Svetlana Broz

Svetlana Broz

Nipote di Tito, giornalista, cardiologa, medico volontario nella guerra di Bosnia e scrittrice di successo. Svetlana Broz, attivista dei diritti umani, da dieci anni dirige Gariwo Sarajevo, ONG impegnata nell’educare i giovani bosniaci al coraggio civile. L'abbiamo incontrata durante una sua visita in Italia

02/08/2011 -  Francesco Gradari

L’obiettivo principale di Gariwo Sarajevo è semplice quanto ambizioso: creare nella capitale bosniaca un parco con alberi dedicati a individui “giusti” contraddistintisi per atti di coraggio a favore di persone appartenenti ad altre comunità o religioni durante le guerre nella ex-Jugoslavia. L’iniziativa prende spunto dallo Yad Vashem di Gerusalemme, parco memoriale dedicato a tutte quelle persone che hanno difeso le vittime dell’Olocausto. Gariwo Sarajevo è stata creata nel 2001 come sede regionale della rete internazionale Gardens of the Righteous Worldwide. La mission di Gariwo Sarajevo è quella di educare al coraggio civile, come antidoto contro l’apatia, il conformismo e l’intolleranza nella società. L’associazione sta lavorando alla creazione di un Centro Educativo per la Promozione del Coraggio Civile in Bosnia, sempre a Sarajevo. Il Centro avrà il compito di diffondere pubblicazioni ed attuare specifici programmi formativi rivolti ai giovani sul tema del coraggio civile. Da alcuni anni l’ONG è tra i promotori e organizzatori del Premio per il Coraggio Civile dedicato a Duško Kondor, membro di Gariwo Sarajevo assassinato nel 2007 a Bjeljina pochi giorni prima di testimoniare a un processo per crimini contro l’umanità. Il premio viene assegnato a persone coraggiose che rischiano la propria vita per difendere quella di altri cittadini appartenenti a comunità diverse dalla loro.

A che punto siete con la creazione di un Giardino per i Giusti a Sarajevo?

Procediamo lentamente, siamo legati ai tempi della politica. Nel 2001 le autorità di Sarajevo sembravano aver accettato l’idea del memoriale. Dopo le elezioni, le persone sono cambiate e non se ne è fatto più nulla. Ogni volta che ci sembra di fare dei passi in avanti, i risultati ottenuti vengono messi in discussione e devono essere rinegoziati con i “nuovi” politici che vincono le elezioni. Si tratta sempre di politici nazionalisti, quindi non si va molto avanti. Oggi le condizioni appaiono più favorevoli. Siamo riusciti a coinvolgere l’amministrazione di Sarajevo nell’organizzazione dell’edizione 2011 del Premio Duško Kondor. Nel 2012, useremo il ventennale dall’inizio dell’assedio come occasione per rinnovare la nostra pressione nei confronti delle autorità locali e spingerle ad accettare l’idea del Giardino dei Giusti. Il Giardino sorgerà nella zona di Sarajevo chiamata Betania, luogo identificato nel 2001 assieme alle autorità locali. Poi dovremo sistemare alcuni dettagli tecnici, il problema della proprietà e della gestione del giardino. Dovremo affrontare anche una serie interminabile di passaggi amministrativi e ostacoli burocratici.

Il Giardino dei Giusti avrà dimensione locale o regionale?

