Dall’Arizona a Bucarest: il viaggio di un poeta verso la lingua romena
Originario dell’Arizona, dove si è laureato in letteratura, Andrew Davidson-Novosivschei abita dal 2015 a Bucarest. Traduttore e poeta, guarda alla Romania al tempo stesso da dentro e da fuori. Essere un emigrato – ci dice – permette di vivere “senza la pressione del ‘noi'”. Un’intervista

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Un treno nella campagna romena © mishu88/Shutterstock

Andrew Davidson-Novosivschei
Andrew Davidson-Novosivschei (nato nel 1987) è un insegnante, poeta e traduttore originario dell’Arizona, che dal 2015 vive a Bucarest. Scrive poesie in inglese e in romeno, e ha pubblicato su Poesis International, Tribuna, Apricity Press, Poetic Stand e altre riviste. Lo scorso anno ha vinto il premio per il miglior debutto in poesia con il volume “Inimă leneșă” (“Cuore pigro”), edito dalla casa editrice Dezarticulat.
Spesso invitato ai festival romeni di letteratura e traduzione, Andrew è una presenza delicata, quasi fantasmagorica, che conquista con un particolare mix di umorismo e profondità. Scritta in romeno, una lingua che non è la sua, la sua poesia diventa ancora più affascinante, priva della pretesa di voler essere perfetta. Andrew stesso incarna l’autenticità, e il suo percorso — dall’America alla Romania, fino al sentirsi a casa nella lingua romena — è altrettanto interessante.
L’abbiamo incontrato per saperne di più sul suo percorso e sulla sua vita in Romania.
Andrew, come è iniziata la tua storia con la Romania? È stato un incontro cercato o un caso del destino?
Ho studiato letteratura all’Arizona State University fino al 2014. Durante gli studi ho cominciato a leggere autori dell’Europa dell’Est e mi ha affascinato la letteratura del Novecento — ceca, ucraina, ungherese. A un certo punto dovevo scegliere un’altra lingua straniera da studiare per due anni, e un collega mi ha suggerito il romeno, dicendo che gli era piaciuto molto il corso. Mi è sembrata una scelta perfetta, anche perché ero già attratto dalle culture dell’Est Europa. Conoscevo lo spagnolo, che avevo studiato dalle elementari fino al liceo, e in Arizona è una lingua molto presente: la senti nella musica, nei ristoranti messicani, nella vita di tutti i giorni. Così mi sono detto che forse avrei potuto imparare anche il romeno — e ho iniziato a studiarlo.
Dopo la laurea ho proseguito con un master in letteratura comparata, inglese e romena, e ho iniziato a leggere e tradurre sempre di più. La traduzione mi ha subito appassionato: la trovo un atto creativo particolare, una forma d’arte condivisa — non tanto con l’autore, ma con il testo stesso.
La lingua romena è stata quindi una sfida per te?
Sì, certo. Quello che ho imparato in quattro anni di corso di lingua romena mi è servito, ma ho imparato molto di più – e molto più in fretta – vivendo qui. Quando sono arrivato, capivo abbastanza, ma davanti a una persona che parlava mi sembrava di non riuscire davvero ad ascoltare. Per un periodo ho avuto l’impressione di non fare progressi, poi, a un certo punto, ho iniziato a sentire che riuscivo a esprimermi. Ascoltando tanto gli altri, la musicalità del romeno ti conquista: ti viene voglia di parlare anche tu così, di farne parte. Ho avuto fortuna — ero curioso, desideroso di capire, e ho incontrato buoni modelli e molte opportunità.
E hai mai pensato che saresti rimasto così a lungo in Romania?
In realtà, no. Volevo lasciare gli Stati Uniti per vivere in modo diverso, imparare meglio il romeno, conoscere la società, la letteratura contemporanea e la cultura. Poi ho conosciuto mia moglie, Claudia… e così eccomi ancora qui.
Come ti ha accolto la Romania e come l’hai percepita all’inizio?
