccoli imperi monoetnici.

In quel periodo lei ha ricevuto gravi minacce partite dall’allora presidente della Serbia Slobodan Milošević, deceduto poi nel carcere del Tribunale dell’Aja…

Si è trattato di minacce molto serie. A quel tempo, diversi servizi e gruppi estremisti sono stati autorizzati a pedinare, intimidire ed eliminare gli oppositori politici. Più volte ho ricevuto chiari segnali che qualcuno voleva rimuovermi dalla vita politica e anche uccidermi.

La verità è semplice: i sistemi autoritari non tollerano chi rifiuta di obbedire.

Teme gli estremisti che oggi l’attaccano?

Dirò quello che ho detto loro: non ho paura della feccia fascista. Non perché io sia coraggioso, ma perché l’odio va fermato. Se dovessimo indietreggiare di fronte all’estremismo, vincerebbero quelli che cercano di intimidirci.

Lei afferma di appartenere all’ultima generazione “cresciuta per servire il sistema e alla prima che ha dovuto sopravvivere alla scomparsa del sistema”. Durante e dopo la guerra, molte grandi aziende della Bosnia Erzegovina sono state distrutte. Il suo modello, se non erro, è Emerik Blum, ideatore del gigante Energoinvest. Quali lezioni di quel periodo ha messo in pratica nella sua vita quotidiana e nel suo lavoro?

Emerik Blum era un imprenditore di fama internazionale. Energoinvest non era solo un’azienda, ma una scuola di management moderno, innovazione, collaborazione con partner globali, sviluppo tecnologico e rispetto per le competenze.

Tra le lezioni più importanti che ho imparato, e che dovrebbero essere applicate costantemente non solo nel mondo degli affari, ma soprattutto in politica, è quella di dover sempre avere una visione, circondarsi di persone più intelligenti di te, perché questo è l’unico modo per progredite; non prendere decisioni per paura, perché la paura porta a errori e il coraggio crea sviluppo; dare priorità alla competenza anziché alla politica. Ecco perché Energoinvest era diventata un’azienda globale.

Come vede le differenze tra il mondo di ieri e quello di oggi?

Il contrasto con i tempi odierni è sconvolgente, oggi prevale la logica dell’inganno: si fa a gara nel derubare risorse pubbliche e conquistare poltrone sfruttando la vicinanza a determinati partiti politici.

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