La nostra idea è quella che nel Giardino dei Giusti di Sarajevo trovino spazio persone che si sono contraddistinte per atti di coraggio a favore di individui appartenenti ad altre comunità nelle guerre di Croazia, Bosnia, Kosovo e Macedonia. Sarebbe stupendo poter avere a Sarajevo il ricordo di Giusti provenienti da ogni angolo del mondo, ma questo comporterebbe un lavoro immane di ricerca e documentazione. Ci limiteremo a storie di persone provenienti dall’area della ex-Jugoslavia. Per questo stiamo cercando di espandere le nostre attività anche in Croazia e in Kosovo, in collaborazione con associazioni della società civile locale. Raccogliamo testimonianze di persone che hanno resistito al “male” in tempo di guerra e lo fanno ancora oggi. Sono d’accordo con chi sostiene che in una realtà come quella del Kosovo sia più difficile parlare del presente che della guerra. Il nostro grande vantaggio, rispetto alle organizzazioni internazionali, è quello di venire dalla stessa regione e dallo stesso passato. Un anno fa quando per la prima volta abbiamo iniziato a parlare con gente del Kosovo della nostra idea, ci hanno subito detto che si trattava di una missione impossibile. Sono sicura che riusciremo a rendere note storie di Giusti anche dal Kosovo. Il problema non è quello di trovare delle testimonianze, ma quello di convincere le persone a condividerle. Come verranno trattate dalla loro stessa comunità una volta che la loro storia sarà resa pubblica? La gente è intimorita da questo e dai politici al potere.

Inizialmente gli sforzi di Gariwo si sono concentrati sul progetto del Giardino per i Giusti. Oggi maggiore enfasi è data all’educazione dei giovani. Perché questo cambio di rotta?

Incontriamo tanti ostacoli sulla strada verso il sogno di avere un Giardino per i Giusti in Bosnia. I politici non hanno mai sopportato l’idea di avere un posto del genere in città. Non vogliono nomi e cognomi di persone di altre comunità all’interno del memoriale. Un membro del consiglio comunale ci ha minacciato dicendo che avrebbe tagliato di persona gli alberi dedicati a persone appartenenti a comunità diverse dalla sua. Questo clima ostile ci ha portato a rinviare il progetto iniziale. L'obiettivo non è quello di avere un giardino circondato da poliziotti, ma un luogo voluto e adottato dagli stessi cittadini di Sarajevo. Lavoriamo affinché un giorno vi siano le condizioni per tutto questo. Non so dire quando il Giardino diverrà realtà, ma sono sicura che lo diverrà.

La gioventù di un Paese è il risultato dell’educazione che i ragazzi ricevono a scuola e in famiglia. In Bosnia ancora non si è fatta chiarezza su chi siano state le vittime e chi i carnefici. Gli adulti chiamano eroi i criminali di guerra, i giovani respirano tutto questo, sono confusi e facilmente manipolabili. Hanno bisogno di esempi positivi. La vastissima partecipazione della popolazione italiana ai referendum di questi giorni è un esempio straordinario di come sia possibile cambiare le cose dal basso, che riporterò ai miei giovani in Bosnia.

Come Gariwo porta avanti i percorsi di educazione al coraggio civile rivolti ai giovani?

Si va dalla diffusione di libri e documentari, all’organizzazione di eventi pubblici e seminari sul tema. L’obiettivo è sempre lo stesso: far capire ai giovani che il bene e il male nascono e sono resi possibili da scelte individuali e non di gruppo.

Quest’anno Gariwo Sarajevo festeggia i suoi primi 10 anni. Un bilancio dei risultati sinora ottenuti?

Il risultato più importante è quello di aver educato tanti giovani al coraggio civile, cioè la capacità di resistere, opporsi e disobbedire ad un’autorità negativa. Oggi tanti giovani, in Bosnia e nei Balcani occidentali, sanno cosa significa e conoscono strumenti concreti per mettere in pratica questo coraggio. Ci sono anche dei risultati concreti. Sei ONG sono state create da giovani che hanno partecipato ai nostri percorsi formativi in diverse parti della Bosnia, ma anche in Croazia e Montenegro. Non vi erano spazi sufficienti per loro nelle rispettive società, e proveranno a realizzare i loro desideri e sogni attraverso queste associazioni. Altri ragazzi di Bjeljina (Bosnia) hanno dato vita a un vero e proprio partito politico. Si sono resi conto, dopo aver partecipato alle nostre attività, di non poter sostenere o aderire a nessuno dei partiti esistenti. Dobbiamo essere felici di questi due piccoli risultati. Tuttavia non siamo pienamente soddisfatti. Non siamo ancora riusciti a raggiungere una massa critica in grado di cambiare le cose. È giusto festeggiare i nostri primi dieci anni, ma è importante continuare il lavoro iniziato affinché la massa critica diventi realtà.

