Piazza Majdan (foto P. Bergamaschi)

Piazza Majdan (foto P. Bergamaschi)

L’Accordo di Associazione con l’Unione europea, che aveva scatenato la rivoluzione del Majdan, non è ancora stato attuato. Ma questa volta la colpa non è di Kiev, ma di Bruxelles

10/11/2016 -  Paolo Bergamaschi

Cielo imbronciato sul Majdan. Nubi compatte strozzano i timidi raggi del sole acerbo del mattino che non ha ancora la forza di riscaldare gli incerti passanti che tagliano la piazza. Qualche piccione arruffato saltella sul selciato danzando attorno ad un presidio di testimoni di Geova pronti ad intercettare gli incauti avventori dei locali del centro distribuendo loro bibbie che certificano la parola di Dio. Nel mezzo si staglia un grande poster con le foto delle vittime dell’eccidio del febbraio di due anni prima, perite in quello stesso luogo sotto il fuoco dei cecchini dei famigerati corpi speciali della polizia di Yanukovich. Di fianco la sede dei sindacati che ospitava il quartiere generale dei manifestanti è impacchettata dalle impalcature sulle quali muratori e carpentieri provvedono alle laboriose opere di restauro dopo l’incendio scoppiato durante gli scontri di allora.

Foto delle vittime in piazza Majdan (foto P. Bergamaschi)

Foto delle vittime in piazza Majdan (foto P. Bergamaschi)

Lungo il corso Kreshatik il traffico procede a strappi scanditi dal ritmo dei semafori. Fatico ad orientarmi in questa piazza dove ritorno dopo una lunga assenza. Mi guardo intorno spaesato nello spazio vuoto mentre nella mia testa scorrono e si sovrappongono alla rinfusa immagini e ricordi di angoli famigliari che stento a riconoscere adesso che hanno riacquistato le grigie sembianze della routine quotidiana. La normalità annoia e uccide la fantasia ma non cancella il passato recente, un passato che a tratti riappare e continua a ingombrare i sogni e le ambizioni dell’Ucraina.

Il referendum olandese

Tutto era cominciato nell’ottobre del 2013 quando l’allora presidente Yanukovich si era improvvisamente rifiutato di sottoscrivere l’Accordo di Associazione con l’Unione Europea da lui stesso negoziato e concluso. Sono trascorsi tre anni nei quali in Ucraina è accaduto di tutto, fra dimostrazioni spontanee, proteste più o meno pacifiche, sommosse e rivoluzioni, occupazioni di spazi pubblici, azioni di resistenza attiva, scontri violenti con la polizia, esecuzioni di massa, cambio di regime, invasioni camuffate, guerre di secessione, conflitti congelati con migliaia di vittime e milioni di profughi, e quell’accordo non ha ancora trovato attuazione.

Questa volta, tuttavia, non è colpa di Kiev, è la controparte europea che non è in grado di far fronte agli impegni presi. Basta poco per inceppare i contorti e farraginosi meccanismi decisionali dell’Unione a testimonianza di quanto fragile, delicata e complicata sia la macchina comunitaria. Ogni accordo internazionale sottoscritto dall’Ue per entrare in vigore deve essere ratificato secondo le procedure previste dai trattati e in conformità con le norme stabilite dall’ordinamento giuridico di ciascuno dei paesi membri. In parole povere occorre il consenso del Consiglio e del Parlamento Europeo da un lato e quello dei governi e dei parlamenti nazionali dei paesi membri, oltre che del paese terzo, dall’altro. Se manca anche uno solo di questi passaggi l’accordo resta lettera morta, buono solo per la tesi di laurea di qualche studente di scienze politiche o di qualche saggio o dissertazione accademica.

