Caldo, siccità e un inizio fortuito
Di solito gli incendi, anche quelli estremi, hanno un innesco banale: un mozzicone, un fuoco agricolo sfuggito di mano, un piromane. Quello del 17 giugno no. Un fulmine – secondo una ricostruzione non unanime – colpì una linea elettrica.
All’inizio il fuoco avanzò lentamente, invisibile nella vegetazione umida del torrente Ribeira de Frades. Raggiunta la collina, gli abitanti di Escalos Fundeiros, vedendo il fumo, chiamarono i vigili del fuoco alle 14.39. Alle 15 i primi aerei erano già in volo.
Intanto, a tre chilometri di distanza, sulla stessa linea elettrica, scoppiava un secondo incendio, che presto avrebbe raggiunto il primo: un “doppio innesco” rarissimo. Nella vicina Góis intanto divampava un terzo, enorme incendio, che avrebbe impegnato i soccorritori per giorni e che alla fine avrebbe raggiunto l’area ormai carbonizzata intorno a Pedrógão.
“Le modalità con cui è iniziato, alla fine, contano poco”, spiega Fernandes. “La differenza la fecero le condizioni, quell’anno estreme”. Dopo due anni di siccità, la primavera era stata la più secca degli ultimi 80 anni. A giugno un’ondata di calore portò temperature sopra i 40 gradi e rese instabile l’atmosfera. “Il ‘Fire Weather Index’ era ai massimi da quando lo misuriamo. E infatti quella fu una delle stagioni più dure in assoluto”.
Mezz’ora di inferno
Per le prime ore, l’incendio crebbe gradualmente. Poi, intorno alle 18, tutto cambiò. “Si stava propagando verso sud”, racconta Fernandes. “Poi una raffica di vento da est, legata a un temporale, lo fece deviare di 90 gradi”. Le fiamme avanzavano già a circa un chilometro l’ora, al limite della capacità teorica di controllo. Il fronte era lungo, e il vento lo colpì in pieno.
“Fu allora che il fuoco divenne il mostro che conosciamo”. Le raffiche trasportarono frammenti incandescenti a distanza e alimentarono una colonna di fumo e aria bollente, visibile dallo spazio. Il pirocumulonembo si sollevò oltre 12 chilometri, generando ghiaccio, fulmini e innescando temporali.
Verso le 20, la colonna collassò: un “downburst”, evento rarissimo in Europa. In pochi minuti, una pioggia di proiezioni incandescenti, spinta da venti violentissimi, decuplicò la velocità del fuoco. I testimoni parlarono di “un’esplosione”.
Fu in quella fase che si consumò la parte più tragica dell’incendio: la maggior parte delle 66 vittime perse la vita in quei momenti. Più della metà si trovava sulla strada EN 236-1, vicino a Barraca da Boavista, mentre cercava di fuggire in auto o a piedi. Tra le vittime anche un vigile del fuoco.
Il fuoco continua
Il giorno dopo l’incendio proseguì in modo estremo, pur senza l’intensità della sera precedente, colpendo Figueiró dos Vinhos e Castanheira de Pera. Solo il 19, grazie al meteo più favorevole e a oltre 1400 soccorritori, fu gradualmente domato. Il fronte però si era già unito a quello partito da Góis, che avrebbe continuato a bruciare fino al 22.
Ma la stagione estrema nel Pinhal non era finita. Tra il 14 e il 19 ottobre, la siccità persistente e i venti dell’uragano Ophelia provocarono nuovi roghi devastanti, su quasi 300 mila ettari, con altre 51 vittime. Era chiaro: non si trattava di un episodio isolato.
Poche persone, molti eucalipti
Il paesaggio di Pedrógão è fatto di boschi e colline, tagliate dal fiume Zêzere che qui si allarga in un lago artificiale. I residenti vivono in insediamenti isolati, circondati da eucalipti e pini. Mezzo secolo fa la zona era abitata da contadini; oggi la popolazione si è dimezzata. Molti sono emigrati. Nei villaggi restano anziani, e un po’ di vita si rivede solo nei fine settimana.