A detta di molti, la Bosnia sta affrontando la più acuta crisi politica dal 1995. Qual è la sua lettura della situazione?

Le persone che hanno distrutto la Bosnia con la guerra sono le stesse che oggi governano il Paese. Per questo nulla funziona nelle istituzioni. Abbiamo una classe politica composta da nazionalisti d’accordo tra loro per non mettersi d’accordo su niente. Sembra una barzelletta, ma è la realtà. È curioso notare come molti dei principali attori della guerra di Bosnia e i politici nazionalisti degli anni ’90, fossero stati in precedenza in qualche modo puniti dalla legge jugoslava, fortemente voluta da Tito, che vietava espressioni nazionalistiche. Tornata la libertà d’espressione questi hanno giocato con maggior convinzione la carta del nazionalismo. I cittadini hanno paura di questi politici. La guerra è stata un’esperienza traumatica, sanguinosa, ancora troppo vicina: nessuno ha voglia di rischiare oggi.

È mai stata vittima di attacchi a causa del suo attivismo?

Ricevo attacchi personali molto spesso. Sempre contro la persona e non contro le iniziative che Gariwo porta avanti. Nessuno riesce a opporre delle argomentazioni valide al messaggio che diffondiamo e quindi provano a screditare il singolo. Gli attacchi personali non sono un problema per me, ma per coloro che li compiono. Si tratta solo di offese verbali, mai sfociate in forme di violenza fisica. Una volta dei dimostranti hanno tentato di colpire un nostro ospite proveniente dal Sudafrica durante un discorso pubblico a Srebrenica. Hanno provato a colpirlo in quanto simbolo della lotta contro l’apatia nella società civile ed esempio di riconciliazione.

A proposito di riconciliazione, Gariwo ha aderito alla Coalizione per Rekom?

Non direttamente e non in questa fase. Vediamo come si muoveranno i promotori. Vogliamo essere sicuri che non si tratti di un'iniziativa che i politici sostengono solo per fare felice l’UE. Ci vuole un pieno coinvolgimento delle istituzioni per affrontare la verità su quello che è successo. Nel nostro caso, e penso in particolare a Croazia, Bosnia e Serbia, non sono per nulla sicura che il coinvolgimento di questa classe politica sia un elemento positivo. Conosciamo bene il percorso compiuto da Paesi come il Sudafrica. Noi non possiamo affrontare la questione della verità con l’attuale classe politica. Occorre innanzitutto cambiarla per creare spazi nuovi di dialogo. Il compito della società civile è quello di sollecitare questo ricambio. A quel punto sarà possibile organizzare eventi pubblici ripresi da tutti i media nei quali la gente potrà raccontare la propria verità, non quella “ufficiale”. Spero di sbagliarmi, ne sarei felice. Non mancherò di scusarmi con chi mi porterà le prove che REKOM non è solamente un’iniziativa di facciata.

Nella sua ultima intervista a OBC, nel 2005, disse di aver lasciato Belgrado in quanto la città aveva perso la sua anima. Pensa che qualcosa sia cambiato a Belgrado e in generale nella società civile serba dopo gli arresti di Karadžić prima e Mladić poi?

Non credo siano cambiate molte cose. Non vedo uno spirito nuovo nei giovani, uno spirito che prima avevano. Troppe persone non sono pronte ad affrontare la verità, non fanno nulla per cambiare le cose, anche se oggi sanno che le guerre sono state fatte nel loro nome. Gli arresti di Karadžić e Mladić non sono accettati dalla società. Anche su questo punto spero vivamente di sbagliarmi.


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