Marina Lalović

Marina Lalović

"Ho cercato di raccontare una città che ha vissuto il periodo peggiore della propria storia in un decennio, che guarda caso era il mio ultimo decennio vissuto nella città in cui sono nata, in un paese che non esiste più. "Marina Lalović, La cicala di Belgrado (Bottega Errante Editore)

18/05/2021 -  Veronica Tosetti

La giornalista Marina Lalović riversa nel suo La cicala di Belgrado (Bottega Errante Editore) l’esperienza dei suoi primi vent’anni di vita nella capitale serba, prima di trasferirsi in Italia, e i suoi continui ritorni. Ne emerge un omaggio affezionato alla città di origine, cercando allo stesso tempo di fermare su carta gli esiti di un’identità complessa e frammentata, tra l’Italia e la Serbia. L'abbiamo intervistata.

Il suo libro copre gli stessi temi che ha trattato nella serie di podcast “Partire. Restare. Tornare ” realizzati per Tre Soldi, la rubrica di documentari audio di Rai Radio3 (andati in onda a gennaio 2020), dove racconta la sua vita a Belgrado prima di partire per l’Italia, nel 2000. Come ha lavorato per trasformare quel materiale?

Per il libro sono partita proprio dal podcast: mi è stato proposto di lavorarci dalla casa editrice Bottega Errante, per la collana Le città invisibili. Si è trattato di un lavoro doppio: da un lato un po' personale, per rivisitare la mia partenza e vedere ciò che accade all'identità a distanza di vent'anni - esattamente la metà della mia vita - quando li trascorri in un luogo diverso rispetto a quello d'origine. Un altro filo conduttore è la narrazione della città, ma da un punto di vista non prettamente turistico, ma legato ai luoghi e alle persone che io conoscevo quando vi vivevo negli anni ‘90.

Dunque è una guida più che altro nella storia di una persona che ha vissuto in un decennio particolarmente intenso, che è quello degli anni '90. Ho cercato e ho scelto questo approccio personale: volevo sia raccontare il mio legame con la città ma anche renderlo utile a coloro che un giorno potranno viaggiare e vederla con gli occhi di qualcuno che l'ha vissuta in un momento particolare. Si può così scoprire come un posto apparentemente insignificante possa in effetti aprire a molte storie. Penso soprattutto a ristoranti, locali e kafane, queste atmosfere che cerco di materializzare attraverso i racconti. Lo definirei un diario dell'ultimo sguardo verso la città e al tempo stesso itinerante.

Proviamo a girare la prospettiva: che città vedrebbe se arrivasse a Belgrado oggi per la prima volta?

Da straniera vedrei una città in ricostruzione, che si reinventa in continuazione come se stesse nascendo un'altra volta, con un'altra architettura e un'altra identità. Adesso sta quasi finendo il progetto Belgrado sull'acqua che descrivo nel libro e il paesaggio che si propone una volta arrivati a Belgrado è diverso da quello che io avevo ogni volta che tornavo. Proprio questo mi fa pensare all'ultimo mio ritorno a Belgrado dopo più di un anno di pandemia, dove ho visto nascere un'altra città che si vede soprattutto attraversando il nuovo ponte sul fiume Sava, che ti porta a concentrarti sulla parte nuova della città.

Ogni volta comunque vedo una città molto giovane, piena di vita, che non ha mai smesso di esistere. Vedo dei paesaggi nuovi, accostati alle parti fatiscenti che sono o abbandonate o in via di demolizione, comunque una città in continua costruzione.

A proposito di certi esperimenti di rinnovamento, dal libro sembrano descritti come tentativi fallimentari… è così?

Fallimento forse è una parola troppo risolutiva. Semplicemente Belgrado aveva e ha voglia di reinventarsi e di andare di pari passo con la propria immagine dell'Europa, non solo occidentale, e della modernità. Di conseguenza si è avuto fretta di demolire certe parti vecchie della città. Nel quartiere dove per esempio sono nata e cresciuta, Čubura, hanno iniziato a costruire palazzi nuovi, che da manuale potrebbero appartenere a un paese moderno. La voglia di modernità ha fatto sì che siano stati cancellati in fretta pezzi della città che erano molto caratteristici, che sarebbero potuti essere importanti per quel luogo.

Quindi non direi un fallimento, semplicemente c'è una questione di difficile accettazione, da parte di coloro che sono degli ex abitanti che ritornano a Belgrado, nei confronti di tutti quei cambiamenti che avvengono davvero in fretta. Quando parlo della continua ricostruzione è molto diverso da ciò che accade in Italia: in qualsiasi centro urbano, da Roma a Milano, ma anche nei piccoli centri, non accadono cambiamenti repentini come nei Balcani, e Belgrado è forse l'emblema di questi cambiamenti. La interpreto come fretta di tornare alla normalità, che può essere chiamata modernità. Come se il moderno fosse necessariamente collegato con una cosa positiva, ma la modernità non lo è per forza, dipende come ci si approccia.

La ricerca del moderno può avere un impatto positivo per il turismo della città?

