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Ex prigionieri di guerra, internati politici, soldati sbandati: sia in Italia sia in Jugoslavia, alla lotta di liberazione dal nazifascismo parteciparono combattenti provenienti dall'altra sponda dell'Adriatico. Un'esperienza quasi dimenticata
L'ottantesimo anniversario della liberazione dall'occupazione nazifascista dell'Italia durante la Seconda Guerra Mondiale – che cade quest'anno – coincide con una fase di rigurgito della retorica nazionalista e di estrema destra in tutta Europa.
Per questo assume un valore cruciale il recupero della memoria collettiva della Resistenza come fenomeno non solo nazionale ma anche transnazionale, per riconoscere la dimensione europea dell'esperienza della lotta per la liberazione.
Questo lato della Resistenza – quello dei partigiani che presero parte a movimenti di liberazione in Paesi diversi dal loro – è tra i meno conosciuti nella storia della guerra partigiana, come conferma il caso degli italiani in Jugoslavia e degli jugoslavi in Italia. Ex prigionieri di guerra, internati politici e civili, soldati sbandati dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 che, con modalità differenti, decisero di collaborare con i partigiani locali.
Jugoslavi in Italia: più guerre in una
"La stragrande maggioranza dei partigiani stranieri in Italia erano ex prigionieri prima dell'armistizio. Nel caso degli jugoslavi, dobbiamo distinguere fra tre diverse categorie", spiega lo storico Eric Gobetti.
La prima è quella dei prigionieri di guerra, ovvero membri dell'esercito monarchico jugoslavo catturati nel 1941 durante l'invasione italiana nei Balcani e internati soprattutto nei campi del Nord Italia: "Erano circa ventimila al momento dell'8 settembre [1943], quasi tutti serbi e montenegrini".
La seconda categoria è quella dei circa cinquantamila internati civili che, come spiega Gobetti, "erano in parte partigiani, in parte abitanti dei luoghi della Resistenza deportati dopo i rastrellamenti del 1942-1943".
I campi per costoro sul territorio italiano si trovavano non solo vicino al confine orientale, dove furono internati in gran parte donne e bambini, ma anche nell'Italia centrale, come quelli di Renicci (Toscana) e Colfiorito (Umbria) per uomini adulti "perlopiù partigiani".
E poi c'erano gli attivisti politici che si trovavano al confino, "spesso cittadini italiani di nazionalità slovena o croata, provenienti dalle regioni del confine orientale" (Istria, Fiume, Capodistria, Trieste).
In molti casi questi giovani politici divennero leader di bande partigiane dopo l'armistizio, come nel caso di Anton Ukmar. Attivista del Partito comunista italiano, sloveno di Trieste, dopo l'esperienza di lotta con i partigiani etiopi negli anni Trenta divenne comandante di zona in provincia di Genova durante la Resistenza, e "dopo la guerra si trasferì in Jugoslavia e ne prese la cittadinanza", racconta Gobetti.
Dopo lo sfaldamento dello Stato fascista l'8 settembre 1943, mentre la maggioranza dei prigionieri jugoslavi cercò di fare ritorno alle proprie case, "una minoranza partecipò al movimento di Resistenza" – soprattutto gli evasi che avevano trovato accoglienza tra le Alpi e gli Appennini.
Gli attivisti cercarono di entrare nelle bande partigiane locali, mentre gli ex ufficiali dell'esercito jugoslavo (spesso conservatori) "finirono per essere coinvolti dopo essere stati ricercati dai partigiani italiani per le proprie competenze militari".
La parte più consistente di questi partigiani di origine jugoslava era costituita dai prigionieri civili, soprattutto i montenegrini di Colfiorito e gli sloveni/croati di Renicci. Gobetti sottolinea che, "in quanto partigiani o simpatizzanti, erano convinti nel prendere le armi", e trovarono il supporto di molti ex confinati, anche sloveni e croati provenienti dall’area di frontiera italo-jugoslava.
