Da un rapporto del Cespi sul livello di inclusione finanziaria emergono dati interessanti sulle comunità straniere in Italia. Una rassegna
Un conto in banca, l’accesso al microcredito, la sottoscrizione di un’assicurazione, il ricorso ai servizi di trasferimento di denaro all’estero. Sono tutti indicatori dell’inclusione sociale, dell’integrazione e della stabilizzazione dell’immigrazione in Italia.
Un fenomeno, quello dell’inclusione finanziaria, che è stato studiato dal Cespi nel Quarto rapporto dell’Osservatorio Nazionale sull’Inclusione Finanziaria dei Migranti in Italia. Dai dati esposti emerge che a seconda della nazionalità dell’immigrato la forma di inclusione e bancarizzazione cambia e denota la fase di integrazione.
A fine 2013 il 75% degli immigrati presenti in Italia aveva un conto corrente o una carta con Iban. Di questi il 68% era al nord e il 25% al centro e il resto nel sud Italia. Un fenomeno, poi, fortemente caratterizzato dal rapporto con gli istituti bancari è quello della piccola e media impresa straniera, spesso legata alla necessità di riscatto o all’auto-impiego.
I correntisti immigrati rispecchiano, per ordine e grandezza, le principali comunità presenti sul territorio italiano, con le prime cinque nazionalità, Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina, che rappresentano circa il 60% del totale. E’ emerso, però, dai dati indagati dall’Osservatorio come tra il 2013 e il 2014 sia stata registrata una crescita del 13% dei conti intestati a immigrati cinesi, sintomo di un processo di integrazione e emersione dal mercato nero di una comunità storicamente esclusa finanziariamente.
A fare da base ai dati sull’integrazione finanziaria, ovviamente, i numeri della presenza straniera in Italia. A gennaio del 2015 gli immigrati residenti erano 5.014.437, l’8,4% della popolazione, con un aumento dal 2008 del 47,3%. Anche i permessi di soggiorno di lungo periodo o indeterminato stanno aumentando, passando da 1.896.223 nel 2012 a 2.045.662 nel 2013. Secondo i dati statistici la comunità straniera in Italia è fortemente eterogenea ma tendenzialmente giovane: tra i 18 e i 49 anni si concentrano le nuove richieste di permesso di soggiorno e i rinnovi. Si tratta per lo più di “giovani (individui e famiglie), con livelli di mobilità, imprenditorialità, propensione al risparmio e alla transnazionalità maggiori, pur se ancora caratterizzati da una minore capacità reddituale e da processi di integrazioni che procedono a velocità e gradi diversi, in funzione di una molteplicità di fattori”, scrive l’Osservatorio del Cespi.
Andamento dei conti correnti
Per questo motivo è importante definire il grado di inclusione, oltre che nel tessuto sociale, anche in quello bancario. “Il migrante da un punto di vista finanziario è un soggetto privo di una storia finanziaria e creditizia e di un patrimonio, ha una capacità reddituale inferiore alla media e un minor riconoscimento e valorizzazione delle competenze – si legge nel report - l’accesso ai servizi e ai prodotti finanziari costituisce una risorsa essenziale nel processo di integrazione, la cui esclusione comporta quindi dei costi sociali molto più elevati per il migrante rispetto al cittadino locale. Esso ne riduce la vulnerabilità, sia rispetto alla propria capacità di risparmio e ad un minor ricorso a canali informali, e sia rispetto alla capacità di affrontare situazioni di emergenza”.
Dal 2010 ad oggi questo processo di inclusione ha registrato tassi sostenuti di crescita, passando dal 61% di titolari di un conto corrente al 74% del 2013 per un totale di oltre 2,4 milioni di conti correnti presso le banche italiane e BancoPosta (oltre ai quasi 110.000 conti correnti aperti da piccole imprese), mentre le carte con Iban, uno strumento molto utilizzato e apprezzato, hanno raggiunto quasi 1,2 milioni di cittadini immigrati.
Le rimesse
Oltre al numero di conti correnti e carte con Iban, il rapporto prende in considerazione anche altri elementi rilevanti, il credito al consumo, il microcredito per le imprese e le rimesse. Queste ultime sono un fattore che incide in maniera consistente sulla capacità di risparmio dell’immigrato e ne condiziona anche i possibili investimenti in Italia e nel paese d’origine.