In genere il tempo tecnico che intercorre fra la firma ufficiale del documento e la conclusione della procedura di ratifica è di circa un paio di anni. Non era mai successo, in precedenza, che un paese membro bloccasse l’iter procedurale dopo la firma ufficiale delle parti, avvenuta, in questo caso, il 27 giugno del 2014. Il 6 aprile scorso, però, i cittadini olandesi sono stati chiamati a pronunciarsi tramite referendum sull’approvazione dell’accordo fra Unione Europea e Ucraina e una schiacciante maggioranza, il 61% dei votanti, ha espresso parere contrario. Poco importa se il risultato non è vincolante trattandosi di una consultazione priva di valore giuridico; di fatto il governo dell’Aja si è sentito nell’obbligo di sospendere la notifica a Bruxelles, ultimo passaggio tecnico, della ratifica parlamentare approvata a stragrande maggioranza pochi mesi prima gettando nel panico le autorità europee.

L’iniziativa referendaria era stata promossa da gruppi euroscettici decisi ad interrompere il processo di integrazione del vecchio continente. Più che dell’accordo in sé nel corso della campagna si è discusso di politiche comunitarie e nelle urne si è sfogata la rabbia di coloro che reputano l’Unione responsabile di tutti i mali che affliggono l’Olanda. Con il risultato che poco più di due milioni e mezzo di elettori olandesi hanno dato scacco alla diplomazia europea, ai ventotto governi dei paesi membri e ai rispettivi ventotto parlamenti nazionali con l’Ucraina vittima innocente e impotente delle contorsioni epilettiche dell’opinione pubblica dei Paesi Bassi.

Si tratta di capire, ora, se e come è possibile andare avanti. L’accordo di associazione, infatti, è di natura mista cioè in parte di competenza esclusiva dell’Unione, che non ha bisogno quindi della ratifica dei parlamenti nazionali, e in parte di competenza condivisa che richiede, invece, il consenso di questi ultimi. Così dal primo gennaio 2016 i capitoli di prerogativa comunitaria, che riguardano gli scambi commerciali e le misure economiche relative, vengono applicati in via provvisoria mentre per quanto riguarda il resto, che ha valenza soprattutto politica, il giudizio è sospeso in attesa di attento esame degli azzeccagarbugli di Bruxelles chiamati dalle autorità olandesi a sbrogliare la matassa. In questa paradossale situazione una cosa è sicura: il pasticcio non si risolverà, per ovvie ragioni, prima delle elezioni legislative che si terranno nei Paesi Bassi nella primavera del prossimo anno con i populisti anti-europei che viaggiano con il vento in poppa. Povera Europa, bistrattata, sbeffeggiata e avvitata su se stessa in un turbine vertiginoso, e povera Ucraina impantanata e aggrovigliata in problemi che esulano in buona parte dal contesto nazionale proiettandosi sullo scenario della nuova guerra fredda che vede ancora una volta contrapposti i paesi occidentali e la Russia.

Lotta alla corruzione

Hugues Mingarelli è un funzionario di lungo corso passato al servizio diplomatico dell’Unione quando questo corpo fu creato nel gennaio del 2011. Sempre incaricato di occuparsi di aree di crisi, dai Balcani al Caucaso e, negli ultimi anni, ai paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, l’ho spesso incrociato nelle aule parlamentari dove gli eurodeputati lo interpellavano, spesso con domande fuori tema, sull’uso dei fondi comunitari e l’efficacia delle politiche di assistenza. Da qualche mese è stato nominato ambasciatore europeo in Ucraina. Spetta a lui, quindi, il coordinamento dei diplomatici che rappresentano a Kiev i 28 paesi membri. Ed è sempre lui che funge da moderatore all’incontro che apre la visita di questa nuova delegazione dell’eurocamera nella ex-repubblica sovietica.

Il primo a prendere la parola, lupus in fabula, è l’ambasciatore olandese che, non senza un certo imbarazzo, fa il punto della situazione sulla messa in atto dell’Accordo di associazione seguito da quello danese che sposta subito il discorso sull’altra grande malattia che affligge l’Ucraina, la corruzione. Era stato proprio il rifiuto nei confronti della corruzione dilagante una della cause predominanti che aveva spinto la gente nelle piazze durante i giorni della “rivoluzione della dignità”. Tangenti e mazzette erano la norma ai tempi di Yanukovich come, peraltro, lo erano ai tempi dei governi filo-occidentali precedenti ai quali, però, Bruxelles guardava con strabica indulgenza. Il nuovo corso ucraino poggia sulla lotta alla corruzione ma risulta difficile estirpare con le sole risorse umane autoctone un male radicato e ormai cronicizzato a tutti i livelli nelle strutture dello stato.

