La RAI chiude le sue trasmissioni in onda corta, notiziari redatti in 26 lingue diverse. In quest'articolo i motivi per i quali è un'occasione persa. Soprattutto per le relazioni con il bacino Euromediterraneo

24/09/2007 -  Rando Devole

La notizia c'è. Anche se non appare sulle prime pagine dei quotidiani. La RAI ha deciso di chiudere le trasmissioni radiofoniche in onda corta. Si tratta di notiziari trasmessi in lingua italiana e in circa ventisei lingue estere parlate in cinque continenti diversi. I beneficiari di questo servizio sono gli italiani all'estero ed i pubblici interessati, che possono sentire le notizie della RAI nella propria lingua. Per curiosità storica, ma non solo, bisogna dire che tale servizio veniva inizialmente gestito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, attraverso il Dipartimento per l'Informazione e l'Editoria. Questo negli anni successivi alla II Guerra Mondiale. In seguito, precisamente dal 1962, è stata la RAI, che in base ad una convenzione firmata con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha trasmesso una programmazione radiofonica in onda corta. Nell'ultimo rinnovo della convenzione non si parla più di onde corte. Significa che tra pochissimo tempo la RAI, nelle relative frequenze, non si sentirà più. Non ci saranno più notiziari in rumeno, bulgaro, albanese, serbo-croato, ecc.

Non si può certo negare che un servizio del genere, che proviene dai tempi bui del muro di Berlino, abbia bisogno di un'adeguata riconfigurazione e di efficaci aggiornamenti. Ma la RAI pare abbia l'intenzione di cancellare in toto questo progetto. La decisione sembra ancor più incomprensibile se si cita la recente convenzione stipulata in luglio con la Presidenza del Consiglio dei Ministri sull'informazione e i programmi per l'estero. Infatti, vi si dice che la programmazione deve raggiungere gli italiani all'estero, ma anche i "cittadini stranieri interessati o interessabili all'Italia e al suo sistema di valori, culture, stile di vita, beni artistici e paesaggistici, creatività e prodotti". Si parla perfino della necessità di rafforzare la presenza informativa italiana in aree di particolare interesse per il Paese, quali ad esempio "il Bacino del Mediterraneo ed i Balcani".

I Balcani rappresentano forse l'area in cui la chiusura dei notiziari appare completamente illogica. E non solo alla luce della summenzionata convenzione. I Balcani hanno sempre costituito un buco nero per quanto riguarda l'informazione mediatica. Pochi sono i centri che producono informazione di qualità in merito alle vicende balcaniche. I grandi media girano la testa solo quando accadono eventi di forte impatto, offrendo una copertura mediatica alquanto frammentaria, superficiale e parziale. Ciononostante, il canale di comunicazione con quei Paesi rimane unilateralmente attivo, poiché i pubblici che vogliono ascoltare la voce delle istituzioni italiane, le varie analisi, oppure semplicemente ciò che succede nel Bel Paese, non possono più farlo. I canali RAI sono muti.

Il caso albanese forse è quello più emblematico. Per amor del vero le notizie RAI in albanese non hanno mai avuto una grande audience. Il culmine positivo probabilmente è stato raggiunto durante la Guerra Fredda. In quel periodo, quando l'Albania si autofortificava di bunker e jammers, c'erano sicuramente più sintonizzati di adesso. Le onde radiotelevisive RAI hanno conosciuto allora il loro periodo d'oro. Gli albanesi erano curiosi di sapere ciò che succedeva nella Penisola italica, forse spinti più dalla voglia di evadere che dall'interesse reale sulle dispute sfuggenti del pentapartito. Fatto sta che il notiziario RAI, in italiano o in albanese che fosse, destava interesse nel pubblico albanese, oltrecché paura di essere scoperti dalle spie del regime.

La curva dell'attenzione nei confronti dei notiziari della RAI in lingua albanese è caduta verticalmente con il crollo del regime totalitario. Complici la conoscenza dell'italiano, l'apertura dei confini, l'emigrazione massiccia, la messa in onda dei canali televisivi, la diffusione delle paraboliche, l'aumento dell'offerta, e così via. Complice anche la qualità sempre più scadente del notiziario stesso, tradotto e pronunciato perfettamente in albanese, ma senza nessun legame con la realtà del piccolo Paese balcanico che affrontava problemi senza precedenti. Alla trasmissione in albanese è mancata non solo la definizione del cosiddetto target, ma anche una opportuna pubblicità del servizio stesso.

