Istanbul

Un 2007 difficile per la Turchia, alle prese con un doppio appuntamento elettorale e con la ripresa della violenza nell'est del Paese. Si interrompe il processo riformatore, riemerge un nazionalismo rancoroso nei confronti di stranieri e minoranze. L'analisi del nostro corrispondente

10/01/2008 -  Fabio Salomoni Istanbul

Se questi giorni sono solitamente dedicati a tracciare bilanci del recente passato e fare incetta di speranze per il futuro, non si può certo dire che nel caso della Turchia il 2007 se ne sia andato lasciandosi dietro di sé grandi rimpianti. Guardandosi alle spalle è piuttosto la sensazione di sollievo a prevalere.

"Un anno perduto". L'espressione usata da alcuni commentatori sintetizza efficacemente il sentimento di delusione per la lunga lista di aspettative andate disattese.

Il primo semestre dell'anno ha visto il blocco quasi totale non solo del processo riformatore ma anche degli sforzi per applicare le riforme già realizzate. Il doppio appuntamento elettorale, per l'elezione di governo e del presidente della repubblica, ha indotto governo, e opposizione, a defilarsi evitando le questioni più delicate e dirottando l'attenzione sulle polemiche personali oppure cavalcando la sempre generosa onda del nazionalismo. Di più, la prospettiva di un nuovo successo di Erdoğan ha seminato il panico tra coloro che hanno preteso per sé il certificato di "difensori della laicità e della modernità" e le cui mobilitazioni hanno portato il paese sull'orlo di una pericolosa spaccatura. E la minaccia di un intervento da parte dei militari ha mostrato quanto sia ancora fragile la democrazia turca.

Quando si guarda oggi il presidente della repubblica che chiacchiera amabilmente con il capo di stato maggiore mentre la signora Gül, il cui capo velato sembrava pochi mesi fa rappresentare una minaccia mortale per la repubblica, è finita nel dimenticatoio, appaiono ancora più lontani quei giorni in cui le piazze gridavano al pericolo della "iranizzazione" del paese.

A distanza di mesi è ancora più evidente come l'interrogativo di fondo che aleggia su Erdoğan e il suo partito non sia quello che riguarda il suo presunto carattere islamista ma piuttosto se l'idea di "democrazia conservatrice", di cui l'AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) si fa portatore, sia sufficientemente democratica per trainare il processo riformatore.

Il governo Erdoğan avrà la forza, e la volontà, di modificare i rapporti tra lo stato, vero deus ex machina della scena turca, la società e la politica nella direzione di rafforzare queste ultime e con esse la democrazia ed i diritti fondamentali oppure sceglierà la strada di un compromesso che non metta in discussione gli equilibri consolidati?

Presentatosi come il partito che sfidava il sistema, nell'anno passato l'AKP ha invece progressivamente mostrato la tendenza ad assorbirne caratteri e atteggiamenti fondamentali. Che si sia trattato di una necessità dettata dal perenne stato di emergenza, lo si deve riconoscere, in cui Erdoğan si è trovato ad agire oppure il segno del pragmatismo di un partito che mira a consolidare le proprie posizioni, lo si capirà probabilmente nel prossimo futuro.

E del resto uno sguardo all'opposizione conferma come l'AKP rimanga al momento il destinatario più credibile delle speranze riformatrici. Come commentare altrimenti il fatto che i due principali partiti d'opposizione, CHP (Partito Repubblicano del Popolo) e MHP (Partito di Azione Nazionale), nei loro quotidiani attacchi al governo non hanno mai, significativamente, avuto niente da ridire a proposito delle sue reticenze riformatrici? Oppure del partito curdo DTP, che certo soffre di una certa sterilità progettuale ma che è stato bersaglio, fin dal giorno successivo alle elezioni, di uno stillicidio di attacchi che ne mettono in dubbio la stessa sopravvivenza?