Nel quadro della variegata assistenza offerta a Kiev l’Unione Europea ha, così, messo a punto un programma specifico per combattere questa piaga ed ha incaricato la Danimarca, ai vertici nelle classifiche mondiali dei paesi meno corrotti, di attuarlo. “La corruzione è il cancro della società di questo paese”, sottolinea l’ambasciatore danese, “ma non si tratta di un tumore circoscritto rimovibile con un semplice intervento chirurgico, è qualcosa di sistemico, più simile a una leucemia che richiede una terapia totale a dosi massicce”. Uno dei primi provvedimenti del nuovo governo è stato l’istituzione dell’Agenzia Nazionale per la Lotta alla Corruzione che, però, manca ancora dei mezzi necessari per operare a pieno regime. Dal primo settembre, inoltre, è entrato in vigore per 40.000 funzionari statali l’obbligo della dichiarazione elettronica dello stato patrimoniale che impone ogni anno e per i tre anni successivi alla fine del mandato - anche ai politici che occupano cariche pubbliche - di rendere noti redditi e proprietà. Fonti ufficiose del ministero della Giustizia parlano di 500 giudici che per evitare la gogna mediatica di patrimoni sospetti abbiano preferito il pensionamento anticipato. Secondo alcune organizzazioni non governative paradossalmente oggi l’Ucraina è diventata, così, il paese più corrotto e, allo stesso tempo, più trasparente d’Europa.

Non c'è pace nel Donbass

Nel Donbass si continua a morire. Sono rari i giorni in cui i bollettini che arrivano dalla linea del cessate-il-fuoco non riportano vittime. Dal primo settembre è entrata in vigore l’ennesima tregua già violata dalle parti in numerose occasioni con scambi di accuse e attribuzioni reciproche di responsabilità. Nonostante Mosca insista nel negare ostinatamente ogni coinvolgimento diretto nel conflitto, si spara e ci si ammazza da ambo le parti con armi russe. Con gli insorti, però, operano anche 6000 soldati dell’ex armata rossa intruppati in battaglioni più o meno regolari.

Il quartetto incaricato di portare avanti il processo di pace, composto da Ucraina, Russia, Francia e Germania, si incontra regolarmente così come frequenti sono i colloqui telefonici fra Merkel, Putin e Hollande ma agli impegni presi a parole non corrispondono i fatti. Difficile rimettere assieme i pezzi del mosaico dopo feroci e prolungati combattimenti che hanno lasciato sul terreno quasi 10.000 morti e provocato la fuga di tre milioni di persone fra sfollati interni e rifugiati riparati in Russia.

Il primo ministro Groysman (foto P. Bergamaschi)

Il primo ministro Groysman (foto P. Bergamaschi)

L’accordo negoziato a Minsk a febbraio prevedeva la cessazione delle ostilità, il ritiro dell’artiglieria pesante dalla linea di contatto, l’attribuzione di uno statuto speciale alle regioni orientali, il ritorno delle guardie regolari ucraine alla frontiera con la Federazione Russa, la liberazione dei prigionieri, l’amnistia per i secessionisti e le elezioni locali nel Donbass per definire il nuovo assetto istituzionale. Tutti concordi sui contenuti ma profondamente divisi sui tempi di attuazione. Per Kiev prevale la sequenzialità delle misure previste dagli accordi, per Mosca la sincronizzazione. Come è possibile tenere libere elezioni senza il pieno controllo dei confini, sostengono gli ucraini mentre i separatisti, spalleggiati dai russi, ribadiscono di non fidarsi della controparte volendo prima vedere fatti concreti.