Nello stesso periodo, altri broadcasters internazionali seguivano strategie opposte. Inizialmente la VOA (Voice of America), e poi la BBC, hanno potenziato il servizio in albanese con servizi e collegamenti ad hoc dall'Albania e dall'estero. In seguito, perfino la tedesca DW (Deutsche Welle) ha ritagliato uno spazio alle notizie in lingua albanese. Specialmente in periodi di crisi queste trasmissioni monopolizzavano l'attenzione del pubblico albanese, sebbene fossero ascoltate in onde corte, dunque con qualche eventuale rumore in agguato. Alcuni di questi programmi radiofonici hanno cominciato ad essere trasmessi nelle frequenze albanesi FM, ospitate spesso da altri canali albanesi, persino televisivi.

Mentre le radiotelevisioni europee miglioravano il loro servizio in albanese, la RAI lasciava atrofizzare quello che aveva. Tutto questo succedeva in momenti cruciali per i Balcani stessi, dall'operazione Pellicano all'operazione Alba, dalla guerra di Bosnia a quella del Kosovo. Per arrivare ai giorni nostri, ancora più decisivi, visto che siamo alla vigilia della definizione dello status del Kosovo e di altri eventi importanti. Tutto ciò si verificava in un contesto dove il peso specifico dell'italiano, come lingua e come cultura, perdeva progressivamente terreno a favore di altre lingue e paesi. Le nuove generazioni in Albania, a differenza di quelle precedenti, sono più orientate verso la cultura anglosassone. Per motivi tutti da approfondire, preferiscono imparare l'inglese piuttosto che l'italiano. Di conseguenza l'audience delle radio e delle televisioni italiane ha subito un naturale calo. Per giunta, l'offerta radiotelevisiva locale è diventata col tempo sempre più ricca.

È evidente che nella situazione venutasi a creare la decisione di non preparare un palinsesto alternativo o sostitutivo per la trasmissione dei programmi radiofonici nelle varie lingue straniere sembra ancor più inspiegabile. Dal punto di vista geostrategico le cose si complicano ulteriormente. Gli analisti del settore concordano sul fatto che l'unico spazio dove l'Italia può esercitare la sua influenza è quello euromediterraneo. Infatti, l'area euromediterranea permette all'Italia, per sua vocazione storica e culturale, di proiettarsi autorevolmente e positivamente sulla scena internazionale. Il caso ancora recente del Libano lo conferma senza equivoci. Questa politica non sarebbe in contrasto né con l'Europa, né con il Patto Atlantico. Anzi, sarebbe d'aiuto e lungimirante per creare spazi di pace e prosperità in questo mondo multipolare e sempre più difficile da gestire.

Dall'altro lato, l'Italia è legata ai Balcani non soltanto dalla geografia. Certamente, questa implica un certo impegno per la stabilità dell'area, l'integrazione di questi paesi confinanti nelle strutture euro-atlantiche, la lotta alla criminalità organizzata, e così via. Non bisogna dimenticare anche la presenza militare italiana in quest'area. Ma c'è anche l'aspetto economico: un flusso sempre più consistente di commercio e investimenti collega le due Penisole. In questo ambito, tenendo presenti gli obiettivi della cooperazione allo sviluppo, la presenza culturale italiana diventa imperativa. D'altronde le varie sigle che indicano iniziative bilaterali e regionali, e gli innumerevoli tecnicismi del politichese internazionale tipo institution building, suonerebbero totalmente vuote se non fossero affiancate da un'azione informativa basata sui valori europei.

Paradossalmente, la proiezione euromediterranea dell'Italia forse è più visibile all'estero che all'interno. Dai Balcani stessi viene riconosciuto all'Italia un ruolo essenziale nella regione. Ovviamente si tratta di un vero stimolo per la politica estera e la cultura italiana, ma anche un invito ad assumersi le proprie responsabilità. Ma in un'epoca in cui la parola d'ordine è "scontro di civiltà", la creazione di uno spazio d'incontro tra culture diverse ha bisogno più che mai di dialogo, scambio, ponti. Ma, chiudere i canali di comunicazione nelle lingue dell'area significa andare nella direzione giusta?