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Dieci attivisti arrestati per "sostegno al terrorismo" nella Turchia delle purghe e dei sospetti emersa dal fallito golpe del luglio 2016. Nuove accuse che sollevano dubbi e sconcerto

20/07/2017 -  Dimitri Bettoni Istanbul

Conosco Veli Acu da due anni, da quando mi recai a Şanlıurfa, città nel sud est della Turchia, per un reportage di OBCT sull'allora montante questione dei rifugiati dalla Siria. Veli al tempo lavorava per “Hayata Destek”, una Ong turca con progetti di solidarietà in molte aree del paese. Ricordo in modo vivido il caldo asfissiante che accompagnava le distribuzioni di aiuti alle famiglie siriane nelle campagne lungo il confine, ma anche la generosa ospitalità di Veli e di altri colleghi. L'anno scorso si è trasferito nella poco lontana Gaziantep, dove ha cominciato a lavorare per il Programma Alimentare Mondiale (WFP), agenzia delle Nazioni Unite.

La sorpresa arriva il 6 luglio scorso, dopo il messaggio di un'amica. Sfogliando la rassegna stampa turca, scopro dalle prime pagine di alcuni quotidiani vicini al governo che Veli sarebbe in realtà una spia occidentale, della CIA americana o dell'MI6 inglese.

È stato arrestato il 5 luglio scorso sull'isola di Büyükada, poco lontana da Istanbul, mentre con altri nove cospiratori – almeno secondo le accuse - pianificava una nuova protesta di massa in stile parco Gezi, con tanto di mappa della Turchia, allo scopo far ripiombare il paese nel caos. Il tutto approfittando della copertura di un evento di formazione sulla sicurezza informatica organizzato da Amnesty.

Gli altri nove attivisti dipinti sulle pagine di certi giornali come spie al soldo delle potenze straniere sono: Idil Eser (direttrice Amnesty Turchia), Özlem Dalkıran e Nalan Erkem (Helsinki Citizens Assembly), Günal Kurşun (Human Rights Agenda Association), İlknur Üstün (Women's Coalition), Nejat Taştan (Association for Monitoring Equal Rights), Şeyhmus Özbekli (Rights Initiative), Ali Garawi e Peter Steudtner (i docenti del workshop a cura di Anmesty).

Parola di Orhan Deligöz, parlamentare Akp, a cui credo difficilmente verrà chiesto di fornire prova di queste sue rivelazioni a mezzo stampa. Il parlamentare ha rilasciato diverse dichiarazioni nelle ultime due settimane, nelle quali sostiene di essere in possesso di documenti che provano l'accusa di spionaggio a carico degli attivisti; documenti ottenuti da fonti non specificate tra le quali amici presenti all'hotel in cui il workshop si è tenuto. Secondo Deligöz, nel retro di questo hotel sarebbero avvenute riunioni segrete con scopi sovversivi.

A queste accuse pare non aver creduto nemmeno il tribunale di Çağlayan ad Istanbul: non solo non ha ritenuto utile convocare Deligöz come testimone informato sui fatti, ma lunedì 17 luglio ha infine spiccato un mandato d'arresto in cui non v'è traccia dell'imputazione di spionaggio. Invece l'accusa è quella divenuta un mantra per chi segue le vicende turche: sostegno al terrorismo.

Secondo il mandato, sei dei dieci attivisti (oltre a Veli anche Idil Eser, Özlem Dalkıran, Günal Kurşun, Ali Garawi e Peter Steudtner) avrebbero organizzato l'evento senza fornire previa notifica alle autorità, dietro la copertura di attività di formazione e allo scopo di insegnare come nascondere informazioni alla polizia ed a terze parti. Alcuni degli attivisti sono inoltre accusati di avere tra i propri contatti utilizzatori di Bylock, l'applicazione di messaggistica che i membri della comunità di Gülen, ritenuta dal governo responsabile del tentato golpe del luglio 2016, avrebbero utilizzato diversi anni fa per comunicare tra loro. Nalan Erkem, İlknur Üstün, Nejat Taştan e Şeyhmus Özbekli sono invece stati rilasciati con obbligo di firma: le indagini proseguiranno anche per loro.

Chi ha assistito all'interrogatorio preliminare mi ha riferito che le domande degli inquirenti hanno toccato solo marginalmente il workshop di Amnesty. Hanno invece riguardato la rete di contatti, parenti, amici, colleghi e semplici conoscenti che le autorità collegano ad organizzazioni ritenute terroristiche. Veli, ad esempio, ha dovuto render conto delle chiamate telefoniche ad un cugino che le autorità considerano un simpatizzante del DHKP-C, sigla di un'organizzazione armata di estrema sinistra, e di un contatto lavorativo sospettato di essere vicino al gulenismo.

Sembra quindi questo il modus operandi delle autorità giudiziarie in Turchia: prima entri nel radar dell'autorità per aver detto, scritto o fatto qualcosa di sgradito, magari a causa di una delazione; quindi vieni incarcerato e le autorità cercano tra amici e conoscenti soggetti pericolosi che provino la tua colpevolezza.

Per i dieci attivisti non sono state sufficienti le due settimane di detenzione preventiva che lo Stato di emergenza consente. È stato quindi formalizzato nei confronti di sei di essi lo stato d'accusa di sostegno al terrorismo. Attenderanno in carcere fino al 26 dicembre, quando pare verrà fissata la prima udienza in tribunale.

Gli avvocati difensori sono stati schivi fin dall'inizio nel rilasciare dichiarazioni, ma nei primi giorni filtrava un moderato ottimismo sulla possibilità di rilascio. L'umore s'è tinto di nero dopo le infamanti pagine di giornali di cui sopra. Maggior pressione sugli inquirenti avranno avuto le parole del presidente Erdoğan, che in una conferenza stampa del 9 luglio scorso ha definito il workshop di Büyükada una continuazione del 15 luglio, in riferimento tentato golpe dell'anno scorso. Con un verdetto di colpevolezza già emesso dalla più alta carica del paese, gli avvocati hanno cominciato a disperare nella possibilità di un rilascio.

WFP avrebbe per ora garantito a Veli il mantenimento del posto di lavoro, tre mesi di stipendio, tre mesi di ferie retribuite e tre mesi d'aspettativa. Ma avrebbe anche dato retta ai consigli delle autorità, incontrate in un colloquio, le quali avrebbero suggerito all'agenzia di “tenersi alla larga dalla faccenda”, perché Veli non si trovava al workshop per conto di WFP, ma come attivista della Human Rights Agenda Association.

OBCT si è occupato a lungo della mancanza di libertà di espressione in Turchia, dei soprusi, degli arresti e delle intimidazioni ai danni di giornalisti, delle 160 imprese d'informazione chiuse nell'ultimo anno.

Accanto a tutto ciò non bisogna trascurare un altro aspetto: quello della macchina del fango che, nella delirante corsa al compiacimento del potere e con buona pace delle norme del giornalismo, può permettersi di lanciare impunemente calunnie a caratteri cubitali. Perché sa che nel palazzo annuiranno compiacenti e perché non c'è più alcuna istituzione a vigilare sulle norme etiche e deontologiche del giornalismo.

Una propaganda che semina odio e falsità non meno dannose per questo paese del bavaglio imposto a centinaia di giornalisti, scrittori e attivisti.


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