L’architettura jugoslava al MoMa di New York

8 august 2018

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Tjentište, Kozara, Petrova Gora, Jasenovac, luoghi noti a molti tra coloro che si interessano di storia e memorie jugoslave, dove è possibile ammirare alcuni dei più noti monumenti di epoca socialista.Si tratta di opere che nell’ultimo quindicennio hanno raccolto interesse fuori dai confini dei paesi dove si trovano, un’attrattiva certamente incentivata dalla crescente riflessione accademica e non sulle memorie pubbliche e collettive, sul rapporto tra le società e il loro passato.

Nel 2007 OBCT dedicava il suo primo approfondimento a queste memorie di pietra, esplorando ne Il Cerchio del Ricordo alcuni dei più celebri complessi memoriali della Jugoslavia di Tito, incontrando architetti protagonisti di quell’esperienza oggi scomparsi come Bogdan Bogdanović e Dušan Džamonja.

Per quanto negli anni ricerche e iniziative divulgative si siano moltiplicate, l'architettura jugoslava ha raggiunto il grande pubblico soprattutto grazie a gallerie fotografiche virali che presentano le opere jugoslave in modo del tutto decontestualizzato, sganciate dai propri significati politici e sociali, spesso ridotte a bizzarrie “venute dallo spazio” o “uscite da un film di fantascienza”.

Quest’estate le sagome dei monumenti jugoslavi sono riapparse su diversi giornali, a corredo di articoli di presentazione di un’attesa mostra aperta al Moma di New York dal 15 luglio: Toward a concrete utopia: architecture in Yugoslavia 1948-1980. Le presentazioni e le parole dei curatori – i principali Martino Stierli, Vladimir Kulić, con cui hanno collaborato alcuni dei principali esperti di diversi paesi post-jugoslavi – evidenziano tuttavia la diversità di prospettiva. L’esposizione intende presentare in modo ampio e approfondito il peculiare percorso dell’architettura jugoslava socialista nel suo complesso, tra le influenze intrecciate della guerra fredda, nelle sue specificità ma anche nel suo essere parte di evoluzioni internazionali, nel tentativo di rispondere ai problemi della modernità in costante relazione con i valori politici e sociali di quel paese. Secondo Vladimir Kulić, professore di architettura all’Università della Florida, la mostra ha “la potenzialità di risultare trasformativa per la percezione dell’architettura non solo in ex Jugoslavia, ma forse in tutto l’ex mondo socialista”.

L’esposizione promette grande approfondimento: più di 400 disegni, modelli, fotografie e filmati racconti in archivi pubblici, collezioni private e musei in tutta la regione. Il visitatore potrà soffermarsi ad esempio sul piano per la ricostruzione di Skopje dopo il terremoto del 1963 e sulla progettazione di interi quartieri come Novi Beograd e Split 3. Scoprire edifici divenuti celebri come la biblioteca di Pristina e le strutture innalzate lungo la costa adriatica per sostenere lo sviluppo turistico nel paese, oppure apprezzare il design ormai iconico del kiosk jugoslavo.

Protagonisti assoluti sono i grandi architetti e architette dell’epoca: da Juraj Neidhardt a Edvard Ravnikar a Vjenceslav Richter, da Svetlana Kana Radević a Milica Šterić. I monumenti dedicati alla resistenza partigiana e alle tragedie della Seconda guerra mondiale naturalmente non mancano, ma promettono di trovare qui la necessaria contestualizzazione,tra funzioni politiche e commemorative, spinte intrecciate dall’alto e dal basso, ruolo dell’arte nel processo di rielaborazione del conflitto.

Non si può escludere che la popolarità da “social network” dei monumenti jugoslavi abbia favorito la realizzazione di questa mostra, ma lo sforzo promosso dai curatori e dai collaboratori è quello di superare tale rappresentazione superficiale. Nei paesi della regione l’interesse per questo aspetto del passato comune un po’ sorprende, un po’ inorgoglisce e fa discutere. Il pubblico del MoMa potrà conoscere un’esperienza architettonica e politica inedita, frutto del percorso elaborato dalla Jugoslavia socialista attraverso la seconda metà del XX secolo.


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