Sarajevo - © Maurizio Gjivovich

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La crisi in Bosnia Erzegovina si è definitivamente internazionalizzata. Tutti gli attori internazionali sono coinvolti: spesso abituati a usare il paese come il cortile di periferia delle proprie dispute globali ma senza mai concretizzare i propri proclami, sono chiamati ora a battere un colpo

17/11/2021 -  Alfredo Sasso

Nel suo rapporto per il Consiglio di Sicurezza per l’ONU, Christian Schmidt è stato esplicito: la Bosnia Erzegovina “corre un pericolo imminente” di dissoluzione, e c’è una “reale possibilità di nuove divisioni e conflitti”. Il documento di Schmidt, ex-ministro tedesco, in carica dal luglio 2021 come Alto Rappresentante (il supervisore degli accordi di pace, in rappresentanza dei 55 paesi coinvolti nella loro applicazione) non era pubblico, ma è stato filtrato dal Guardian lo scorso 2 novembre. È allora che la notizia della crisi politica in Bosnia Erzegovina, che già occupava l’attenzione della regione post-jugoslava, è improvvisamente rimbalzata nelle agenzie di stampa di tutto il mondo.

La crisi è iniziata, ricordiamo, alla fine del luglio scorso, con il boicottaggio - e la conseguente paralisi - delle istituzioni statali da parte del partito di Milorad Dodik. Dodik è, dal 2018, il membro serbo della presidenza statale e, dal 2006, leader assoluto de facto della Republika Srpska (RS, una delle due entità della Bosnia Erzegovina). Il casus belli del boicottaggio è stato la legge, introdotta dal predecessore di Schmidt ad Alto Rappresentante Valentin Inzko, che creava il reato di negazionismo per crimini di guerra e genocidio.

Dodik ha poi rilanciato, annunciando a metà ottobre la creazione, entro la fine dell’anno, di varie istituzioni autonome a livello dell’entità: un’agenzia sanitaria, un’agenzia di imposte indirette, una struttura giudiziaria e, infine, l’esercito, che riassumerebbe quindi le funzioni dell’Armata della Republika Srpska (VRS), responsabile di diversi crimini di guerra nel 1992-95 e definitivamente disciolta nelle Forze armate bosniache unificate nel 2005.

L’annuncio – scaturito da un incontro tra Dodik e il ministro degli Esteri russo Lavrov, che avrebbe dato “luce verde” all’operazione, secondo ambienti diplomatici riportati da Balkan Insight - ha generato reazioni drammatiche da parte degli avversari politici di Dodik, e un clima di paura e panico tra i cittadini. Non importa che si tratti di un tentativo di secessione completa, oppure di una disconnessione più graduale pur nei termini di uno stato centrale. Queste misure, attuate in modo unilaterale e al di fuori del quadro costituzionale, avrebbero costi finanziari e sociali pesanti. Nel caso dell’esercito, genererebbero pericoli per l’incolumità e la sicurezza dei cittadini, anzitutto quelli delle varie comunità in RS. In altri termini, il rischio di conflitti, quantomeno localizzati e a bassa intensità, potrebbe essere alto.

La vita politica recente del paese non è affatto nuova a crisi, provocazioni, minacce di questo tipo, sempre cadute nel nulla o quasi. E potrebbe andare di nuovo così. Ma questa volta sono state oltrepassate diverse linee rosse, in particolare quella del monopolio della forza e della sicurezza. Questa volta ritornare allo status quo, per quanto ancora possibile, non sarà così scontato né semplice. Può esserci spazio per nuovi “fatti compiuti” e imprevedibili conseguenze sul campo; oppure, per nuovi accordi e riforme. Ora tutti gli attori internazionali coinvolti, tanto abituati a usare il paese come il cortile di periferia delle proprie dispute globali ma senza mai concretizzare i propri proclami, sono chiamati a battere un colpo.

Comunità internazionale: escalation e stallo

Il giorno seguente alla rivelazione del Guardian, la crisi bosniaca si è internazionalizzata. Schmidt non ha potuto dirigersi, come era previsto, al Consiglio di Sicurezza, per il veto di Cina e Russia. Mosca supporta la RS e, insieme a Pechino, preme da tempo per chiudere l’ufficio dell’Alto rappresentante, di cui non riconosce la legittimità. Dopo la mediazione con USA, UE e Regno Unito, le parti hanno raggiunto un teso e misero, ma inevitabile, compromesso: il 3 novembre, in cambio del mancato intervento di Schmidt (richiesta russo-cinese) il Consiglio ha rinnovato la missione di peacekeeping EUFOR Althea a guida UE di stanza nel paese (volontà USA-UE-UK).