Sono stato accolto molto bene, la gente ha avuto molta pazienza con me. Forse a volte mi vedevano come uno sciocco che sorride — forse perché non capivo tutto, perché volevo dire qualcosa ma non riuscivo. È stato anche difficile, soprattutto nel 2015, quando sono emigrato. Non c’erano molte persone in fila all’ufficio immigrazione. La strada era in un certo senso aperta: non c’erano pregiudizi, non c’erano riserve nei confronti degli stranieri allora.
Eri quasi qualcosa di “esotico”, di speciale.
Sì… Ma per me, essere lontano da casa e non avere accanto persone con esperienze simili è stato difficile. Non poter condividere questa esperienza è stata dura. Non si emigra mai per puro piacere.
Credi che il fatto di essere americano abbia influenzato la percezione che gli altri avevano di te?
Sì, penso di sì — forse per questo sono stato accolto anche meglio. Oggi, però, non saprei… Con il nuovo contesto politico, le cose sono cambiate. Dopotutto, il più famoso emigrato americano in Romania oggi è Andrew Tate, e questo dice molto. Credo che la percezione dei migranti non cambi per via dei numeri, ma per il discorso politico che si costruisce intorno a loro: è quello che modella davvero lo sguardo delle persone.
È stato difficile ambientarti e trovare il tuo posto qui? Cosa ti ha aiutato?
Ho sempre avuto un obiettivo che mi ha guidato: la traduzione. Volevo tradurre e pubblicare. Le persone intorno a me — amici e famiglia — mi hanno incoraggiato, anche se sapevo che era un’attività lenta e non remunerata. All’inizio, però, la cosa più importante era stare bene con la mia compagna mentre mi abituavo alla vita qui. Volevo essere un buon partner, ed è stato proprio il suo sostegno a darmi equilibrio e a farmi trovare nuove opportunità. L’aspetto familiare è stato fondamentale.
Raccontami come hai incontrato la poesia e come hai deciso di scrivere in romeno.
Mi piaceva più tradurre che scrivere. Non avevo quasi mai provato a scrivere poesia finché, nel 2013, durante un semestre d’insegnamento a Bucarest, mi sono sentito solo e ho iniziato a scrivere in inglese.

Inimă Leneșă – Andrew Davidson-Novosivschei
Poi, a un evento letterario, ho conosciuto gli scrittori moldavi Moni Stănilă e Alexandru Vakulovski. Mi hanno incoraggiato a condividere i miei testi e, grazie a loro, sono stato invitato a leggere a un festival. Lì ho incontrato la scrittrice Simona Popescu, che mi ha suggerito di provare a scrivere in romeno. Così ho fatto — e nel 2017 le ho mandato i primi testi. Da allora ho continuato a scrivere in romeno, una lingua in cui ho imparato davvero cosa significa fare poesia. Ora, però, sento il bisogno di tornare anche all’inglese, come a una parte di me che avevo lasciato in sospeso.
Sei diventato conosciuto come poeta grazie al volume Inima leneșă (Il cuore pigro). Da dove nasce questo titolo?
Volevo intitolarlo Inima lentă (“Il cuore lento”), più vicino all’idea di slow che di lazy. Avevo anche pensato a Inima doradă regală (“Il cuore orata regale”), ma l’editore mi ha chiesto: “E dov’è l’orata nel libro?”. Ho risposto: “Appunto, non c’è, volevo lasciare che i lettori la cerchino”. Abbiamo riso, e alla fine il titolo è rimasto Il cuore pigro.
La tua poesia è minimalista, astratta, a volte comica e commovente. Quali versi ti vengono in mente per primi?
Drăguți sunt copilașii
Drăguți sunt cățelușii
Urâți sunt împreună
(Carini sono i bambini,
carini sono i cagnolini,
ma quanto sono brutti insieme.)
Li ho scritti in un momento di blocco, sul telefono, durante la presentazione di un romanzo di Andrei Dósa. Mi ha chiesto se stessi scrivendo e gli ho mostrato quei versi. Mi ha detto: “Grande!” Da lì ho cominciato con i micro-poemi.
Come ti sembra, nel complesso, il mondo culturale in Romania?
Oggi la scena letteraria è più ricca e aperta alla sperimentazione. Io mi sono sentito libero e fortunato, forse anche perché ho trovato persone accoglienti. Ma non tutti vivono la stessa esperienza: a volte l’ambiente può essere chiuso, e se non fai parte di un gruppo può diventare difficile pubblicare, anche se scrivi cose valide.