Molti proprietari, con appezzamenti piccoli e poco redditizi, hanno abbandonato i campi o li hanno convertiti all’eucalipto, specie redditizia ma infiammabile. Le monocolture – soprattutto di eucalipto, che si rigenera dopo ogni incendio – sono tra i principali fattori di rischio. L’assenza della popolazione attiva, che un tempo gestiva il bosco, ha fatto il resto.
Dal 2006 è obbligatorio pulire le fasce attorno ai centri abitati, ma fino al 2017 la norma è rimasta spesso disattesa. “Il materiale combustibile accumulato era tantissimo”, ricorda Fernandes. “Ma in quei giorni, altrove ce n’era anche di più”.
Un brusco risveglio
Pur avendo esperienza con gli incendi, gli abitanti dei villaggi morti sulla strada 236-1 non avevano mai visto nulla di simile, e decisero di fuggire, anche perché le autorità non diedero avvisi chiari. Se fossero rimasti, probabilmente si sarebbero salvati: il fuoco raggiunse solo un terzo delle loro case.
Secondo Fernandes, con le conoscenze di allora agire diversamente sarebbe stato difficile, ma non impossibile. “La finestra utile per avvertire era brevissima. Servivano persone davvero esperte di meteorologia del fuoco, capaci di prendere decisioni rapide. A differenza di Stati Uniti o Australia, l’Europa non era pronta”.
Gli errori si susseguirono in tutte le fasi. Più che inadempienze, per Fernandes a spiegarli è la mancata consapevolezza della nuova natura degli incendi. “La torre di avvistamento più vicina non era attiva: la stagione era all’inizio, ma le condizioni erano già critiche. I pompieri locali pensarono a un incendio normale, ma le decisioni strategiche spettavano a Lisbona. E senza consapevolezza, le risposte sono lente e inadeguate”.
Nuova consapevolezza. Forse
Gli abitanti del Pinhal non hanno avuto bisogno degli studiosi per capire che stavano entrando nell’era degli incendi estremi. Per molti, racconta l’antropologa Filipa Soares, il bisogno di un cambio di passo fu evidente durante l’emergenza: “Gli eucalipti bruciavano come fiammiferi, mentre il fuoco si fermava davanti alle querce. Hanno capito che qualcosa non andava”.
Oltre dieci località colpite hanno attivato progetti per rendere il territorio più resiliente. Intorno a molti villaggi, corbezzoli, querce e castagni hanno ripreso il posto dell’eucalipto. A Ferraria de São João, un gregge comunitario di capre torna a pascolare, riducendo la biomassa e producendo formaggio. È il progetto “FarmReal”, basato su una piattaforma online per adottare virtualmente gli animali.
Le nuove pratiche sono inquadrate nelle Zone di Protezione del Villaggio (ZPV), gestite come beni comuni.
Le cose però non sono sempre andate lisce. “Molti proprietari si sono opposti, alcuni promotori sono stati minacciati”, racconta Soares. Il nodo è la sostenibilità economica. “Gli interventi hanno ricevuto fondi pubblici e donazioni, ma l’attenzione ora sta scemando”. Il tema degli incentivi di lungo periodo per rilanciare le aree rurali è centrale nel progetto Fire-Res, ma ancora difficile da attuare.
Il disastro del 2017 ha stimolato una mole di studi per migliorare la previsione, mappare il combustibile, analizzare il “mosaico perfetto” e progetti, come Fire-Res, che puntano a integrare tutti gli aspetti della gestione del rischio.
Il Portogallo ha fatto passi avanti: ha creato una nuova agenzia per la gestione integrata e un piano nazionale antincendi lodato anche dalle Nazioni Unite. “È un piano avanzato, ma quasi tutto è rimasto sulla carta. Protezione civile, forestali e militari operano ancora per conto proprio. Sicuramente abbiamo più risorse, ma non molta più capacità tecnica o competenza applicata”.
Intanto, i boschi attorno al memoriale delle vittime del 2017, al bordo di un laghetto artificiale con un getto d’acqua simbolico, tornano a crescere, esili ma inarrestabili.
“Ogni tanto vedi un grande albero bruciato, ma è difficile notare quello che è successo. Tutto sta tornando come prima: omogeneo e abbandonato”, sospira Fernandes. “Le iniziative lodevoli ci sono, ma mancano ancora i processi scalabili. Se qualcosa non cambia, entro qualche anno Pedrógão sarà ancora più a rischio di prima”.