Da allora, l’escalation sembra essere in stato di sospensione: non ci sono stati movimenti chiari, né in avanti, né indietro. Le previsioni restano dunque incerte. In questi quindici giorni, gli elementi salienti sono stati due.

Il primo è l’apparente ritorno all’iniziativa da parte degli Stati Uniti dopo una fase di disimpegno. All’inizio di novembre Gabriel Escobar, consigliere del Dipartimento di Stato per i Balcani occidentali, ha condotto incontri con diversi leader politici nel paese – tra cui con Milorad Dodik. Nell’amministrazione USA, Escobar mantiene una posizione più rigida e orientata all’unità del paese - al contrario dell’altro funzionario americano coinvolto nella crisi, l’inviato speciale per i Balcani occidentali Matthew Palmer, che sostiene invece una linea più accomodante, di appeasament verso i nazionalisti locali.

Molti vedono in questa iniziativa il segnale che Washington possa varare nuove sanzioni, più estese e stringenti, dopo quelle già emesse nel 2017 (congelamenti dei beni e blocco dei viaggi su territorio USA) e ancora in vigore, contro il leader serbo-bosniaco e alcuni suoi alleati.

Allo stesso tempo, non sembrano però esserci – almeno, non ancora - le condizioni di un impegno USA a favore dell’unità della Bosnia Erzegovina e di una nuova riforma costituzionale, simile a quello esercitato fino alla fine degli anni Duemila. Un nuovo impulso è ciò che diversi osservatori pro-bosniaci e pro-atlantisti avevano auspicato all’inizio del mandato di Biden: l’attuale presidente è noto per i suoi legami politici e affettivi con la Bosnia Erzegovina risalenti agli anni Novanta.

Ma nello scenario attuale, dopo il disastroso esito della crisi afghana e le tensioni nel Pacifico con la Cina, l’attenzione primaria di Washington è rivolta altrove. Le parole pronunciate da Biden sull’Afghanistan nel famoso discorso del 16 agosto, nelle ore dell’evacuazione da Kabul (“la nostra missione … non era intesa per creare una democrazia unificata”) sono state colte anche in Bosnia Erzegovina, da alcuni come un monito, da altri come un assist.

Il secondo elemento di queste settimane è il tour di incontri effettuato da Milorad Dodik, che sembra a sua volta suggerire un prolungamento della crisi. Il 7 novembre, il leader serbo-bosniaco ha ricevuto Viktor Orban a Banja Luka, in una cornice singolare (ha partecipato un’ampia delegazione del governo di Budapest, ma l’evento è stato gestito in forma privata, fuori dai protocolli diplomatici e tenendo espressamente fuori i media locali), per poi l’indomani viaggiare a Lubiana a incontrare il premier sloveno Janez Janša, e successivamente ad Ankara dal presidente turco Recep Tayip Erdoğan.

Queste mosse di Dodik potrebbero dunque essere un modo di tastare le reazioni dell’ambiente internazionale prima di rilanciare il piano di disconnessione, oppure per cercare mediazioni e prendere cautamente tempo.

Erdoğan è storicamente vicino ai nazionalisti bosgnacchi, ma mantiene anche rapporti stabili (e interessi economici, soprattutto nel campo delle infrastrutture) con la Serbia, e per questo è associato a un ruolo di mediazione. Viktor Orban e Janez Janša, invece, sono stabili alleati di Milorad Dodik, sul piano ideologico, strategico ed economico. Tutti e tre partecipano a pieno titolo alle reti della destra nativista europea. Lo scorso settembre, al “Summit demografico”, un evento annuale a tematiche anti-LGBT e anti-pluralismo culturale organizzato dal governo ungherese, e a cui sono invitati diversi esponenti della destra conservatrice mondiale (quest’anno l’ospite d’onore era l’ex-vicepresidente americano Pence), Dodik è intervenuto per la prima volta come speaker, con un discorso dai toni molto accesi contro i migranti e i musulmani, individuando questi ultimi come estranei alla civiltà europea.

Janša e Orban sono i principali sospetti autori del cosiddetto “non paper”, un documento anonimo e non ufficiale circolato nella scorsa primavera nelle istituzioni UE, che proponeva la spartizione della Bosnia Erzegovina e un generale ridefinizione delle frontiere dell’ex-Jugoslavia secondo il principio dell’omogeneità etnica. Un piano che implicherebbe nuove discriminazioni, potenziali trasferimenti di popolazione, probabili conflitti civili. Sul piano materiale, come spiegano diversi analisti , gli interessi economici di Budapest nei Balcani sono in crescita, in particolare in Republika Srpska (BiH) e in Vojvodina (Serbia) e negli ambiti di media ed energia.