Credo però che non dipenda solo dalle relazioni o dal talento: conta il tempo che dedichi alla scrittura e la capacità di lavorare con te stesso, di coltivare quella relazione interiore da cui nasce tutto.
Sono passati 10 anni da quando vivi in Romania. Guardando indietro – cos’è cambiato?
È comparso 5 to Go [catena di caffè romena fondata a Bucarest nel 2015], evviva hahahaha. Lo ammetto, sono un consumatore accanito di caffè.
In un romanzo di Bogdan Alexandru Stănescu ho letto di due studenti che, all’inizio degli anni 2000, camminavano lungo Calea Victoriei parlando di poesia. Allora quella strada non era ancora un “centro commerciale all’aperto”: c’era un’aria di libertà che oggi si è un po’ persa. Non è un male, riflette un benessere maggiore, ma anche una certa superficialità.
Le nuove generazioni sono cresciute in un contesto più stabile e prevedibile; forse i loro figli vivranno esperienze diverse. La Romania, però, guarda ancora molto all’esterno, desidera somigliare alla Francia o alla Germania. In inglese si direbbe anxiety of influence: non vuoi essere influenzato, ma finisci per esserlo.
È entrata nel “gioco” dell’Unione Europea e della NATO un po’ più tardi, cercando di capire le regole e, per ora, giocando per imitazione. Ma i romeni non sono né tedeschi, né francesi, né italiani: devono trovare il proprio equilibrio. Spesso si guarda al passato, al periodo interbellico, come a un’età d’oro. Ma non credo si voglia davvero tornare lì. L’autenticità non sta nella nostalgia, ma nella capacità di creare una sintesi viva di ciò che esiste qui e ora.
Come emigrato, cosa ti colpisce e cosa ti fa riflettere qui?
Essere un emigrato ti dà una libertà particolare: vivi le cose con coinvolgimento, ma anche con distanza. Negli Stati Uniti seguo ciò che accade, ma da lontano; lo stesso succede qui. Non sono immerso fino in fondo, e questo mi aiuta a osservare con curiosità, senza la pressione del “noi”.
In Romania ho imparato a guardare anche ciò che non mi piace con una certa ingenuità — quella che a volte porta soluzioni nuove. Ogni regione ha un’anima diversa: la Moldavia, la Transilvania, il sud più balcanico… mi affascina questa varietà — il modo di parlare, di mangiare, persino di comportarsi. Una volta mia suocera mi ha chiesto ridendo: “E dove ti piace di più? Dove sono le persone più pulite, più belle, più laboriose?” — e in fondo questa domanda dice molto sullo spirito del Paese.
Certo, ci sono contrasti che mi fanno riflettere, come nello sviluppo urbano: si costruisce ovunque, si perdono spazi verdi, e spesso manca una visione comune. Si teme di ripetere gli errori del passato, ma nel frattempo la città cresce in modo disordinato. Forse servirebbe solo un po’ più di fiducia nel costruire insieme, con equilibrio.
Dobbiamo aspettarci un nuovo libro di poesia o stai pensando di passare alla prosa?
Forse un giorno arriverò alla prosa — mi piacerebbe — ma per ora mi sento più vicino alla poesia per via della sua forma breve. Ho anche sperimentato con il disegno e la poesia visiva, e credo che, col tempo, mi piacerebbe unire le arti: parole, musica, immagini.
C’è una storia che mi piace: Leonard Cohen chiese a Bob Dylan quanto ci avesse messo a scrivere una canzone, e lui rispose “quindici minuti”. Poi Dylan chiese a Cohen quanto gli fosse servito per Hallelujah, e Cohen disse: “Sette… anzi, undici anni.”
Cohen aveva un’intelligenza sperimentale, Dylan una concettuale. Io credo di essere più come Dylan: le idee mi arrivano già formate, mentre la prosa richiede invece un’attenzione lunga, paziente. Forse ci arriverò, ma per ora voglio continuare a sperimentare e semplicemente guardare la vita da più finestre.
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