Più che un piede in territorio ucraino a Mosca interessa un piede nello stato ucraino per controllarne, condizionarne o influenzarne le scelte. D’altronde un pezzo di Ucraina strategicamente più importante, la Crimea, è già saldamente in mano russa, annessa alla federazione dopo l’invasione strisciante del 2014. La penisola del Mar Nero è stata, oggi, trasformata in un’immensa base militare proiettata verso il medio-oriente in appoggio all’intervento delle forze russe in Siria, con buona pace delle strutture turistiche locali, quasi deserte, e dell’unica minoranza autoctona, quella tartara, messa a tacere con la forza. Le sanzioni occidentali mordono ma Mosca non demorde, nonostante barcolli sotto il peso di una situazione economica preoccupante. E all’opinione pubblica russa sembra interessare di più la proiezione esterna del paese, con lo status riacquisito di superpotenza, che la situazione interna come sottolineato dalla vittoria schiacciante del partito di Putin alle elezioni di settembre per il rinnovo della Duma.

“La Russia non mi spaventa”, mi dice Rune Glasberg, un collega finlandese, nella hall dell’hotel mentre sorseggiamo con lucida calma due dita di brandy ucraino. “Si può discutere di tutto ma una cosa è certa”, aggiunge ironico, “non è possibile cambiare la posizione geografica dell’Ucraina come non è possibile cambiare quella della Finlandia”. “A Helsinki da tempo si dibatte se aderire o meno alla Nato”, sottolinea “ma la discussione è pacata e, pur con opinioni contrastanti, nessuno si azzarda ad accusare l’altro di tradire il proprio paese come avviene invece a Kiev”. Rune, probabilmente, ha ragione ma è difficile applicare la ricetta finlandese ad un paese in guerra come è l’Ucraina odierna. Anche perché la stessa Finlandia, contravvenendo in parte alla propria storica neutralità, il 7 ottobre scorso ha sottoscritto un accordo bilaterale con gli Stati Uniti che ha molto irritato Mosca. I frequenti sconfinamenti russi nei paesi baltici, che spesso hanno il sapore di provocazione, sono visti con preoccupazione anche da chi, come la Finlandia, ha saputo costruire nel tempo una solida relazione di buon vicinato con l’ingombrante vicino subendone, in parte, l’irruenza fino ad autolimitare nel passato, più per timore che per scelta, l’orizzonte della propria politica estera. “Stiamo facendo la Russia più forte e l’Europa più debole di quanto non siano in realtà”, afferma Rune ma non sembra convinto di quello che dice.

Vittime

Incontrare le vittime di guerra è sempre un’esperienza toccante che lascia un segno profondo. Storie vissute e testimonianze dirette si intrecciano con emozione e dolore riattizzando lutti che, invece, bisognerebbe avere la forza, col tempo, di riassorbire e metabolizzare. Quella che racconta Volodymyr è un’esperienza terrificante. Nato nel Donbass e, come la maggior parte della popolazione della regione, di madre lingua ed etnia russa, allo scoppio della crisi era ritornato a casa dal luogo dove era emigrato per portare in salvo la famiglia. “C’erano soldati con uniformi senza mostrine per le strade che parlavano russo con un accento diverso, provenienti da chissà quale parte della federazione”, narra. “Nessuno spiegava quello che stava succedendo, nessuno rispondeva alle mie domande”, insiste con voce sommessa.

“Volevo ripartire ma non me lo hanno permesso così nella fuga sono saltato accidentalmente su una mina perdendo le braccia”, racconta mostrando gli arti amputati. Ferito e catturato dai separatisti volevano obbligarlo ad una confessione pubblica alla televisione ma lui si è rifiutato finendo in carcere da cui è uscito grazie ad uno scambio di prigionieri. “I russi vogliono un'Ucraina debole da annettere pezzo per pezzo”, dichiara sconfortato, “mentre io mi batto perché il mio paese si integri al resto d’Europa”. Volodymyr contraddice e sconfessa la narrativa di Putin secondo la quale i russi del Donbass erano discriminati da Kiev.