Janša e Orban sono le sponde del leader serbo-bosniaco dentro le istituzioni UE, ed è quindi probabile che abbiano rassicurato Dodik che esprimeranno il loro veto a qualunque ipotesi di sanzioni alla RS e ai suoi esponenti. Secondo le indiscrezioni riportate dal media sarajevese Istraga.ba, nella riunione del Consiglio Affari Esteri del 15 novembre, proprio l’Ungheria avrebbe preso posizione contro le sanzioni a Dodik, appoggiate invece da Germania, paesi Benelux e Repubblica Ceca.

Ciò che è evidente a tutti è l’assenza d’iniziativa dell’Unione Europea. La visita della Direttrice delle relazioni diplomatiche con i Balcani Occidentali Angelina Eichhorst, avvenuta lo scorso 29 ottobre, è stata debole se non controproducente: il suo documento interno, scoperto dai media locali , indicava un vacuo appello al dialogo e l’indisponibilità a procedere alle sanzioni. Eloquente è il silenzio totale del Commissario all’allargamento, l’ungherese Olivér Várhelyi. Da parte sua non è arrivato nessun commento ufficiale, nemmeno di circostanza, da quando la crisi è esplosa. Si parla di un suo viaggio in Bosnia Erzegovina per la settimana prossima.

L’interpretazione più benevola è che Bruxelles abbia scelto consapevolmente di non rispondere a Dodik per costringerlo a scoprire il proprio bluff e quindi a compiere da solo marcia indietro, senza concedergli l’occasione di vittimismi a fini elettorali e senza rinfocolare le tensioni con la Russia.

La lettura più realistica è che, semplicemente, l’Unione sia troppo divisa e incapace di raggiungere una sintesi politica. Oltre ai già citati sostenitori di Dodik, permangono vari scetticismi verso un interventismo nella crisi bosniaca che, pur partendo da posizioni diverse, si sommano tra loro. Ci sono gli scettici verso l’allargamento tout court, in primis la Francia. Ci sono i simpatizzanti di una svolta realpolitik nel paese (tra questi si annoverava la Germania, anche se la posizione di Berlino in questi ultimi giorni pare essere più articolata) che si otterrebbe attraverso compromessi al ribasso, in particolare sulla riforma del sistema elettorale. Si tratta della storica richiesta dell’HDZ BiH (conservatori nazionalisti croati), a loro volta protagonisti di numerose azioni di ostruzionismo istituzionale in questi anni.

Il problema è che la proposta dell’HDZ rafforzerebbe il criterio etnico della rappresentanza politica, invece di superarlo – come richiederebbero le sentenze CEDU di questi ultimi dodici anni. Eppure, da anni, i rappresentanti della Croazia nelle istituzioni europee fanno un incisivo lobbying sulla questione, cercando di convincere che la riforma elettorale sia una condizione irrinunciabile per la piena democratizzazione e il superamento dello status quo in Bosnia Erzegovina.

Se anche Milorad Dodik dovesse recedere dal suo piano di secessione a pezzi, è indubbio che l’approccio minimale dell'UE sta deludendo sempre di più la società civile e gli interlocutori politici a Sarajevo, soprattutto negli ambienti che in passato erano stati più favorevoli all’integrazione. La dinamica in corso, legittimamente o meno, rafforza l’immagine di Bruxelles come partner de facto dei leader etno-nazionalisti: l’impressione è che siano questi ultimi, più che le istituzioni del paese (che quindi subiscono un’ulteriore legittimazione) ad essere riconosciuti dai rappresentanti UE come unici interlocutori effettivi, ottenendone così concessioni e benefici.

Questo si aggiunge agli altri fattori che stanno facendo percepire l'UE come sempre più distante nel paese: la sensazione di scarico di responsabilità nella gestione della rotta dei migranti, l’assenza di una prospettiva credibile e di tempistiche realistiche per l’allargamento, la percezione di disinteresse verso l’intera regione dei Balcani occidentali.

In questo quadro, non sorprende affatto che il rapporto annuale della Commissione UE sullo stato del processo di allargamento in Bosnia Erzegovina, che in passato era una notizia da prima pagina per tutti i media nazionali, quest’anno sia passato completamente in sordina: non solo perché sovrastato dalla crisi politica, ma anche perché esplicitamente negativo nel constatare un non-progresso in ogni ambito. Il rapporto “sembra la diagnosi di un paziente in coma, con segni vitali appena percettibili”, ha giustamente commentato l’analista del BIEPAG Vedran Džihić. Ma qui è necessario aggiungere che, per quanto riguarda l’infezione più recente, le cause non sono solo auto-inflitte: bisogna vigilare anche nell’équipe dei medici.


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