È così che l'incrocio tra leader che parlavano la lingua dei popoli jugoslavi e uomini che avevano già avuto esperienza partigiana "rese di massa il fenomeno nell'Italia centrale", sostiene Gobetti. Vi si trovavano sia bande miste (quella guidata dall'istriano Mario Depangher era composta per esempio anche da afrodiscendenti, ebrei e prigionieri britannici), sia esclusivamente jugoslave: "Il battaglione Tito, poi brigata Gramsci, era guidato da un montenegrino con un commissario politico italiano".
Tra le azioni più rilevanti non si può non menzionare la Repubblica partigiana di Norcia e Cascia (in provincia di Perugia). "Si trattò del primo territorio liberato in Italia, da partigiani non italiani", ricorda Gobetti, parlando dell'occupazione di una delle vie di collegamento tra Roma e il Nord Italia "più strategiche per l'esercito tedesco in ritirata".
Ma fu l'estate del 1944 il momento della svolta. Con l'avanzamento del fronte verso nord (dalla linea Gustav alla linea Gotica), i partigiani jugoslavi del Centro Italia vissero una nuova esperienza "sconosciuta ma straordinaria".
Tra la fine del 1943 e il 1944 la Puglia divenne il centro logistico della Resistenza jugoslava, grazie a un accordo tra il suo leader Tito e il Primo ministro britannico Churchill: furono creati ospedali, centri di reclutamento e addestramento, una marina e un'aeronautica militare partigiana.
Gobetti sottolinea che "decine di migliaia di partigiani si addestrarono in Puglia e poi ritornarono in Jugoslavia, praticamente combattendo quattro guerre diverse in una sola". Combattenti catturati in patria e internati in Italia, dopo l'armistizio divennero partigiani nel Centro Italia, prima di trasferirsi in Puglia per essere ri-addestrati e tornare infine in Jugoslavia per partecipare di nuovo alla propria guerra di liberazione.
Italiani in Jugoslavia: la difficile scelta post-8 settembre
Dall'altra parte dell'Adriatico, le motivazioni che spinsero numerosi italiani ad aderire al movimento partigiano jugoslavo variavano a seconda delle regioni in questione. Dopo la rapida e vittoriosa invasione del Regno di Jugoslavia da parte dell'Asse nazi-fascista nell'aprile 1941, l'Italia assunse il controllo del territorio che si estendeva dalla Venezia Giulia al Montenegro. Dallo Stato fantoccio noto come "Stato indipendente di Croazia" l'Italia annesse gran parte della Dalmazia, ad eccezione di un piccolo tratto di costa e di alcune isole.
"Già nel 1941 i comunisti jugoslavi speravano che i soldati italiani, in nome della solidarietà proletaria, avrebbero risposto positivamente al loro appello a unirsi al movimento partigiano nella lotta contro il fascismo", spiega lo storico sloveno Jože Pirjevec. La realtà era però ben diversa: i soldati italiani si comportavano "in modo altrettanto crudele dei tedeschi, ma non erano così organizzati ed efficaci".
Dopo la capitolazione dell'8 settembre 1943, le truppe italiane di stanza in Jugoslavia si trovarono però improvvisamente isolate, in una "situazione disperata". I tedeschi minacciarono di bollarli come traditori se non avessero continuato a combattere dalla loro parte: la maggioranza rifiutò e fu catturata, mentre un piccolo numero riuscì a tornare in patria con l'aiuto della popolazione locale.
"I soldati delle divisioni Taurinese e Venezia seguirono un percorso nettamente diverso. In Montenegro, invece di arrendersi alle forze tedesche, molti scelsero di schierarsi con i partigiani", racconta Pirjevec.
La loro decisione fu accolta con favore, poiché i partigiani locali avevano urgente bisogno di personale medico e di combattenti in grado di usare le armi pesanti recentemente sequestrate in combattimento. Queste truppe italiane finirono per formare la Divisione Garibaldi, integrandosi con combattenti di varie nazionalità all'interno del più ampio movimento partigiano in Jugoslavia.