Nel 2014 le rimesse sono state pari a oltre 5 milioni di euro. Escludendo quelle verso la Cina, che contengono una componente commerciale, le rimesse dall’Italia verso l’estero sono cresciute del 9% negli ultimi due anni. “La destinazione finale delle rimesse è diretta a scopi diversificati e in evoluzione durante la vita del migrante, con obiettivi e determinanti diversificati e non legati esclusivamente alla dimensione del consumo”. Gli immigrati scelgono principalmente (60%) i servizi di money transfer, in seconda ipotesi le banche e poi i cosiddetti canali informali (affido ad amici, rientro in patria con i risparmi, posta e corrieri). In cima alla classifica degli immigrati che inviano più denaro ci sono i filippini che mandano alle famiglie nel Paese d’origine circa 3.000 euro l’anno, al secondo posto gli ucraini (2.700 euro), poi senegalesi e egiziani (2.200 euro).
L’imprenditoria straniera, infine, è, forse, la fase più matura dell’integrazione bancaria perché prevede l’accesso al credito, una stabilità finanziaria, il corretto utilizzo dei prodotti finanziari e anche una fase di evoluzione della presenza sul territorio. Gli imprenditori a titolarità immigrata rappresentavano l’8,6% delle imprese italiane al dicembre 2014, responsabili del saldo positivo fra imprese chiuse e imprese aperte. Un dato non trascurabile, che contribuisce al Pil italiano sia in termini di mera produttività che di sostituzione in settori abbandonati dagli italiani, legati anche a distretti del Made in Italy.
Le imprese messe in piedi da stranieri restano, però, abbastanza fragili, nella maggior parte si tratta di aziende personali, di lavoro autonomo, artigiano con un elevato tasso di mortalità, intorno al 10% nel 2014. E’ comunque un fenomeno interessante e che rispecchia le propensioni delle diverse comunità: il Bangladesh ha il primato di crescita con 4.900 imprese in più tra il 2013 e il 2014. Il primato assoluto spetta invece al Marocco con 67.207 aziende, seguono la Cina con 54.455 e la Romania con 53.456. “Nel rapporto con le istituzioni finanziarie i clienti immigrati titolari di un conto corrente appartenenti al segmento small business al 31 dicembre 2014 presso le banche italiane e BancoPosta, sono 109.065, pari al 5,2% del numero complessivo di correntisti immigrati” e “nei quattro anni oggetto di rilevazione, a livello aggregato, l’area small business a titolarità immigrata cresce in termini assoluti del 47%”.
Dagli studi sul tema dell’imprenditorialità straniera emerge che gli immigrati hanno le potenzialità tipiche dell’imprenditore: spirito di iniziativa, propensione al rischio, senso degli affari, propensione al risparmio e all’autofinanziamento. Nello stesso tempo l’immigrato che si affaccia sul mondo del lavoro, spesso come dipendente, parte svantaggiato e quindi la strada dell’auto-impiego, con ditte individuali, è anche una forma di riscatto e di garanzia per uno status giuridico indispensabile, quello di lavoratore, per mantenere o ottenere il permesso di soggiorno.
Quali prodotti finanziari?
Un tema a parte che merita di essere sottolineato e che trova spazio nel Quarto rapporto del Cespi è quello della finanza islamica che si basa sui principi della riba (divieto di pagamento di interessi legati al fattore temporale), del maysir (divieto di speculazione), dell’haram (attività economiche proibite dal Corano) e della zakat (tassa islamica). La dimensione sempre più significativa della comunità musulmana anche in Italia fa emergere l’importanza di trattare e affrontare per tempo o temi legati ai principi di questa area particolare della finanza. Secondo le previsioni di uno studio Ernst&Young nei prossimi cinque anni la finanza islamica crescerà a livello mondiale a un tasso medio annuale del 20%.
In Italia il dibattito è ancora all’inizio, ma l’Osservatorio ha voluto dare una prima fotografia grazie a un’indagine su un campione sulle quattro nazionalità di religione prevalentemente islamica. Il fattore religioso è rilevante nel rapporto con le istituzioni finanziarie in particolare per egiziani e marocchini, gli stessi che richiedono maggiore attenzione anche rispetto al futuro. Il quadro “sembra quindi confermare una maggiore sensibilità rispetto ai temi religiosi, ma anche una non piena consapevolezza presso i migranti residenti in Italia. Alcuni elementi possono contribuire a spiegare queste prime indicazioni – aggiunge il Cespi – la recente diffusione della finanza islamica (che nasce solo nel 2009), a fronte di una migrazione in Italia più datata, l’assenza di offerte Shari’a compliant sul nostro territorio e una volontà di integrarsi anche da un punto di vista finanziario”.
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