Il turismo a Belgrado è sempre esistito, soprattutto negli ultimi anni: è diventata la Berlino dell'Europa dell'est, una meta degli hipster se vogliamo dirla tutta, ed è lì che in effetti è nato questo concetto di rivisitare luoghi industrializzati, abbandonati e renderli dei luoghi di divertimento. Ciò si può discostare dall'immagine dei luoghi come li concepiamo qui a Roma per esempio, all’aperto, dove la gente si raduna. A Belgrado dobbiamo mettere in conto l'aspetto del clima. Tutto si consuma e si vive all'interno, negli spazi chiusi, magari dove meno te l'aspetti come negli appartamenti e nei luoghi sotterranei.

Belgrado è al centro di questa ricerca dove riscoprire la vita notturna in modo alternativo. Da più di dieci anni, da subito dopo la caduta di Milošević, è decollato questo turismo attorno alla percezione della città. Ora sta ancora cambiando ed è diventata meta di turisti dell'Europa dell'est, della Russia, e degli Emirati, ma rimane un luogo dove molti giovani dell'UE vanno a vedere i lasciti del comunismo, con un’atmosfera underground che ti dà l'idea di essere in un luogo lontano... ma è dietro l'angolo.

Si è parlato di recente di “turismo vaccinale”, in merito all’apertura delle vaccinazioni ai cittadini stranieri, qual è la sua opinione in merito?

Belgrado ha adottato una politica di “non allineamento vaccinale”, ovvero utilizzano tutti i tipi di vaccini e di conseguenza c'è la possibilità di vaccinare più persone, perché ci sono più possibilità di scelta. L'apertura verso la cittadinanza straniera è avvenuta nel momento in cui avanzavano dei lotti di un particolare vaccino, AstraZeneca, che doveva essere smaltito, perché la cittadinanza locale non lo voleva e di conseguenza hanno optato per aprire i confini e donarlo a chi voleva vaccinarsi. Lo vedo come un grande gesto di altruismo e allo stesso tempo di furbizia diplomatica, che in questo anno potrebbe avere dei buoni risvolti, anche dal punto di vista della comunicazione politica regionale, perché sono arrivati soprattutto i cittadini della regione, della Macedonia del Nord e della Bosnia. Credo sia stato un buon modo per risolvere un problema interno: nel momento in cui la cittadinanza locale non vuole un determinato vaccino, che sia donato e non distrutto.

Venendo alla scrittura del libro, riesce a stare ben lontana da qualunque stereotipo e cliché esistente sui Balcani. Come ha approcciato questo aspetto?

Chiunque scrive spera di non cadere nei cliché, anche perché sono cliché che tutti conoscono ed è inutile scriverci sopra. Io ho provato a decostruirli. Credo ci sia un aspetto interessante sulla narrazione di Belgrado, nel periodo che racconto, perché riguarda la guerra: semplicemente c'è un mancato racconto di un aspetto della città, che veniva esibita solo come capitale di un paese, di fatto, aggressore. Ho cercato di raccontare questa apparente e quasi impossibile normalità che si creava in una situazione completamente schizofrenica, per una ragazza adolescente.

Vivevamo in una situazione malsana politicamente, socialmente, culturalmente, nel mezzo di una trasformazione endemica, diventando parte di questo delirio che si creava come surrogato della guerra. La cosa più utile, secondo me, è decostruire i cliché raccontando una realtà che non era poi così nota. Questo è stato il mio tentativo di non cadere nei cliché di una guerra, di un racconto più grande di me e non mi permetterei mai di farlo. Le storie personali rendono i luoghi più universali e aiutano il lettore a trasferirsi in un'epoca in cui mancava il racconto di una normalità - in cui era un grande complimento non essere politicizzato, perché, come dico nel libro, anche non prendere posizione era prendere una posizione.

Ho cercato di raccontare una città che ha vissuto il periodo peggiore della propria storia in un decennio, che guarda caso era il mio ultimo decennio vissuto nella città in cui sono nata, in un paese che non esiste più. È il racconto molto personale e molto intimo di un luogo che ho dovuto lasciare in quel momento, perché facevo parte di una generazione che ha lasciato in massa quel paese non per propria scelta. Ovviamente nessuno mi ha cacciato via, ma me ne sono andata per una serie di condizioni che facevano sì che altra prospettiva non fosse percepibile in quel momento.

Cosa le piacerebbe suscitare nelle persone che non conoscono per niente i Balcani, la Serbia e Belgrado?

Quando si parla dei Balcani si parla necessariamente della guerra, infatti è stato coniato il termine balcanizzazione, un brutto termine per parlare della dissoluzione. Io sinceramente vorrei che i Balcani fossero raccontati e visitati al di là dei cliché. Se deve essere la musica balcanica ben venga, ma i Balcani non sono solo la follia e la totale perdizione, non sono solo i film di Emir Kusturica. I Balcani hanno moltissimi scorci di una normalità, che sembra anormale in un luogo che ha vissuto così tanti traumi soltanto pochissimi anni fa. Vorrei che ci fosse voglia di scoprire qualcosa di diverso rispetto a quanto raccontato, rispetto alla storia più recente che ci lega a questi luoghi. Vorrei che ci fosse la curiosità di scoprire la quotidianità comoda e anche magica di questo luogo, oltre gli stereotipi, e anche non polarizzare in termini di guerra un luogo che ancora ne patisce molto. Una persona può andare lì per una ragione e con un’immagine in testa e poi scoprire molto altro. Questo è il mio auspicio.


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