Tuttavia, "non bisogna credere alla propaganda secondo cui si sarebbero improvvisamente trasformati da fascisti a comunisti", avverte lo storico sloveno. "Quando il feldmaresciallo britannico Alexander visitò il fronte della Sirmia nel febbraio 1945, incontrò alcuni italiani che avevano una stella rossa sui berretti. Chiese loro perché la indossassero e loro risposero: 'Perché vogliamo sopravvivere'".
D'altra parte, Pirjevec sottolinea il contributo spesso trascurato dei lavoratori di Trieste e Monfalcone che si unirono invece ai partigiani sloveni "per motivi ideologici". Fondarono la Brigata Triestina, che combatté all'interno del IX corpo d'armata del movimento partigiano sloveno, mentre la divisione friulana Garibaldi Natisone, legata al Partito comunista italiano, collaborò strettamente con lo stesso corpo d'armata come unità indipendente.
Una figura dimenticata proveniente dalle fila dell'esercito regolare italiano è il generale Guido Cerrutti. Già nell'aprile 1941, anticipando il crollo dell'Italia fascista, da comandante della divisione di fanteria Isonzo stabilì contatti con i partigiani sloveni, per poi unirsi a loro.
Una storia quasi dimenticata
"Non c'è una volontà di censura, più semplicemente quasi nessuno è interessato a rendere pubbliche queste vicende, né in Italia né nei Paesi dell'ex Jugoslavia", sostiene lo storico italiano Eric Gobetti. Eppure il punto di partenza era diverso.
"Essendo l'unico caso in Europa in cui la Resistenza ha liberato il Paese con le proprie forze, per la Jugoslavia socialista l'esperienza partigiana era un'epopea di cui vantarsi", incluso il contributo fornito dai propri connazionali a lotte partigiane all'estero e quello fornito da stranieri in Jugoslavia: "L'internazionalismo faceva parte dell'ideologia comunista che aveva guidato quella lotta di liberazione", ricorda Gobetti.
Al contrario, in Italia la Resistenza è stata celebrata soprattutto come lotta di liberazione nazionale dall'invasione straniera: "la presenza dei partigiani stranieri non rientrava in questa narrazione, a maggior ragione per quelli che venivano da Paesi nemici nel dopoguerra", precisa Gobetti.
Ottant'anni dopo, l'oblio calato su queste esperienze di Resistenza transnazionale è invece comune. "In Italia il problema si è aggravato, con lo stereotipo diffuso dei partigiani jugoslavi come crudeli sterminatori di italiani sul confine orientale". Di nuovo, secondo Gobetti "ricordarli non rientra in questa narrazione di fatto nazionalista".
Dall'altra parte dell'Adriatico, invece, dopo la dissoluzione della Jugoslavia negli anni Novanta, "non c'è nessuno Stato erede che ha interesse a ricordare la resistenza unitaria, considerato che si sono tutti formati combattendo proprio contro quella Jugoslavia unita".
Un caso particolare è l'Istria, dove il ricordo della partecipazione italiana al movimento partigiano è meglio conservato per diverse ragioni. Non solo per la presenza di una forte comunità italiana, ma anche per il fatto che questa regione è rimasta largamente ai margini del conflitto tra croati e serbi negli anni Novanta e alla demonizzazione dell'esperienza antifascista comune, che si espresse nella devastazione di molti monumenti antifascisti in tutta la ex Jugoslavia.
All'inizio di aprile 2025 in Istria è stato commemorato l'81° anniversario della fondazione del Battaglione Pino Budicin. Il partigiano istriano di origine italiana Budicin fu uno dei comandanti chiave della Resistenza a Rovigno e nella regione, facendo da ponte tra italiani e croati all'interno del movimento istriano.
Dopo la sua uccisione da parte dei nazisti nel febbraio 1944 fu formato un battaglione a lui dedicato composto esclusivamente da italiani, che combatterono nell'ambito della Brigata Vladimir Gortan. In Istria strade, toponimi e persino l'associazione locale degli italiani nella città natale di Budicin portano ancora il suo nome.
Questo articolo è stato prodotto in collaborazione con la testata croata H-Alter nell'ambito di PULSE, un'iniziativa europea coordinata da OBCT che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali.
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