Il 2007 è stato anche l'anno che ha visto soffiare più forti nelle strade i venti di un nazionalismo rancoroso che ha rivestito nuove inquietudini con vecchie paure, mai elaborate. Gli stranieri, le minoranze, la fobia del missionario cristiano, a dimostrazione che nel nazionalismo la dimensione etnico-politica e quella religiosa sono talmente intrecciate da rendersi indistinguibili. Sono in molti ad averne fatto le spese. A cominciare dal giornalista armeno Hrant Dink, assassinato il 19 gennaio, per continuare con i tre "cristiani" massacrati a Malatya per continuare con una lunga scia di aggressioni e un clima sociale avvelenato. Un esempio, tratto dalla cronaca recente, racconta di come una lite tra inquilino e proprietario di casa, conclusasi tragicamente con l'uccisione di quest'ultimo, possa trasformarsi ben presto in un micro-conflitto etnico. La folla ha attaccato la casa dell'omicida, un curdo, lanciando slogan contro il PKK.

Proprio il PKK e la ripresa della violenza nell'Est del paese hanno mantenuto alta la tensione nel secondo semestre dell'anno, quando, dopo le elezioni, si sperava in un ritorno alla normalità.

Il governo ha saputo gestire le pressioni dell'opinione pubblica resistendo alle tentazioni di un intervento militare su larga scala nell'Iraq del Nord e consentendo "solo" spettacolari raid aerei destinati soprattutto a tranquillizzare un pubblico che molti grandi organi di informazione, e non solo, avevano sapientemente arruolato per "la madre di tutte le battaglie".

In questo clima non stupisce certo che nel 2007 l'opinione pubblica, e le autorità politiche, turche si siano pressochè dimenticate dell'Europa, grazie anche all'effetto Sarkozy.

Un anno da dimenticare quindi che si è concluso con una bomba che nelle periferie di Istanbul ha ucciso una donna e seminato feriti.

Ed anche il nuovo anno si è aperto con il fragore di un'esplosione. A Diyarbakir un autobomba, innescata a distanza da un cellulare, è esplosa al passaggio di un autobus carico di militari. Il tutto nel centro città, davanti ad una scuola, poco prima dell'uscita di 700 studenti. Il bilancio è di sei morti, cinque studenti ed il padre di un loro compagno, e 67 feriti. Ieri la polizia ha fermato un giovane, del quale non si conosce l'identità, sospettato di essere l'autore materiale dell'attentato. Le fonti di polizia raccontano che il giovane sarebbe stato addestrato nelle basi del Nord Iraq. In serata un dirigente del PKK in un intervento al canale ROJTV ha chiesto scusa alla popolazione di Diyarbakir specificando che l'attentato non è stato deciso dalla direzione dell'organizzazione ma "da gruppi locali autonomi".

L'esplosione di Diyarbakir ricorda dolorosamente al paese come, piuttosto che sulle montagne irachene, il problema curdo sia dentro i confini nazionali e qui deve trovare una, urgente, soluzione.

Gli esponenti del governo hanno tenuto a confermare la loro decisione nella lotta al terrorismo ed anche la volontà di continuare sul cammino delle riforme. Ma a quali riforme pensa Erdoğan? Il primo ministro, a Diyarbakir in visita ai feriti, ha incontrato anche i battaglieri rappresentanti della società civile locale. "Cosa fareste se foste al mio posto?" ha chiesto. E a chi gli suggeriva di cominciare magari col permettere l'istruzione in lingua curda ed aprire istituti di Curdologia nelle università del paese, ha risposto categorico "Assolutamente impossibile. Se poi chiedessero la stessa cosa anche gli altri gruppi etnici, cosa faremmo?".

Ormai indifendibile quella fondata sull'inesistenza della lingua curda, da tempo la roccaforte dietro la quale si trincerano i difensori della purezza della società omogenea è basata sull'assunto per cui sarebbe impossible riconoscere le, eventuali, rivendicazioni degli altri gruppi etnici del paese, pena il caos e la dissoluzione dell'unità nazionale. Ed è una tesi che sembra piacere anche al primo ministro.

Nelle prossime settimane il calendario politico prevede due importanti scadenze: il dibattito per la riforma del famigerato articolo 301 del codice penale e la presentazione del progetto per la nuova costituzione, entrambi annunciati come imminenti da Erdoğan. Soltanto allora sarà possibile capire se il 2008 merita l'ottimismo dovuto ad ogni nuovo anno che si apre.


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