E’ netta l’impressione che senza la mano di Mosca la guerra non sarebbe mai scoppiata. Adesso, però, occorre voltare pagina e provare a costruire una pace che appare impossibile. Ho incontrato vittime di tante guerre e ho imparato che il dolore è un’esperienza che non appartiene esclusivamente ad una parte. E’ giusto e doveroso individuare torti e ragioni ma chi soffre ha il bisogno intimo di condividere e il primo passo verso la riconciliazione sarebbe quello di farlo con chi ha vissuto esperienze analoghe nel fronte opposto.

Senza visto

Uno dei capisaldi del Partenariato Orientale è la mobilità agevolata. Nel quadro dell’assistenza offerta, Bruxelles mette a disposizione dei cittadini dei paesi che ne fanno parte la possibilità di entrare nell’Unione senza l’obbligo del visto, il cui ottenimento è, attualmente, costoso, complicato e, per certi versi, umiliante. Per avere questa concessione, però, occorre soddisfare una lunga lista di requisiti che richiedono l’adeguamento di tutti gli organi dello stato, degli apparati, delle normative e dei sistemi coinvolti. Sono estremamente elaborate e minuziose le procedure tecniche e burocratiche che bisogna aggiornare o creare ex novo, dall’introduzione dei passaporti biometrici allo scambio elettronico dei dati, per ottenere il via libera degli inflessibili ispettori della Commissione Europea, inviati periodicamente in loco a verificare l’applicazione degli accordi. E anche quando, poi, tutto sembra a posto dal punto di vista tecnico e amministrativo l’ultima parola spetta, comunque, sempre a Bruxelles, in particolare ai ministri degli Interni dei paesi membri che fino all’ultimo resistono, recalcitrano e si contorcono prima di dare l’agognato semaforo verde.

All’Ucraina ci sono voluti otto anni per concludere l’iter e anche dopo avere ottemperato a tutte le clausole previste non ha ancora ottenuto il sospirato Ok. La questione della liberalizzazione dei visti continua ad essere al primo posto nell’agenda delle relazioni bilaterali fra Kiev e Bruxelles ma i vertici dell’Unione nicchiano trovando sempre nuovi pretesti per rimandare la decisione definitiva che le autorità ucraine sperano possa avvenire prima della fine dell’anno. D’altronde, in piena emergenza migranti, nessun ministro europeo ha il coraggio di prendersi la responsabilità di aprire ulteriormente le porte dell’Unione ad altri potenziali ospiti indesiderati. Non importa se si tratta solo di visti brevi che non contemplano il permesso di lavoro; l’ossessione dell’immigrato è talmente forte da spaventare qualsiasi politico con il risultato che da una parte l’Unione Europea è incapace di mantenere le promesse fatte e dall’altra, nei paesi partner, aumenta il senso di frustrazione e la rabbia di chi si sente preso in giro.

Cinque per cento. A tanto ammonta la percentuale di bilancio che anche quest’anno il governo di Kiev ha destinato alla difesa. Si tratta di una spesa enorme per un paese che era sull’orlo del tracollo economico. Eppure negli ultimi mesi si sono registrati segnali incoraggianti. Dopo la caduta rovinosa del prodotto interno lordo nel 2014 il paese è lentamente tornato a crescere e ha raggiunto la stabilità macro-finanziaria. In due anni le riserve di valuta straniera sono aumentate di cinque volte con il deficit che è sceso dal 10% a poco più del 3. La nuova Ucraina guarda a occidente. La maggioranza degli scambi commerciali è con l’Unione Europea mentre diminuiscono verticalmente quelli con la Russia. Già, la Grande Madre Russia che affonda le radici storiche in Ucraina e che non vuole rassegnarsi al fatto che i figli prima o poi possano recidere il cordone ombelicale. Le famiglie allargate hanno il pregio di offrire più stimoli e opportunità di crescita. L’Ucraina di oggi non rinnega o disconosce le origini ma ha deciso di liberarsi di un abbraccio soffocante che rischiava di diventare mortale. C’è ancora tempo e spazio per una rappacificazione a condizione che le madri riconoscano i diritti dei figli e non pretendano di avere l’ultima parola sulle loro scelte. Compresa quella di cercarsi una nuova casa e progettare un futuro diverso. Nell’attesa che a Bruxelles si diano una mossa.


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